sabato 17 gennaio 2009

L'antisemitismo, la malattia senile del post-comunismo

Credo un'utile riproposta qui, oggi, quella dell'intervento del presidente della Camera dei Deputati, Gianfranco Fini, tenuto il 16 dicembre 2008 a Montecitorio presso la Sala della Regina durante il Convegno "1938-2008 Settant'anni dalle leggi antiebraiche e razziste, per non dimenticare" . Oggi che la bandiera dell'antisemitismo sembra essere raccolta oltre che da neo-nazisti e neo-fascisti anche con estrema leggerezza da insospettabili frange della sinistra seppure lo mascherino da "anti-sionismo".

Rievochiamo oggi una pagina vergognosa della storia italiana. Le Leggi antiebraiche e razziste approvate nel 1938 e che hanno rappresentato uno dei momenti più bui nelle vicende del nostro popolo. Approfondiremo quel triste capitolo storico con l’aiuto di Renzo Gattegna, Presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, dello storico Michele Sarfatti e di Nedo Fiano, testimone dell’orrore di Auschwitz. Una testimonianza sulla necessità di mantenere viva la memoria di quegli eventi presso i giovani ci verrà dalla studentessa Zoe Brandizzi. Saluto e ringrazio gli oratori per l’importante contributo che si apprestano a fornire al convegno. Settant’anni fa, gli ebrei italiani furono colpiti, come uomini e come cittadini, da provvedimenti che stabilirono assurde discriminazioni nella vita economica e civile; l’allontanamento dagli uffici pubblici, dalle banche e dalle assicurazioni; o la proibizione di avere dipendenti o di possedere terreni e aziende. Particolarmente odiose furono le discriminazioni ai danni dei bambini e dei ragazzi o quelle che prevedevano il divieto dei matrimoni misti. Un esempio tra i tanti Rita Levi-Montalcini, Premio Nobel e Senatore a vita. A causa del “Manifesto della razza” dovette abbandonare patria, famiglia , affetti, sicurezze e lavoro; l’ospedale presso cui lavorava. Tutto. E trovare rifugio in Belgio, attrezzando in cucina un piccolo laboratorio di fortuna. Poi, l’invasione nazista; il rifugio ancora in Italia,a Firenze; sulle colline di Asti e infine a Torino. La professoressa Levi-Montalcini fu tra quanti – con le parole di Primo Levi- “sperarono di poter sopravvivere per poter raccontare”. Con la memoria di questa infamia dobbiamo fare i conti, dopo settant’anni, come nazione e come cittadini. Farli senza infingimenti e senza ambiguità. Il fatto che tali provvedimenti siano stati approvati a Montecitorio provoca un sentimento di tristezza, pur nell’ovvia considerazione che la Camera dei deputati della Repubblica italiana non ha nulla a che vedere con l’Assemblea che il fascismo aveva svuotato di qualsiasi contenuto democratico. La circostanza verrà ricordata in una lapide che sarà scoperta in questa Sala al termine del convegno. Vogliamo che il ricordo della vergogna di settant’anni fa sia di ammonimento per difendere e promuovere sempre i valori libertà e dignità della persona sanciti dalla Carta costituzionale italiana. Oggi fare seriamente i conti oggi con l’infamia storica delle Leggi razziali significa avere il coraggio di perlustrare gli angoli bui dell’anima italiana. Il che vuol dire sforzarsi di analizzare le cause che la resero possibile in un Paese profondamente cattolico e tradizionalmente ricco di sentimenti d’umanità e solidarietà. Tra queste cause c’è certamente l’anima razzista che il fascismo rivelò pienamente nel 1938, ma che era comunque già presente nell’esasperazione nazionalistica che caratterizzava il regime. Segni inequivocabili di razzismo s’erano già manifestati nella politica coloniale. Vale la pena ricordare la campagna propagandistica - “faccetta nera” - che fu lanciata subito dopo la guerra d’Etiopia contro quella che era definita la “piaga del meticciato”. Un Regio Decreto del 1937 vietò le “relazioni matrimoniali” tra gli italiani e quelli che erano chiamati i “sudditi delle colonie africane”. L’odiosa iniquità delle Leggi razziali si rivelò in modo particolare a quegli ebrei che avevano aderito al fascismo. Tra i nomi più noti c’è quello di Guido Jung, che era stato ministro delle Finanze tra il 1932 e il 1935. Oppure quello di un intellettuale come Ettore Ovazza, che aveva partecipato alla fondazione del Fascio di Torino e che nel 1937 aveva confutato un libello antisemita di Paolo Orano. Ma l’ideologia fascista non spiega da sola l’infamia. C’è da chiedersi perché la società italiana si sia adeguata, nel suo insieme, alla legislazione antiebraica e perché, salvo talune luminose eccezioni, non siano state registrate manifestazioni particolari di resistenza. Nemmeno da parte della Chiesa cattolica. A giustificazione potremmo addurre il carattere autoritario del regime - che certo non tollerava manifestazioni di esplicito dissenso - oltre naturalmente alla propaganda pervasiva e al controllo totale dell’informazione e ancor più dell’educazione e dell’istruzione esercitato per un quindicennio. Però dovremmo anche riconoscere che alla base della mancata reazione della popolazione ci furono altri elementi che può risultare scomodo riconoscere. Penso alla propensione al conformismo. Penso ad una possibile condivisione - sotterranea e oscura, negata ma presente – di una parte della popolazione dei pregiudizi e delle teorie antiebraiche. Penso soprattutto a una vocazione all’indifferenza più o meno diffusa nella società di allora. Proprio “Gli Indifferenti” si intitolava il romanzo d’esordio di Moravia, pubblicato nel 1929, con il quale lo scrittore dipingeva quella che a lui appariva già allora come l’inerzia morale della società borghese italiana di fronte all’essenza della persona umana. Lo ricordo perché rileggere gli scrittori può servire a cogliere quelle significative sfumature sociali che possono talvolta sfuggire al meritorio lavoro scientifico degli storici. Denunciare la inequivocabile responsabilità politica e ideologica del fascismo non deve insomma portare a riproporre lo stereotipo autoassolutorio e consolatorio degli “italiani brava gente” . La memoria - ha scritto Elena Loewenthal – non è di per sé uno “scudo inossidabile di fronte al male”. Non lo è se non sappiamo trasformarla in esperienza storica produttiva di insegnamenti. Ciò non significa ignorare o trascurare il coraggio di quegli italiani che seppero opporsi alla barbarie del razzismo e dell’antisemitismo, soprattutto dopo il ’40 nel tempo orribile della Shoah. I nomi di alcuni di quei valorosi sono noti. Pensiamo a Giorgio Perlasca. Oppure al questore di Fiume, Giovanni Palatucci, che salvò cinquemila ebrei e che pagò il suo coraggio e la sua straordinaria umanità con l’internamento a Dachau, dove morì a soli 36 anni. Oppure al Console di Salonicco, Guelfo Zamboni, che sottrasse centinaia di ebrei al terribile destino della deportazione. A queste personalità straordinarie dobbiamo aggiungere tanti altri italiani, sconosciuti ma non meno straordinari, che si prodigarono per salvare gli ebrei spesso a rischio della propria vita. Vale la pena ricordare che le storie di tanti di quegli umili eroi sono raccolte in un bel libro uscito all’inizio del 2006 per cui ho avuto l’onore di scrivere la prefazione: “I giusti d’Italia”, curato dal direttore del centro ricerche dello Yad Vashem, Israel Gutman. Tutte quelle storie costituiscono motivo di legittimo orgoglio per l’intero popolo italiano. Ricostruire con rigore la vergogna delle Leggi razziali, guardare senza reticenza dentro l’anima italiana non serve soltanto per raccontare il passato nella sua completezza. Serve anche e soprattutto a preservare il nostro popolo dal rischio di tollerare in futuro, tra inerzia e conformismo, altre possibili infamie contro l’umanità. Ha detto il presidente Napolitano, commemorando nel gennaio scorso il Giorno della Memoria che “bisogna ricordare gli atti di barbarie del nostro passato per impedire nuove barbarie, per costruire un futuro che si ispiri a ideali di libertà e di fratellanza fra i popoli”. Ammoniva Primo Levi che un orrore accaduto nel passato può sempre riaccadere nel futuro. Magari non nelle stesse forme e non con gli stessi pretesti ideologici. Dobbiamo avere la consapevolezza che il fanatismo nemico dei diritti dell’uomo, che purtroppo agisce ancora oggi in tante parti del mondo, può dilagare nel torpore delle democrazie. Per questo dobbiamo mantenere sempre desta e vigile la coscienza dei cittadini. Una democrazia vigile e attenta deve saper contrastare con efficacia l’antisemitismo nelle vecchie e nuove forme ideologiche che questo oggi assume. C’è l’antisemitismo esplicito dell’estrema destra e del neonazismo. C’è quello mascherato da antisionismo dell’estremismo no-global e dell’ultrasinistra. E c’è quello, ammantato di pretesti pseudo-religiosi, dell’islamismo radicale. E’ un antisemitismo, quest’ultimo, che tende ad assumere spesso gravi forme terroristiche, come accaduto recentemente a Mumbai, dove i terroristi hanno assaltato anche il Centro ebraico facendo otto vittime. Le Istituzioni devono impedire che, di fronte a questi fenomeni, si producano fenomeni d’assuefazione nell’opinione pubblica. Un campanello d’allarme lo ha lanciato recentemente Angelo Panebianco, quando ha notato, sempre a proposito della tragedia di Mumbai, che presso gli europei tende a manifestarsi indifferenza nei confronti dell’antisemitismo presente in buona parte del mondo islamico, come se fosse inevitabile, quasi naturale. Oggi, come settant’anni fa, un’ideologia che sopprime i diritti dell’uomo e propugna l’annientamento di uno Stato e lo sterminio di un popolo può produrre grandi tragedie e sofferenze nella complicità silenziosa di una società distratta e indifferente. Come ci ha insegnato Hannah Arendt, il mistero della propagazione del male è un mistero banale. In uno dei suoi libri più famosi, che si intitola appunto “La banalità del male”, scritto a proposito del processo ad Adolf Eichmann che si celebrò a Gerusalemme nel 1960, la filosofa così descrisse l’imputato, reo di aver pianificato materialmente la deportazione degli ebrei nei campi di sterminio: “Le azioni erano mostruose, ma chi le fece era pressoché normale, né demoniaco né mostruoso. Solo grigio e incolore”. Sono parole che devono scuotere ancor oggi le nostre coscienze, perché il male si può riprodurre. Per questo è un dovere ricordare l’infamia di 70 anni fa. Ricordare. Cioè ri excorde. Riportare al cuore. Perché accanto al giudizio della storia ci sia il dovere morale di una profonda indignazione.

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