martedì 11 novembre 2008

Per Blair la priorità per Obama è Israele

Oggi su “La Stampa”, la corrispondente da Gerusalemme Francesca Paci pubblica un’intervista a Tony Blair. Titolo: “Barack cominci da Israele”. L’ex premier: “Il nodo è tra Islam e Occidente, l’Iraq viene dopo”.

L’elezione di Barack Obama è una grande opportunità per il processo di pace tra israeliani e palestinesi, ho grandi aspettative». L’ex premier britannico Tony Blair siede sul divano in pelle nell’ufficio al terzo piano dell’America Colony, il leggendario albergo di Gerusalemme Est dove dormirono Lawrence d’Arabia, Winston Churchill, Graham Greene. Da quando è stato nominato inviato speciale del Quartetto per il Medio Oriente, Blair ha requisito una decina di stanze e ne ha fatto il suo quartier generale, appendendo alle pareti tappezzate di fotografie di lord Edmund Allenby, il generale che cacciò i turchi da Gerusalemme nel 1917, gigantesche mappe della Cisgiordania. È un Blair sorridente ed estremamente energico, non certo un leader in pensione. Camicia azzurra, gessato blu, un papavero di carta sul bavero della giacca, simbolo britannico di ricordo dei caduti nella prima guerra mondiale, risponde alle domande della Stampa e un ristretto numero di giornali stranieri con l’aria eterna del ragazzo inglese che va di corsa, un po’ Beatle un po’ cool Britannia.
Dice di contare molto sul sostegno del presidente Obama nella sua azione di pace in Medio Oriente e non crede agli scettici, persuasi che il nuovo Presidente penserà alla crisi economica prima che a Gerusalemme.
«Sbagliano. Obama ha una visione genuina del ruolo che l’America può giocare nel mondo e si occuperà subito del Medio Oriente. Certo, l’economia è priorità assoluta. Ma per quanto riguarda la politica estera tutti i fronti aperti sono influenzati dalla questione israelo-palestinese. Con differenti dimensioni, Iraq, Iran, Afghanistan, sono facce dello stesso problema, il rapporto tra islam e Occidente. Qualsiasi progresso qui, non può che avere effetti positivi sul resto. Tutti i leader musulmani non fanno che ripeterlo e non solo nel mondo arabo, anche in Turchia».
Domenica a Sharm el Sheik il Quartetto dei mediatori - Usa, Russia, Europa e Onu - ha ribadito che i negoziati tra israeliani e palestinesi sono «sostanziali, promettenti e irreversibili». Risultati concreti però, non se ne vedono. Come fa a essere ottimista? «Sono convinto che appena la situazione politica in Israele si sarà stabilizzata si apriranno reali opportunità di raggiungere un accordo di pace. La novità di Sharm el Sheik e di questi mesi è che la comunità internazionale ha definito una strategia comune centrata sulla sicurezza d’Israele e lo sviluppo economico dei palestinesi, compresa la loro possibilità di muoversi senza restrizioni. La Road Map continuerà perché c’è la volontà di andare avanti e l’elezione di Obama lascia ben sperare. Con l’era Bush finisce la fase del dibattito politico autoreferenziale senza effetti sulla vita reale della gente. A questo punto bisogna che le parti facciano gli sforzi necessari».
Quando parla delle parti include Hamas, il partito islamico che controlla la Striscia di Gaza? «Hamas sa che c’è una linea rossa, il riconoscimento dello Stato d’Israele. Non può esserci unità tra i palestinesi senza una posizione unitaria e per la soluzione del problema sono necessari due Stati. Alla fine i dirigenti di Gaza concorderanno. Violenza e terrorismo non sono sbagliati solo moralmente ma anche politicamente perché forniscono la giustificazione all’occupazione e al blocco di Gaza e persuadono parte degli israeliani che è impossibile far la pace con i palestinesi».
Hamas intanto, raccoglie consenso denunciando l’inutilità di un negoziato che, finora, ha prodotto solo belle parole. Come risponde? «La situazione per la gente di Gaza è terribile. Se i palestinesi vedessero una chance vera di ottenere il proprio Stato la sosterrebbero sicuramente».
Come ci si arriva? «La comunità internazionale ha una strategia comune, ha stabilito dei parametri, ora dobbiamo cambiare la realtà sul territorio. Non otterremo nessun successo politico senza migliorare le condizioni di vita della gente. Ci dobbiamo curare della sicurezza di Israele ma anche della preoccupazione dei palestinesi per l’occupazione, la sofferenza, l’umiliazione, la difficoltà di movimento. Per la prima volta il ministro degli esteri israeliano e il presidente palestinese Abu Mazen hanno messo sul tavolo tutti i nodi, nessuno escluso. Dialogano senza tabù».
Da un lato c’è Hamas, dall’altro l’espansione degli insediamenti israeliani in Cisgiordania. Ne avete discusso a Sharm el Sheik? «Il dato più importante di domenica è l’intesa affinché i negoziati continuino. Non guardate la Road Map, il piano di pace lanciato dall’amministrazione Bush, come dovrebbe essere ma com’era diciotto mesi fa, all’inizio Da allora abbiamo fatto progressi. I posti di blocco israeliani, sono in parte diminuiti: non è abbastanza e molto va ancora fatto ma è un inizio. A Jenin, l’ex capitale dell’Intifada, abbiamo lanciato l`industrial park per incoraggiare l’economia e la buona performance della polizia palestinese addestrata in Giordania dimostra che è possibile costruire uno Stato dal basso. Lo scorso gennaio, alla conferenza di Parigi, i Paesi donatori hanno rinnovato l’impegno finanziario a favore dei palestinesi. Ci aspetta parecchio lavoro. Il problema degli insediamenti è serio ma l’unica soluzione resta un accordo sul territorio».
Ha appena incontrato il leader del Likud Benjamin Netanyahu, possibile futuro premier israeliano e sostenitore di una pace economica con i palestinesi indipendente da quella politica. Pensa sia possibile separare le due cose? «Assolutamente no. Economia, politica e sicurezza sono tre elementi indivisibili. Lo capiscono tutti e Netanyahu lo sa benissimo».
Il divorzio tra il partito della Livni, Kadima, e i nazional-religiosi dello Shas, contrarissimi alla divisione di Gerusalemme, ha rafforzato Netanyahu che ora può contare sul voto ultraortodosso. Se dovesse vincere le elezioni il processo di pace ne risentirebbe? «Sbaglierò, ma sono certo che i negoziati proseguiranno chiunque vinca a gennaio. Il premier uscente Ehud Olmert lascia un’eredità chiara d’impegno per il negoziato e la presidenza Obama infonderà energia».
Due giorni fa i ministri degli esteri di Bahrein, Giordania, Egitto, Marocco ed Emirati Arabi hanno espresso preoccupazione sull’eventualità che la nuova amministrazione americana dialoghi con l’Iran rafforzandone così il prestigio nella regione. Vede questo rischio? «Direi di no. Sull’Iran il presidente Barack Obama agirà con intelligenza e sarà forte».
Che ruolo avrà ora l’Europa? «In Medio Oriente l’Europa è un partner importante, soprattutto nel campo della giustizia e della sicurezza. A differenza che in passato, il vecchio continente ha oggi la stessa agenda degli Stati Uniti. E mi sembra che anche da parte d’Israele l’attitudine verso l’Europa sia mutata, sia più aperta».
Che progetti ha per i prossimi mesi? Ride. «Resterò qui ovviamente. Mi diverto molto. La situazione non è così drammatica come appare».

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