venerdì 29 ottobre 2010

Inaffondabile

Il centocinquantenario dell'unità massonica d'Italia incombe e Berlusconi è ancora là, l'ex piduista, sì, ma il «traditore» che incarna l'anti «stato massonico» per eccellenza. Fallito ogni attacco al governo, «ci risiamo con la gnocca», come scrive venerdì 29 Belpietro su Libero, aggiungendo: «Ci avevano già provato nell'estate del 2008, facendo trapelare le intercettazioni telefoniche tra il presidente del Consiglio e il direttore delle finction della Rai. Poi ci hanno ritentato lo scorso anno, prima con Noemi Letizia e in seguito con Patrizia D'Addario. Ora spunta Ruby, l'avvenente 17enne marocchina che avrebbe partecipato ad almeno tre cene ad Arcore, presente Silvio Berlusconi e altri personaggi, molti dei quali di sesso femminile. Ma per scoprire che al Cavaliere piacciono le donne non c'era bisogno di aspettare l'ultima rivelazione». Ogni piede di porco va bene pur di scardinare Palazzo Chigi e mandarlo a casa. Ormai lo si è capito bene, gl'italiani tutti lo hanno capito bene, anche se molti si turano il naso di fronte al verminaio di una fronda che pur di riprendersi il potere è disponibile e disposta a mandare a ramengo il Paese. E che l'Italia abbia ormai capito il gioco, lo stanno a dimostrare i sondaggi, che a fronte d'ogni bieco sforzo di screditare il premier, non mostrano di dare fede all'antiberlusconismo viscerale e ai barbari oppositori che tentano di mettere a ferro e fuoco Arcore. Non c'è alternativa insomma con buona pace del cabarettista da Bettola Bersani e degli altri comici democratici.
L'ultimo sondaggio Ipsos fatto il 25 ottobre per la puntata di Ballarò del 26 ottobre 2010 e che riguardava i leaders, l'azione di governo, la giustizia, l'emergenza rifiuti e le dichiarazioni di Marchionne, è implacabile: non c'è alternativa oggi al Cavaliere. La «cricca» massonica trasversale deve farsene una ragione e festeggiare il centocinquantesimo della sua «unità» del Paese con Berlusconi premier e la Lega al governo.
Ma vediamo alcuni aspetti del sondaggio che sono degni di attenzione e di riflessione, cominciando con il dato di quanti, in caso di nuove elezioni a breve, si dichiarano indecisi o per l'astensione o non indicano alcuna preferenza, un dato significativo, il 42,5%, che dimostra chiaramente che, se dubbi vi sono verso la maggioranza, ormai è ben chiaro anche che «il re è nudo» per quanto riguarda l'opposizione scalcagnata del Pd. Anzi il dato relativo ai democrat è allarmante, 24,2%, il minimo storico. Ma anche gli altri dati sulla sinistra e su forze d'opposizione populista come l'Italia dei valori e il Movimento 5 stelle di Grillo contribuiscono ad affondare la gioiosa macchina da guerra di Bersani: Sinistra europea, cioè Rifondazione e Comunisti italiani, 2,3%; Sinistra e libertà di Vendola 6,1%; Di Pietro con il suo Idv 8,3%; Grillo e il suo movimento 3,7%. Tutti insieme fanno un bel 20,4%. Se questo non significa il fallimento della segreteria Bersani, cos'altro dovrebbe decretarlo. E non è un caso che annaspando per non affogare definitivamente i democrat invochino un ribaltamento che darebbe loro un'illusoria possibilità di rimettersi in carreggiata nella corsa al consenso; seppure ci si dovrebbe spiegare come possa produrre consenso una sorta di colpo di stato contro l'espressione della volontà popolare quale sarebbe un governo tecnico.
Il sondaggio dà un costante 6,0% all'Udc e attesta Futuro e libertà sul 5,3%. C'è però da chiedersi se quest'ultimo dato rimarrebbe tale a fronte di uno spostamento dei finiani con un'alleanza «impossibile» con i democrat. Non parliamo poi di «terzo polo», che è solo una finzione parlamentare, in quanto Rutelli e la sua Alleanza è «non pervenuta», raggruppata com'è nel sondaggio in quel 2,5% di «altri».
Insomma, un'unica chance elettorale potrebbe venire da una neo fantomatica Unione, fantomatica perché se messa in piedi sarebbe da parte del Pd un rimangiarsi oceani di parole. Cioè lo sputtanamento definitivo della scelta veltroniana e, dunque, la sconfessione della creazione del partito «nuovo».
La destra: Pdl al 29%, lo è da un po', dunque nulla di nuovo; Lega 11,3%; La Destra 1,3%. Insieme 41,6%, poco più del doppio del consenso del Pd.
Il sondaggio Ipsos poi esprime il gradimento per i leaders politici che qui mostriamo più significativamente usando come indicatore non la percentuale ma il rapporto tra voti positivi e negativi: Napolitano 4,82; Tremonti 1,16; Vendola 1,13; Fini 0,94; Bersani 0,84; Beppe Grillo 0,74, Berlusconi 0,69; Casini 0,67; Schifani 0,63; Di Pietro 0,59; Bossi 0,42. Fornisce anche il gradimento per alcuni leader non politici: Luca Cordero di Montezemolo 1,19; Marcegaglia 1,36; Draghi 1,79; Marchionne 0,75. Stante i dati del gradimento, può venire il sospetto di trovarsi di fronte ad un campione orientato a sinistra, come le solite liti tra esponenti del centrodestra e Pagnoncelli suggeriscono. Ma se così fosse, il dato «guadagnato» dai democrat sarebbe ancor più allarmante e disastroso.
La cosa curiosa del sondaggio sono le domande specifiche, ad esempio quelle sull'attività del governo. Secondo la Ipsos che chiede: «Ad oltre due anni dal suo insediamento, lei personalmente direbbe che complessivamente il governo Berlusconi l'abbia...», i delusi sarebbero il 54%, i soddisfatti solo il 16%, mentre quanti ritengono che sia ancora presto per giudicare il 25%. Eppure nonostante queste dichiarazioni lo stesso campione dà ancora a Berlusconi i numeri per uscire vincente da eventuali elezioni a breve. Lo stesso per la domanda: «Nei giorni scorsi il ministro Tremonti ha annunciato la messa a punto di una profonda riforma fiscale. Lei personalmente pensa che il Governo riuscirà a portarla a termine entro il 2013, alla scadenza della legislatura?», il 26% ha risposto sì, il 65% ha risposto no, e nonostante questa manifesta sfiducia nella capacità del governo lo stesso campione dà i numeri a Berlusconi per governare. Misteri dei sondaggi.
Ma non solo, la Ipsos su indicazione di Ballarò chiede al campione: «Parliamo ora del cosiddetto Lodo Alfano Bis. Lei personalmente ritiene che questo Lodo sia...» e solo il 14% ritiene che sia «un provvedimento necessario: è importante tutelare il Presidente del Consiglio da ogni possibile forma di persecuzione da parte della magistratura», mentre il 25% lo ritiene «una perdita di tempo: toglie risorse ed energie alla risoluzione dei veri problemi del Paese»; ma ben il 53% lo dichiara «una vergogna: l'ennesima legge ad personam per togliere Berlusconi dai suoi guai giudiziari». Eppure lo stesso campione offre a Silvio Berlusconi la possibilità di tornare a fare il premier in caso di elezioni a breve. Un paradosso evidenziato anche dalla seconda domanda: «Per uscire una volta per tutte dalla questione giustizia, secondo lei in questa situazione...», il 64%, infatti, ritiene che «Berlusconi dovrebbe rinunciare a ogni possibile scudo e accettare di celebrare i processi che lo vedono coinvolto dimostrando la sua piena innocenza», mentre solo il 27% ritiene che «si dovrebbe approvare una legge specifica che consenta a Berlusconi di rimandare i processi che lo vedono coinvolto al termine del suo mandato di Premier». Eppure, pur avendo la possibilità di dichiarare con l'intenzione di voto la volontà di mandarlo a casa a farsi processare, lo stesso campione dà i numeri per continuare a tenerlo al governo.
Un'ultima domanda riguardava il caso Marchionne e Fiat ed il 60% del campione ha detto di non credere che senza l'Italia i conti della Fiat sarebbero decisamente più positivi. Scontato, ma più interessante la domanda successiva sul «ritardo» dell'Italia: la metà del campione 50% ha dichiarato di ritenere che la politica italiana degli ultimi anni ha protetto le categorie meno efficienti per un vantaggio politico, il 16% che i sindacati sono ancora troppo ideologizzati, il 14% che gli imprenditori non hanno investito per migliorarla. Per l'80% del campione, insomma, l'intera classe dirigente della nazione è da buttare a mare. Confortante. Buon centocinquantenario.

venerdì 8 ottobre 2010

Il bersaglio

Scriveva giovedì 7 Nicola Porro in un suo commento su Il Giornale, evidenziando come per l'opposizione il problema non sia in realtà la legge elettorale, ma Berlusconi, e come sia proprio lui il bersaglio di tutta l'operazione: «L'attuale legge elettorale è chiaramente una schifezza. Come a detta di molti lo era la precedente, il Matarellum. E come lo era evidentemente quella che gli italiani hanno cancellato con i forconi grazie ai referendum di Mario Segni. Le leggi elettorali in Italia sono come gli abiti del sarto: con il passare del tempo diventano stretti, inadeguati. Se non vogliamo prenderci per i fondelli c'è un solo sistema, molto soggettivo, per definire una buona legge elettorale in Italia: sono ottime quelle regole del gioco che ci permettono di giocare. Il punto è che ogni giocatore ha la sua prospettiva, i suoi voti e le sue diverse convenienze». Il punto è tutto qua. Come osserva Porro: «Dal punto di vista logico una legge elettorale si muove in un pendolo tra stabilità e rappresentanza. Nel mezzo centinaia di piccoli accorgimenti tecnici possono favorire gli interessi degli uni e degli altri».
Porro nella sua nota evidenzia alcune questioni sulle quali è buona cosa riflettere, cominciando dall'anomalia italiana rispetto al resto dell'occidente democratico ed in particolare del mondo anglosassone. Il vicedirettore del Giornale fa alcuni esempi: «In Inghilterra i liberali hanno recentemente conquistato un mucchio di voti: non a sufficienza per governare, ma indispensabili per eleggere un premier. Nessuno ha chiesto di cambiare le regole del gioco: i partiti si sono adeguati alle regole». Secondo esempio: «Negli Stati Uniti neanche il caos che ha portato alla vittoria di George W. Bush, ha portato alla modifica del complesso sistema elettorale. E tanto meno lo richiede quel grande centro che secondo i sondaggi a stelle e strisce cresce di giorno in giorno fino a toccare punte del 30 per cento». Inghilterra, America... già ma noi siamo italiani e così è che oggi tutti, tranne Silvio Berlusconi e la Lega, chiedono il superamento dell'attuale legge elettorale. Dice Porro: «La questione è diventata talmente vitale che si potrebbe creare un'assurda coalizione di volonterosi che non si sa in virtù di quale improvvisa forza (se non la comune antipatia per il Cav) troverebbe un accordo sulla liquida materia elettorale». Del resto, aggiunge Porro, i motivi per buttare nel cestino la «porcata» di Calderoli sono molti, dalla facoltà non data agli elettori di indicare nominativamente chi eleggere, al premio di maggioranza che molti contestano.
Ricorda Porro nel suo pezzo che «l'attuale sistema elettorale non è stato realizzato un secolo fa: ma votato esattamente dagli stessi partecipanti del Parlamento di oggi. A cambiare il Mattarellum (la legge che nacque sulle macerie dei referendum Segni) fu la Casa della Libertà, che oltre a Lega e Forza Italia, aveva al suo interno anche Alleanza Nazionale e Udc. Cosa ha fatto cambiare idea ai rappresentanti finiani e di Casini se non la circostanza di non essere oggi più alleati con Berlusconi?», in tutta evidenza. E Porro aggiunge scoprendo il punto dolente d'ogni opposizione presente e futura: «Fuor di ogni ipocrisia si dica dunque la verità: cambiamo questa brutta legge elettorale che abbiamo contribuito a votare in modo tale da ridurre il peso della coalizione berlusconiana alle prossime elezioni. Poche palle, please». Papale papale: «La nuova legge non sarà in questa prospettiva migliore, ma solo Berlusconi free», sottolinea Porro, ma è cosa evidente a ogni benpensante a fronte della questione così come viene posta oggi dall'opposizione e dai futuristi in quanto tali.
Porro ricorda infine qualcosa che in questi giorni non si sente proprio ricordare: «Un tentativo di modificare il Porcellum c'è stato: i referendum del professor Guzzetta. Un po' come quelli di Segni avrebbero rimesso in discussione l'impianto della legge. Pensate un po' da Franceschini, all'epoca numero uno del Pd, a D'Alema, a Brunetta e Prestigiacomo erano tutti d'accordo nel referendum. Che spostava il premio di maggioranza al partito più votato e aboliva le candidature multiple. Eppure solo il 25 per cento degli italiani andò a votare: una percentuale così bassa da annullare l'esito della consultazione». Un'altra palla che si sente spesso da chi vorrebbe di nuovo la gente con i forconi in piazza è così svelata. Osserva Porro: «Anche qui fuori di ipocrisia. Se oggi qualcuno dice che il tema della legge elettorale è tema sentito e fondamentale del sentire del paese, deve farsi quattro calcoli con l'entusiasmo scarsissimo, con cui, fu celebrato il referendum solo un paio di anni fa». Insomma, in giro c'è chi propaganda bugie sapendo di mentire e confidando sulla distrazione degli italiani e su militanti ciechi e sordi ad ogni ragione.
Regolamentare la materia elettorale significa decidere un insieme di regole che possono fondarsi su infinite soluzioni, che possono variare dal favorire la massima rappresentatività col proporzionale perfetto al puntare sulla massima stabilità con il premio di maggioranza. Bisogna, però fare i conti con la realtà. Dice a conclusione del suo commento Porro: «Difficile pensare che un Parlamento da Fini a D'Alema riesca a mettersi d'accordo sul dettaglio delle regole». Già, ed è evidente pure che «su una cosa possono trovare un accordo: come far fuori Berlusconi». Quindi? «Ma allora ditelo e non prendiamoci per i fondelli». Ottimo invito, ma l'onestà intellettuale purtroppo non è merce che ha un mercato oggi.

Guance rosse

Sul Manifesto, martedì 5 è comparsa una intervista ad Antonio Di Pietro, leader dell'Idv. Due aspetti la rendono interessante per la riflessione politica. Innanzitutto il netto giudizio sulla legge elettorale e sulla sua manfrina tenuta viva dal Partito democratico.
Dice Di Pietro: «Mettiamo una cosa in chiaro: io a quel tavolo non mi sono seduto», intendendo il tavolo virtuale attorno al quale si starebbe coagulando una maggioranza su una legge elettorale da proporre in sostituzione della «porcata» di Calderoli. E spiega: «Per una ragione: temo che la nuova legge elettorale sia una scusa per procrastinare per i prossimi tre anni un governo non eletto». Più chiaro di così, Di Pietro svela gli altarini di Bersani e della sua cricca incapace di attirare quel consenso che sarebbe necessario in caso di elezioni per ribaltare la maggioranza al governo. Insomma governare «per grazia divina» o, per non mescolare il sacro col profano, per grazia del «compagno» Napolitano. Speranza spesso tradita, che mostra un pensiero distorto sulla presidenza della Repubblica non quale garante di tutti, ma degli affini. Un pensiero purtroppo che, mutatis mutandis, si ritrova nella forza egemone del centrosinistra ad ogni livello amministrativo.
E perché non vi siano fraintendimenti Di Pietro specifica: «Sono favorevole alla modifica della legge elettorale, e a farlo in questa legislatura, se ce ne sono le condizioni. E se la legge proposta non è peggio di quella attuale». Già, nessuno lo dice, ma c'è anche questo pericolo da non trascurare. E sottolinea le condizioni: «Se cadesse Berlusconi, e se dovesse nascere una nuova maggioranza con questo solo scopo tecnico. Ma sia chiaro: un governo a tempo, 90 giorni, con la garanzia del capo dello stato». E non solo questo: «Alleanza [con i finiani]? Per noi non c'è nessuna alleanza. Io in questo governo non ci andrei. Non tradisco i miei elettori». Rispetto dell'elettorato, dunque, in Di Pietro ed idee chiare se votarla o no: «Sono pronto a valutare in parlamento l'eventuale proposta. Se vogliono i nostri voti, il premier incaricato deve prima dire quale legge vuole fare. A scatola chiusa non votiamo niente. Tanto senza i nostri voti una nuova maggioranza in parlamento non c'è». Una evidente raccomandata con ricevuta di ritorno per Bersani e la sua mania di egemonismo nel centrosinistra.
La giornalista del Manifesto, Daniela Preziosi, a questo punto, chiede a Di Pietro se un ritorno al mattarellum potrebbe essere una possibile soluzione del problema sollevato dai democrat: «Può essere una soluzione, è meglio del porcellum. Noi preferiamo il maggioritario a doppio turno, ma ci rendiamo conto che è un'idea minoritaria. Così come il proporzionale alla tedesca. Ma siccome li conosco, aspetto la proposta concreta. E prima di dire sì ci penserò due volte». Tanto per ribadire il concetto indirettamente, che Fini può sì disarcionare il Cavaliere, ma che Bersani dia per scontato da Di Pietro un massonico «obbedisco» come quello di Garibaldi, passato alla storia, ce ne corre, e tanto.
La seconda questione rilevante riguarda l'Udc, il partito di Casini. Introdotta da questa considerazione della giornalista: «L'Udc continua a dire che lei è funzionale a Berlusconi», con la risposta di Di Pietro: «È la volpe che non arriva all'uva». Per il leader dell'Idv, l'ipotesi di una alleanza con l'Udc «è una discussione inutile». E spiega: «Bersani mi ascolti: quelli dell'Udc a tutto pensano tranne che al Pd. Il Pd corre appresso alla luna. Io con loro non voglio fare la figura del beccamorto che corre dietro a una bella donna. Il Pd non sa quale erba del prato brucare: se la nostra o quella dell'Udc. Farà la fine dell'asino di Buridano. Morirà di fame».
Interloquendo con la giornalista, Di Pietro esprime il suo giudizio su molti temi riguardanti l'Udc, da Cuffaro, alla Sicilia, all'alleanza «modello Marche» che piace ad Enrico Letta. Così Di Pietro: «Guardi, Cuffaro mi ha fatto una causa civile perché ho detto che lui ha qualche problema con la mafia. Oggi l'Udc si è liberata di questo problema. Domani chissà. Anche perché ha scaricato Cuffaro, ma si è alleato con altri non da meno. Voglio dire Lombardo. Lombardo sta con loro [il Pd] in Sicilia e con Berlusconi a Roma. Bella roba. [E sulle Marche, l'alleanza Pd, Udc, Idv:] è una storia incredibile. Se non ci sto mi dite che faccio perdere il centrosinistra. Se ci sto mi dite che sto con l'Udc. Nelle Marche non volevamo stare con questi. Poi il Pd ha insistito e abbiamo raggiunto questo lodo: il rapporto con l'Udc se lo gestisce il presidente della regione, noi con loro neanche un caffè. Per evitare di consegnare un'altra regione al Pdl, vedi Calabria». E quanto all'ipotesi di fare del modello Marche un modello nazionale: «Credo di no. L'Udc ormai sta facendo un'operazione al termine della quale il Pd rischia di sparire. Creerà il terzo polo, gli ex dc romperanno». E aggiunge poi che quelli che oggi nel Pd vogliono l'alleanza solo con Casini, come Letta, Boccia, Fioroni e parecchi altri, alla fine confluiranno nel terzo polo. Requiem, dunque, per il partito democrat. Del resto, parlando poi del popolo viola, tra l'altro dice: «C'è una prateria di elettori in fuga dai partiti tradizionali. Ce n'è per tutti. Tranne che per il Pd, se continua così». E per chi non avesse orecchie per intendere, un'ultima ripetizione, non si sa mai che suoni la sveglia: «Questa [l'accusa di forzare il popolo viola verso l'Idv] è come la Bresso che dice: ho perso perché i grillini non mi hanno votato. Ma se dopo cinque anni fai scappare gli elettori, guardati allo specchio e prenditi a schiaffi». Già, qualche guancia rossa in giro non guasterebbe.

lunedì 4 ottobre 2010

Confutatio

Domani sarà il tempo di valutare i nuovi rilanci in un dibattito infinito. Un ultimo spazio al dibattito sulla fiducia, comunque, va riservato per raccogliere ciò che non sempre trova spazio sui giornali di gossip politico antiberlusconiano e cioè le ragioni della controparte. Mal si comprende perché ad esso non si dà analogo risalto, per far meglio comprendere, per far riflettere il lettore sulla realtà «reale» e non virtuale. Perché spesso, troppo spesso si preferisce disegnare un mondo virtuale dove Berlusconi è il male e gli altri sono gli «angeli» del bene. Tanto angeli che, chissà perché, quando riescono a governare fanno più danno, molto di più di quanto sia imputato quotidianamente al Cavaliere in una sorta di unisono senza sfumature: «Silvius delendus est».
A stretto giro di posta, per così dire, intervenendo dopo al segretario democrat Bersani risponde, nella sua dichiarazione di voto per conto del Pdl, Fabrizio Cicchitto. E non è tenero: «Signor Presidente, onorevoli colleghi, sgombriamo subito il campo da due questioni. Le elezioni, dopo quelle del 2006, sono state rifatte nel 2008 perché voi del centrosinistra siete implosi ed esplosi e ci avete lasciato varie eredità, fra cui Napoli. Quindi, non potete dare lezioni se non su un punto, che riconosciamo: che bisogna fare ogni sforzo per non essere simili a voi. Se lo diventiamo, cominciano i guai. E, paradossalmente, anche in questi giorni di travaglio del centrodestra il centrosinistra si è diviso, e in modo profondo, addirittura sul piano strategico. Altro che pagine vecchie e pagine nuove! Allo stato il centrosinistra non è un'alternativa. Spera solo di poter usufruire di una insperata opportunità in seguito a errori o a divisioni intervenute nel centrodestra e questo deve servire di lezione a tutti noi».
E continua: «Il centrosinistra non può darci lezioni neanche su un altro piano, quando parla di compravendita dei parlamentari. Gli onorevoli Franceschini, Letta e Bersani sono come gli smemorati di Collegno: dimenticano quello che avvenne nella parte finale della legislatura 1996-2001, quando cadde il Governo Prodi e si diede vita al Governo presieduto dal primo comunista o post comunista nella storia del nostro Paese, l'onorevole D'Alema. Quell'avvenimento nacque in seguito al passaggio al centrosinistra di circa trenta deputati e senatori eletti nelle liste del centrodestra. Una parte di coloro, onorevole Bersani, venne ricompensata con cariche di ministri e di sottosegretari. Allora anche in quel caso ci fu un indegno mercato e una compravendita di deputati? Al contrario, a suo tempo la manovra fu esaltata come una grande operazione politica. Siamo, come al solito, sul terreno dell'esercizio più sfacciato dei due pesi e delle due misure, cosa che ostacola anche ogni serio confronto politico e programmatico. Noi, invece, ci siamo presentati in questo confronto in modo costruttivo e, se qualcuno vuole mandarla in barzelletta, credo che i telespettatori potranno misurare la serietà delle forze in campo».
Appunto, Cicchitto coglie che basta un solo cabarettista, Bersani. Seguirlo su quella strada significherebbe dargli un'importanza immeritata: «Sulla base del discorso fatto oggi dal Presidente Berlusconi, che ha parlato al Parlamento e al Paese e ha identificato alcuni nodi politico-programmatici essenziali, noi siamo impegnati ad assicurare la governabilità in un momento assai difficile per l'economia mondiale, una governabilità finalizzata alla modernizzazione della società e dello Stato. In questo senso raccogliamo anche in termini positivi gli appelli che vengono dalla Chiesa e dal mondo industriale. Il Presidente Berlusconi ha parlato anche sulla base del fatto che in questi due anni, e anche in questi ultimi mesi, il Governo ha lavorato molto intensamente. Ricordiamo la messa in sicurezza dei conti dello Stato, le prime modifiche al mercato del lavoro, gli interventi di emergenza in Campania ed in Abruzzo, il federalismo fiscale, la riforma della scuola e dell'università. Non è colpa del Ministro Gelmini se gli avete lasciato un'eredità disastrosa innanzitutto sul terreno dell'assunzione dei precari».
E centra la questione, che affossa, questa sì, il «meraviglioso» rimbrottare di Bersani: «Onorevole Bersani, mi sembra che in tutti i suoi interventi in questo Parlamento lei si dimentichi di un piccolo dato, di un piccolo elemento che purtroppo ha caratterizzato la vita politica, economica e sociale di questo Paese, ossia il fatto che noi abbiamo vissuto ben due crisi economiche e finanziarie internazionali, prima quella degli Stati Uniti e poi quella derivante dalla Grecia. Questo ci ha creato dei problemi, ha creato dei problemi ad un Paese con questo debito pubblico. E se noi avessimo seguito la vostra strada, che era quella di fare un punto di PIL in debito, oggi saremmo vicini alla Grecia e non in una situazione di difesa dell'economia del nostro Paese. Tutto ciò ed i valori politici che hanno unificato il centrodestra e che ci hanno consentito di vincere per la terza volta le elezioni giustificano adesso il tentativo di superare polemiche e contraddizioni, di governare per altri tre anni in presenza delle difficoltà economiche internazionali e di problemi interni che, come la bassa crescita, la bassa produttività, la stessa alta pressione fiscale, non sono responsabilità dell'attuale Governo ma, se andiamo a vedere le cifre, sono storicamente punti critici del sistema economico italiano fin dagli anni Novanta, peggiorati da alcune finanziarie (come quella famosa del Governo Amato) e che richiedono, quindi, un impegno di medio-lungo periodo per essere affrontati e superati».
E quindi passa alla questione della tanto strumentalizzata crisi del centrodestra: «Abbiamo allora il diritto-dovere di fare ogni tentativo anche per superare contraddizioni e polemiche interne al centrodestra. Il Presidente Berlusconi ha rilevato che "in questi giorni l'immagine che dà di sé la politica è molto peggio del teatrino di sempre". Anche il centrodestra, purtroppo, in alcuni momenti è stato coinvolto in questa realtà negativa. Oggi il senso di questo dibattito è quello di fare ogni sforzo per superare questa situazione e ciò può avvenire a condizione che ci sia il concorso di tutti. Ho ascoltato con attenzione gli interventi dell'onorevole Moffa e dell'onorevole Bocchino. Mi auguro che il senso politico non solo del voto di Futuro e Libertà, ma anche dei loro interventi, sia il seguente: la fine di ogni guerriglia mediatica, l'esclusione di un disegno di logoramento e, invece, l'impegno comune per tre anni per un Governo riformatore. Su questo terreno si misura l'intelligenza, onorevole Bocchino, e la maturità del centrodestra».
È quindi la volta di confutare la tesi che democrat e altri stanno portando avanti sulla legge elettorale: «Il senso dell'intervento del Presidente Berlusconi è, quindi, quello di reagire ad ogni deriva distruttiva e di tutelare il voto del 2008 che ha espresso in modo inequivocabile una maggioranza costituita dal Popolo della Libertà, della Lega Nord Padania e da altri gruppi e forze politiche. A nostro avviso, il riferimento alla sovranità popolare è essenziale: da tempo si è aperta una fase che attribuisce ex ante al popolo, al momento delle elezioni, il potere di decidere chi è il Presidente del Consiglio e la coalizione che governa, e non ex post, dopo le elezioni, ai partiti la facoltà di poter combinare gli equilibri di Governo indipendentemente dalla volontà popolare.
Voi dite che questa legge elettorale impedisce all'elettore di scegliere il deputato dando tutto il potere alle segreterie dei partiti. A parte il fatto che nel sistema uninominale questo potere, al di là delle ipocrisie, rimane totalmente nelle mani dei partiti attraverso la dislocazione dei candidati nei collegi buoni e in quelli cattivi (che sono largamente conosciuti da ogni singolo schieramento, a parte un numero limitato di collegi marginali), voi in effetti, puntando ad eliminare il premio di maggioranza, volete togliere ai cittadini proprio il potere fondamentale di scegliere il Presidente del Consiglio e il Governo. Questo è lo scettro che va mantenuto al popolo!». In realtà, l'unica soluzione nel senso indicato dalle opposizioni sarebbe il ritorno al proporzionale, ma al di là dei dubbi sulla governabilità, mancando il «voto utile», sbriciolerebbe il Partito democratico, ridando a sinistra voce a tutti quelli che Veltroni con la sua scelta ha zittito, cacciandoli dal Parlamento.
Un accenno Cicchitto lo dedica a Casini: «Onorevole Casini, oggi non è in crisi il bipolarismo fisiologico, ma un bipolarismo selvaggio fondato sulla demonizzazione dell'avversario. Vorrei ricordare all'onorevole Bocchino che garantismo e legalità non sono alternativi, ma debbono essere le due facce della stessa medaglia. Infatti, l'utilizzo politico della giustizia è una delle forme più gravi di illegalità perché è prodotta dalla faziosità di una parte dei magistrati». E quindi passa alla conclusione: «Di conseguenza, per concludere, il nostro obiettivo è positivo e costruttivo da tutti i punti di vista: da quello dell'attività di Governo testimoniata dall'introduzione e dalla replica del Presidente Berlusconi, da quello del miglioramento dei rapporti nel centrodestra e anche da quello - se ci fosse una qualche disponibilità dell'altra parte - del confronto con le forze dell'opposizione: non a caso il Presidente del Consiglio ha evocato i temi della riforma costituzionale. Facciamo tutto questo senza alcun complesso di inferiorità, né nei confronti delle mistificazioni e delle demonizzazioni della sinistra, né nei confronti dell'eventuale ripresa di guerriglia mediatica. Infatti, noi abbiamo piena consapevolezza di dover rispondere in primo luogo al popolo di centrodestra che ci ha sostenuto e votato in ben tre elezioni: quelle nazionali, europee e regionali. A quel popolo, da questa tribuna parlamentare, inviamo il nostro saluto».

domenica 3 ottobre 2010

Dieci minuti

Molti interventi nel corso del dibattito parlamentare alla Camera dei deputati, sulla fiducia a Silvio Berlusconi, contengono punti rimarchevoli o da bloc-notes «a futura memoria», ed un giretto con gli occhi sul testo stenografico della seduta, facilmente reperibile sul sito di Montecitorio, può essere cosa utile per chi ama l'informazione di prima mano. Qui mi soffermo invece sulla dichiarazione di voto del segretario democrat Pierluigi Bersani che l'Unità così ha definito in un suo pezzo: «Dieci minuti di intervento per demolire il fantastico mondo berlusconiano», descrivendo un Berlusconi che «ascolta e scuote la testa, sorride, cerca la complicità di Tremonti» e regalando una chicca ai golosi lettori militanti da succhiare nei chiari di luna del partito: «Compiono tutti e due gli anni ma è Bersani a fare la festa al premier». Davvero? In fin dei conti una dichiarazione di voto è incontestabile, si può dire tutto ed il contrario di tutto per giustificare un sì, un no o l'astensione. E dunque?
Bersani comincia così: «Signor Presidente del Consiglio, è la seconda volta in ventotto mesi che lei interviene alla Camera. La prima volta fu per l'insediamento, e concluse allora il suo discorso con uno squillante "viva il Parlamento". Da allora, qui, non l'abbiamo più sentita, ci ha mandato 36 voti di fiducia e 54 decreti. Abbiamo vissuto in questi due anni l'epoca gloriosa del ghe pensi mi, con risultati che sono sotto gli occhi». Così, con una battuta il segretario con tutto il gusto della battuta piacentina apre il confronto, se sia più efficace il «bagaglino» di Berlusconi o il suo «zelig» o meglio il «vergassolino», che fa più tendenza e sinistra nel contempo.
Continua Bersani: «Lei, allora, fece una promessa fondamentale in quel discorso, anche se - come ha ricordato - aveva chiaro che avevamo la crisi davanti. La promessa era: crescita. Pronunciò una ventina di volte la parola crescita. Vorrei informare che noi abbiamo avuto il calo più grande nella storia del dopoguerra, nella crisi, quasi doppio rispetto agli altri principali Paesi europei». Ma il «Ma non è vero!» del premier di rimando non è raccolto dal cronista che abbagliato dalla battuta del «ghe pensi mi» va per la tangente sintetizzando così quanto riporterò dopo, cioè la demolizione dell'«epoca gloriosa» che «doveva portare crescita economica e ha invece prodotto maggiore disoccupazione, "i cinque punti di ribollita" che dovrebbero rilanciare l'azione di governo ma nena che lambiscono "l'Italia quella vera", "le promesse che marciano sulla Salerno-Reggio Calabria" e le "rivendicazioni di un ruolo internazionale": "Chieda il Nobel per la pace!", ironizza alla fine Bersani tra gli applausi dei deputati dell'opposizione». E, quindi, la macchietta già ricordata per far sorridere il lettore-militante, per rasserenarlo e confortarlo semmai stesse meditando sul nulla del proprio partito: «E Berlusconi per tutto il tempo annuisce ridendo, oppure scuote la testa, o sorride, dà di gomito al vicino di banco Tremonti e con le mani giunte fa come per dire: ma che va dicendo?». Appunto.
Ma vediamo l'originale, che spiega meglio. Dice Bersani continuando: «Il fatto nuovo che vorrei farle considerare è che ci stiamo staccando - per la prima volta nella nostra storia recente - dal gruppo di testa dei Paesi europei. Come si fa a prendere sul serio quello che è venuto a raccontarci oggi? Mi lasci dire, un discorso molto debole, pieno di promesse risapute, e non c'era un fatto nuovo del suo discorso. Promesse che non arrivano mai, promesse che marciano sulla Salerno-Reggio Calabria; ricordo che nel 2001 ci sarebbero voluti tre mesi per farla partire, poi ci disse che sarebbe partita nel 2006, impariamo adesso che parte nel 2013: ci tenga aggiornati!». E ancora: «Altre promesse: abbassiamo le tasse, il federalismo risolverà tutto, facciamo un bel piano per il sud - con tanto di banca - qualche minaccia alla magistratura e qualche risaputa rivendicazione di un ruolo internazionale. Chieda il Nobel per la pace! Credo che siamo a un passo da questa richiesta». Ma Bersani è consapevole che con le battute si fa cabaret non politica e, dunque abbozza un'analisi: «Al di là delle battute, qual è il punto di fondo? Il punto di fondo è che nelle sue parole non c'è comprensione della situazione di questo Paese. Non c'è l'Italia, quella vera. Gli italiani sono arrabbiati, sono scontenti, c'è sbandamento, incertezza, e tanti vivono un vero dramma. Attenzione, le tensioni sociali si acuiscono, e abbiamo un Governo che spesso accende i fuochi, invece di spegnerli. Il punto che sta sotto a tutto questo, signor Presidente, ve lo diciamo da due anni: non c'è abbastanza lavoro in questo Paese. Ci vuole più lavoro in questo Paese».
E si sa che di economia Bersani ne mastica e quindi ecco forse la parte più credibile dell'intervento: «L'economia è troppo bassa in questo Paese. Come dobbiamo dirvelo? Non terrete a posto i conti con un'economia così bassa, come dobbiamo dirvelo? I redditi e i risparmi si stanno assottigliando, non c'è dubbio. Il sud si allontana. Adesso andate a fare promesse, dopo che l'avete massacrato, e devo sentire qui che rimettono il credito d'imposta, che verrà adottato il prestito d'onore. Questo già c'era, ma l'avete tolto! Suvvia, orsù. Perché venite a dirci queste cose? Ascoltate le piccole imprese. Queste vi diranno che c'è meno lavoro, meno credito, molte chiacchiere e più burocrazia di prima. Questo è quanto vi diranno le piccole imprese. Lasciamo stare gli altri discorsi. Avete, invece, nozione di come è messa, in queste settimane, la scuola italiana? Di come sono messe le università, in concreto? Avete nozione della situazione dei ricercatori e degli insegnanti? Ne avete nozione in concreto? Sapete quanti servizi salteranno dal prossimo gennaio per il drammatico taglio che avete imposto agli enti locali? Sapete che i costi delle mense sono già raddoppiati? Questo lo sapete o non lo sapete? Poi parlate di sicurezza. Sapete cosa stanno pensando gli operatori della sicurezza, quelli che vanno a fare le operazioni di cui poi voi vi vantate? Cosa stanno pensando? Dite di andare a prendere risorse dal Fondo per i sequestri ma questo vale il 10 per cento di quello che gli avete tagliato. Signor Presidente del Consiglio, non raccontiamoci più delle cose simili ma guardiamo in faccia questo problema. Vi è un Paese reale, in carne e ossa, che non vuole più chiacchiere ma vuole qualcosa di concreto».
Bene, finalmente dal Pd, sembra, un riconoscimento che c'è la necessità di smetterla con l'antiberlusconismo a priori e di passare dalle parole ai fatti. Anche se quel «guardiamo in faccia» smorza un po' l'effetto. «Guardiamo», non pare sinonimo di «facciamo», ma al più di «discutiamo», unica cosa che sembra il centro sinistra sappia fare. Tavoli e tavolini per evocare i problemi, ma a contribuire a risolverli ne passa e come se ne passa di acqua sotto tutti i ponti d'Italia. Poche idee, perché buttarle rischiando di regalarle al «nemico»? E così il massimo che Bersani tira fuori dal cilindro è il fantasma di Visco: «Allora, vogliamo varare una riforma fiscale? Noi abbiamo una proposta, vi va bene? Abbiamo una proposta per scaricare il peso fiscale dal lavoro, dalle imprese e dalle famiglie e per caricarlo su evasione e rendite. E poi basta con i condoni! Vogliamo discuterne?». Discuterne, appunto. Che altro?
«Vogliamo discutere di politica industriale, di politica per le tecnologie e la banda larga, di politiche per l'efficienza energetica, di politiche per un'edilizia in grado di far risparmiare energia? Abbiamo proposte e sono proposte che possono dare un po' di lavoro. Vogliamo discutere del fatto di alleggerire un pochino gli enti locali consentendo loro di avere un po' di cantieri e di lavoro e di reggere i servizi fondamentali? Ci dite di non venire a parlare dei soldi. Non potete permettervi di venirci a dire qualcosa sulla questione dei conti pubblici perché li avete solo fatti "sballare", dal 1994 ad oggi, mentre noi li abbiamo sempre e solo corretti. È offensivo che veniate a dirci questa cosa. È offensivo! Vi spieghiamo noi dove prendere i soldi, ve lo diciamo noi». Ma perché allora non dirlo a tutti in diretta televisiva? O c'è bisogno di un tavolino? Gran brutta bestia la retorica.
Già. E la polemica sterile e le battute riprendono il sopravvento: «Si è detto "Governo del fare". Ma del fare che cosa? Abbia pazienza, signor Presidente del Consiglio, ma sono 10 anni che governate con la Lega, 7 anni negli ultimi 9. Insomma, volete farci il riassunto? E non in cinque punti di ribollita. Tre, due o un punto. Su cosa è migliorata l'Italia: ditemi almeno un punto. Il fisco? La burocrazia? Il lavoro? In cosa è migliorato questo Paese? Andiamo al riassunto, andiamo al riassunto. Se poi non succede mai niente di concreto non potrà sempre essere colpa del nemico. Una volta l'opposizione, poi i magistrati, i comunisti, i rom, la Corte costituzionale. Ma quanti anni volete governare perché sia colpa vostra? Volete governare per 80 anni? Quanto volete governare?». E poi una frase da annotare: «Il Paese ha bisogno di fatti veri e non di propagande di miracoli». Troppo facile ribattere che l'Italia non ha bisogno neppure di propagande di catastrofi. L'antiberlusconismo, come qualcos'altro nella tradizione popolare, evidentemente rende ciechi. È pura autoreferenzialità, quel desiderio d'essere avanguardia deluso dalla storia, trasformato in un destino di retroguardia senza appello.
No, Bersani non è l'alternativa. Non lo è neppure quando pensando di fare il faceto dice: «Mi spieghi il misterioso motivo per cui lei, signor Presidente del Consiglio, non va a Napoli o non lo cita neanche. Io ci vado domani. Vogliamo andare insieme a vedere dove è il miracolo dei rifiuti? Vogliamo andare insieme a L'Aquila per vedere a che punto si trova il programma di ricostruzione? Adesso ci stiamo andando noi. Venga anche lei a farsi un giro». Come se il suo giro, quello di Bersani, fosse taumaturgico. Manca sempre il dopo. Ed è questo che rende le sue querimonie vuote. Desolatamente vuote. Senza Berlusconi e l'antiberlusconismo che riempie le sue giornate politiche, Bersani e il suo partito sparirebbe, perché non avrebbe ragione di esistere.
Perché si torna sempre lì: «L'onorevole Barbareschi, nel suo intervento bello e onesto, si chiedeva qual è il punto della vostra crisi politica. È la distanza tra le parole e i fatti. Questo è il punto. Signor Presidente, lei arrivò con un sogno, lanciò un sogno. Poi il sogno è diventato una favola, ma la favola si è dispersa in mille bolle di sapone, se lo lasci dire. È questa la percezione che ha il Paese. E, allora, lei fa dire ai suoi telegiornali che è l'uomo del fare e non del teatrino della politica. Guardi, lei è l'impresario di questo teatrino qui!».
E finisce col dichiarare inconsciamente ed indirettamente la propria impotenza politica: «La politica da quindici anni sta facendo il girotondo attorno a lei, alle sue questioni, e se lei, come si è visto questa estate, indica con il dito un malcapitato, quello lì va alla gogna per colpe che a lei sarebbero (e sono) mille e diecimila volte perdonate; questo non è accettabile. I deputati vanno e vengono, lo ribadisco, perché c'è un limite a tutto. I deputati vanno e vengono; noi viviamo ormai nei paradisi fiscali della politica, le carriere sono al portatore, le leggi sono al portatore. Cara Lega, lasciamo stare, quando vi siete stancati di osannare i vostri Ministri, volete spiegarmi per quale diavolo di motivo avete votato tutte le leggi che hanno favorito la cricca? Se le è fatte lei, la cricca, queste leggi! Me lo dite perché? Avanti, noi non ci arrendiamo. Voi oggi mettete una fiducia per debolezza; per debolezza la mettete, perché nessuno vuole in mano il cerino. Nessuno vuole in mano il cerino acceso della crisi, questa è la fiducia del cerino, parliamoci chiaro. Questa qui è la fiducia del cerino. Non potrete promettere più stabilità e più governabilità a un Governo che non sia peggio del peggio che abbiamo visto fin qui, non è possibile».
E finisce con un'apoteosi di confusa coscienza di sé, di rimprovero per l'inefficienza altrui che scopre la propria, di speranza di contare qualcosa domani: «Ci vuole un passaggio che ci porti a un nuovo confronto elettorale, con regole elettorali più civili e con progetti nuovi. Lo sentiamo anche noi, intendiamoci; anche noi abbiamo alle spalle qualche errore; anche noi dobbiamo caricarci di un progetto nuovo per il Paese, ma voi non potete traccheggiare, il Paese non può aspettare. E non veniteci a dire che abbiamo paura delle elezioni: ve le siete rimesse in tasca voi le elezioni, non noi, attenzione! Noi abbiamo da presentare un progetto al Paese. Oggi qui non si apre una pagina nuova; qui si comincia a chiudere una pagina vecchia. La pagina nuova la apriamo noi, noi la apriamo!». Una pagina bianca. Per scriverci cosa? E quando?

La trave

Immediatamente dopo la Bindi, di cui ho riportato l'intervento, chiosandolo, nel post precedente, è stato il turno dell'on. Giuliano Cazzola del Pdl, pubblicista, dirigente generale dello Stato e professore a contratto di diritto della previdenza sociale presso la facoltà di giurisprudenza dell'università degli studi di Bologna. Il discorso di Cazzola fa da contraltare a quello della presidentessa dei democrat, che assume proprio a metà intervento, vicepresidente, la presidenza dell'assemblea. «Signor Presidente, ascoltando le comunicazioni del Presidente del Consiglio mi è tornata alla memoria una frase di un autore molto in voga quando ero giovane, ora caduto in disgrazia insieme al mondo politico e culturale cui apparteneva. Mi riferisco a Bertolt Brecht il quale scrisse, in una delle sue opere: abbiamo scalato le grandi montagne, ora dobbiamo percorrere le grandi pianure. Anche il Governo, signor Presidente, signor Presidente del Consiglio, può legittimamente guardarsi indietro le spalle e valutare, con un misto di soddisfazione e di sollievo per gli scampati pericoli, il percorso compiuto nello scalare le grandi montagne della crisi. Certo, si può sempre fare meglio e di più; certo i problemi che abbiamo davanti sono seri e complessi e lei, signor Presidente del Consiglio, ha fatto bene a non sottovalutarli». Comincia così il deputato del Pdl che spiega subito con pacatezza cosa è stato fatto, e che val la pena di riportare perché di solito, i fatti, sono quelle cose che si perdono tra le righe a stampa dei giornali.
Dice Cazzola: «Tanto è stato fatto: nel 2010 il PIL è tornato a crescere, la forza trainante è costituita dalle esportazioni che crescono del 7,4 per cento, a fronte di un crollo cumulato del 22,3 per cento nel biennio 2008-2009; gli investimenti sono cresciuti del 2,7 per cento, a fronte di una diminuzione cumulata nel biennio precedente del 15,6 per cento; l'inflazione resta bassa e l'Italia rimane la quinta potenza industriale del mondo (la seconda in Europa), mentre Paesi più blasonati del nostro sono scesi nella classifica. Siamo esportatori netti di tecnologia; il nostro primo partner è la Francia, il secondo la Germania e il terzo il Belgio, poi vengono gli Stati Uniti d'America ed altri Paesi sviluppati, a prova della qualità dei nostri contenuti tecnologici». Così, giusto per rincuorare un po' tutti dopo l'apocalisse bindiana che lo aveva preceduto. Anche sull'immigrazione: «A proposto di immigrazione, onorevole Bindi, questo Paese probabilmente ha respinto immigrati clandestini attraverso le scelte che sono state compiute, però, nel corso del 2010, ha dato lavoro, secondo le statistiche ufficiali, a 181 mila nuovi lavoratori stranieri che hanno trovato qui da occuparsi regolarmente e da lavorare onestamente».
E quanto alla crisi sociale ecco la risposta: «Ho molto apprezzato, poi, che, nelle sue comunicazioni, il Presidente del Consiglio abbia voluto dare a Cesare solo quello che è di Cesare: riconoscere i meriti del Governo, senza dimenticare il contributo che è venuto dalla società, dalle istituzioni economiche e sociali. I Governi non sono onnipotenti, la politica può fare tanto, ma non può fare tutto. In Italia, ha tenuto la coesione sociale e - lo dico sempre all'onorevole Bindi - basta leggere il piano triennale del Ministro Sacconi, presentato a metà di luglio, per individuare quali sono le modalità, quali sono gli strumenti, per rifinanziare gli ammortizzatori sociali negli anni che verranno. Ma non c'è solo questo, per quanto riguarda la coesione sociale: nel primo anno di applicazione dell'Accordo quadro del 22 gennaio 2009, fortemente sollecitato e voluto dal Governo, sono stati rinnovati 29 contratti nazionali in modo unitario, con la sola eccezione dei metalmeccanici, tutti prima della scadenza e praticamente con una conflittualità molto bassa se non addirittura senza scioperi. È stato, quindi, difeso il salario reale di alcuni milioni di lavoratori senza la violazione dei diritti, senza le rinunce che sono state presenti e imposte in altri Paesi». Non solo, ma: «Questa coesione sociale si è riscontrata anche nelle misure con cui sono stati predisposti nuovi ammortizzatori sociali resi flessibili e fungibili per via amministrativa. A questo proposito, mi sia consentito di citare solo due dati: nel 2009, su 918 milioni di ore autorizzate di cassa integrazione - utilizzate, però, in misura del 50-60 per cento - 400 milioni di ore sono state riconosciute ad imprese e a lavoratori che non ne avevano mai beneficiato perché esclusi dalla normativa vigente, che prevede una copertura solo per meno della metà della forza lavoro del nostro Paese. Non abbiamo solo fatto fronte all'emergenza, come tutti riconoscono ormai al Governo; nei due anni che abbiamo alle spalle sono state realizzate importanti riforme, camminando sempre sul filo del rasoio della messa in sicurezza dei conti pubblici».
Naturalmente Cazzola non nasconde le difficoltà: «Certo, tutti i Paesi hanno visto aumentare il debito pubblico, in una situazione di grande difficoltà come quella che abbiamo attraversato nei due anni che abbiamo alle spalle, come pure tutti i Paesi hanno visto crescere i deficit e il nostro è cresciuto sicuramente, ma meno di altri Paesi. Cito la riforma del pubblico impiego, gli interventi sulle pensioni, con misure che vengono apprezzate in sede europea, e gli interventi in tema di pensioni - si veda che cosa è successo in Grecia e cosa sta succedendo in Francia - i quali sono sempre delicati. Da noi queste riforme sono avvenute senza un minuto di sciopero, a prova del fatto che i lavoratori e i cittadini sono spesso più maturi e consapevoli di coloro che pretendono di rappresentarli».
E chiude con un quadro ben diverso rispetto a quello delineato da chi l'aveva preceduto al microfono: «Altre riforme sono in dirittura d'arrivo in materia di lavoro: arriverà alla Camera fra pochi giorni il collegato lavoro, puntualmente rivisitato sulla base delle indicazioni contenute nel messaggio alle Camere del Presidente della Repubblica. Quel provvedimento non contiene solo due norme di delega importanti in materia di lavori usuranti ed ammortizzatori sociali, ma consentirà di avere anche in Italia un sistema di composizione stragiudiziale delle controversie di lavoro, la cui sottoscrizione, pienamente rispettosa della volontà dei lavoratori, è iscritta in un contesto di negoziato fra le parti sociali. Già, le parti sociali: tutte le iniziative fin qui citate hanno corrisposto ad un rapporto di collaborazione con la quasi totalità delle forze sociali. Vi sono state solo delle autoesclusioni, mai delle discriminazioni. A Genova, al convegno della Confindustria, è successo un fatto nuovo: un'apertura importante alla CGIL per definire un patto sociale che coinvolga tutte le organizzazioni sindacali. Noi non solo apprezziamo questa scelta, ma ci auguriamo che abbia successo. Anzi, vorrei suggerire al Presidente Berlusconi di mettere a disposizione il terzo piano di palazzo Chigi affinché questi incontri abbiano luogo e abbiano successo. Questa e tante altre cose si potrebbero dire, queste sono le valutazioni che inducono il Popolo della Libertà ad incoraggiare il Governo ad andare avanti fino alla fine della legislatura, nel rispetto del mandato ricevuto dagli elettori».
E quanto ai transfughi, «Vedremo nel voto quanti sono i deputati che si aggiungono alla maggioranza», non manca di osservare un dato di fatto, storico, che il centrosinistra evidentemente ha rimosso: «Voglio solo ricordare una cosa, visto che l'onorevole Bindi ha voluto citare con biasimo questo dato di fatto: quando il partito di Rifondazione Comunista tolse la fiducia al primo Governo Prodi - un grande Governo, che aveva fatto bene nell'interesse del Paese e che aveva fatto riforme importanti, che credo sia leale riconoscere - vi fu un passaggio di parlamentari dalla loro opposizione alla maggioranza che compensò quel vuoto che era venuto a determinarsi a sinistra di quella coalizione; quindi, Massimo D'Alema poté ottenere la fiducia ed andare avanti con il suo Governo. Dunque, nessuno guardi alla pagliuzza che è negli occhi altrui, dimenticando la trave che è nei suoi».

La volpe e l'uva

Ora che si è superata la boa della fiducia, si possono analizzare le dichiarazioni di quei giorni con il distacco necessario per capire l'evento. O meglio per capire i protagonisti, il loro spessore salvifico per questo paese che, nonostante cassandre e uccelli del malaugurio variopinti, continua a navigare imperterrito tra i marosi d'un epoca globale di vacche magre. E a proposito di pingitori di apocalissi intendo qui ripercorrere l'intervento della pasionaria Rosy Bindi, alle cronache oggi più per una barzelletta che per le sue appassionate quanto catastrofiche descrizioni di un Italia sull'orlo di un abisso senza fondo. Che a toccarsi non si fa peccato.
Già l'incipit prometteva bene, si fa per dire ovviamente: «Signor Presidente, signor Presidente del Consiglio, colleghe e colleghi, il Governo e la maggioranza ci avevano promesso un gesto di chiarezza. Ne dubitavamo ma oggi ne abbiamo avuto la certezza: questo non è un gesto di chiarezza ma l'ennesima prova della debolezza di questo Governo e di questa maggioranza. Questa fiducia è il frutto di una malriuscita manovra trasformistica, con la quale la si voleva evitare, ma nasconde sotto il tappeto della fiducia la debolezza e l'inaffidabilità di tutta la maggioranza e di tutto il Governo. Lo sfregio della legalità e la questione morale sono la cifra di un voto, che forse darà un po' di respiro all'Esecutivo ma di certo toglierà altro ossigeno ad un Paese sfibrato». È il preannuncio dell'apocalisse che verrà descritta dopo aver fantasticato, con una sorta di isterismo che traspare anche dalle righe dello stenografico, una situazione della compagine di maggioranza alla canna del gas, irreale, soprattutto se propagandata da chi, quanto ad alternativa, è presidente del nulla.
Così la Bindi: «La crisi politica è sotto gli occhi di tutti da tempo, ma avete avuto paura di affrontarne le conseguenze. Per settimane avete agitato la minaccia del ricorso alle urne e le elezioni sono state invocate in modo persino irrispettoso nei confronti delle prerogative costituzionali del Presidente della Repubblica. Oggi abbiamo capito che si trattava di una finta, come è una finzione la fiducia che chiedete oggi: il Presidente del Consiglio, soprattutto, ha bisogno di andare ancora avanti perché l'impianto legislativo costruito per i suoi interessi non è ancora completo». È l'ira di Achille, senza essere Achille. Un risputare continuo di argomentazioni trite e ritrite che hanno dimostrato più e più volte la loro inutilità pratica, livorose quanto impotenti. E continua: «Provate a tappare la falla: mettete a tacere il dissenso interno e una "pezza" sui vostri rancori e reciproci sospetti. Abbiate però il pudore di non chiamarla stabilità, e neppure un modo serio ed autorevole di governare. Siamo all'ennesima dimostrazione della vostra debolezza, la prova che non avete un progetto condiviso, che state insieme solo in virtù di un patto di potere realizzato grazie ad una legge elettorale incostituzionale. Non si è semplificato alcun sistema politico, caro Presidente del Consiglio: abbiamo solo assistito ad un bipolarismo coatto, di cui oggi pagate le conseguenze. Questa legge ha portato in Parlamento dei nominati, sottraendo ai cittadini il diritto di eleggere i propri rappresentanti, producendo coalizioni disomogenee e minoritarie. E per quello a cui abbiamo assistito, alla compravendita dei parlamentari (altro che appello ai moderati), che giustamente il segretario del mio partito ha definito un sintomo di corruzione, avete dimostrato anche che questa legge non mette assolutamente al sicuro dal ribaltone: avete tentato di farlo, e non vi è riuscito». Quel definire «bipolarismo coatto» la risposta data alla semplificazione imposta da Veltroni per togliersi dai marroni la sinistra radicale è la cifra del livore: l'aver «rubato» la vittoria elettorale all'Obama nostrano. Imperdonabile. Soprattutto imperdonabile perché la scelta berlusconiana di «vincere facile» ha affondato la zattera del Pd, partito democratico-cristiano, sognato dalla Bindi e compagnia bella, nel guado fangoso senza domani dove i diesse sguazzano da tempo incapaci ad uscirne. La rabbia per non essere capace d'un gesto come quello di Rutelli, o della Binetti: giocarsi l'ingiocabile. La marginalità utile. E dimenticando Prodi, minoranza nel paese, maggioranza al governo, miseramente poi caduta, oppure freudianamente evocandolo, attribuendo a Berlusconi la sua debolezza: «Il vostro vantaggio è frutto solo di un premio di maggioranza, attribuito da questa legge incostituzionale, mentre siete sempre di più minoranza nel Paese: lo ha dimostrato la Confindustria in questi giorni, il sindacato, lo dimostrano le università in subbuglio, e persino la Chiesa, nei confronti della quale non sono serviti i proclami di questi anni, ripetuti in Aula anche questa mattina».
Ed ecco il tempo dell'Apocalisse Italia s.p.a.: «Chiarezza non era possibile, forse un po' di onestà sì. Presidente, se lo lasci chiedere: lei crede davvero che si possa pensare che in questi due anni avete ottenuto dei risultati? Non avete avuto una sola idea per lo sviluppo e la crescita, la più grave recessione mondiale del dopoguerra è stata affrontata con un misto di cinismo e di sufficienza; si è allargato il divario tra il nostro Paese e i Paesi più forti dell'Europa. Perché mai dovremmo paragonarci alla Grecia, e non alla Germania o alla Francia, o ai Paesi forti, con i quali abbiamo sempre condiviso la crescita dell'Europa? Non ci accontentiamo di non essere diventati la Grecia; anche perché non siamo sicuri di non diventarlo a breve, se le cose continuano così. Il debito pubblico è cresciuto: ve l'abbiamo lasciato al 105 per cento, oggi non ha avuto il coraggio di dire che è al 118 per cento. Questi sono i dati. Con il debito pubblico che aumenta si annuncia un nuovo autunno di cassa integrazione e di disoccupazione, e non abbiamo sentito come intenderete finanziare ancora gli ammortizzatori sociali. Ormai la disoccupazione sta diventando un fatto strutturale, e lo è soprattutto per i giovani e per i giovani del Mezzogiorno: abbiamo bruciato un'intera generazione, e ci prepariamo a bruciarne un'altra. Il lavoro per donne è quasi impossibile in questo Paese. Oggi sentiamo riparlare di quoziente familiare: sì, ne abbiamo sentito riparlare, ma non ho ancora capito come verrà finanziato, perché non ce l'ha detto, Presidente. Possiamo discutere sulle forme di vantaggio fiscale alle famiglie. Questa non ci ha mai convinto, ma avremmo voluto sentire il modo con il quale verrà finanziata. Avete compromesso in questi anni il futuro dei nostri ragazzi: la scuola italiana è stata impoverita ed umiliata, e le università sono al collasso. Per fortuna, oggi ci ha risparmiato il capitolo sulle emergenze, perché sarei stata curiosa di sentire che cosa avrebbe detto dei rifiuti di Napoli e della ricostruzione de L'Aquila: l'emblema della politica del fare, che in realtà è diventata la prova della chiacchiera, della propaganda e della scorribanda vergognosa di chi ha praticato la corruzione sopra i disastri delle persone. Avete assecondato le paure e alimentato le divisioni sociali e territoriali». Mamma mia. Qualcuno diceva «I have a dream» e radunava folle. Ma qui siamo ad un «I have a nightmare» che non porta lontano, ad un 25 per cento mantenuto da uno zoccolo duro che non si è ancora tolto gli occhiali del Pci.
E non finisce qui la Bindi, ma continua quella che ritiene la demolizione del satana di Arcore, con l'immigrazione: «Non ci si venga a fare il bilancio sull'immigrazione clandestina citando solo gli sbarchi nei porti della Sicilia, non citando quello che sta succedendo in altri porti, non citando quello che succede alle altre frontiere del Paese. E soprattutto non ci si dimentichi mai di dire che cosa ci è costato in termini di credibilità internazionale e che cosa ci è costato e costa in termini di vite umane, con tutte quelle persone che muoiono adesso in un'altra parte del Mediterraneo e sicuramente nel deserto ai confini con la Libia. Questa è la situazione». E continuerebbe se i tempi alla Camera non fossero ristretti. Così si avvia alle conclusioni.
«C'è un bilancio fallimentare, e adesso si viene qui e si propongono cinque punti. Mi chiedo se la Lega si accontenti dell'ennesima definizione del federalismo. Perché mai, Presidente, si è dimenticato di chiedere al Ministro dell'economia e delle finanze i conti per attuare il federalismo fiscale? Ancora una volta abbiamo sentito interloquire con Cattaneo. Certo ci fa piacere. Ricordiamo che noi abbiamo modificato il Titolo V della Costituzione, ma dove sono i conti per attuare un federalismo fiscale che faccia pagare la siringa nello stesso modo in Calabria e in Lombardia ma assicuri i servizi essenziali di assistenza a tutto il popolo italiano? Possiamo credere che quei 100 miliardi del Mezzogiorno, che continuano a ballare di mese in mese, possano andare a realizzare un'infrastrutturazione della quale abbiamo sentito ancora una volta un lungo elenco senza un affidamento vero di capitoli di finanziamento?». C'è, a questo punto, veramente da chiedersi cosa s'aspettasse la Bindi da Berlusconi, perché prosegue: «Questa è la situazione, signor Presidente, e ci dispiace dover constatare che assistiamo all'ennesima perdita di opportunità». Opportunità? Già, opportunità: «Il suo discorso non può servire al rilancio né del Governo, né della maggioranza, men che meno del Paese, e soprattutto non copre quello spettacolo desolante al quale abbiamo assistito in questi mesi». E proprio vero che chi esiste per le parole fa delle parole il suo mondo. Il fare, i fatti è altro.
E tanto per concludere in uno scenario così delineato un pizzico di moralismo non guasta, e allora ecco la citazione: «Voglio ricordare le parole del cardinal Bagnasco: discordie personali, diventate presto pubbliche, sono andate assumendo il contorno di conflitti apparentemente insanabili, diventati a loro volta pretesto per bloccare i pensieri di un'intera nazione, quasi non ci fossero altre preoccupazioni ed altri affanni». Tutto bello. Se si fosse campioni di una reale alternativa, si avesse «a dream», non si fosse dimostratrici di un «nightmarish habit of mind».
E chiude: «Questa è la situazione: un Paese incapace di uscire dalla sua situazione perché ha un Governo che non lo sa governare, che è fermo sugli affari propri. Penso, signor Presidente, che lei debba prendere atto che la fiducia che gli verrà rinnovata tra qualche ora è una fiducia «finta». Si dimetta, passi la mano ad un Governo di transizione che dia al Paese una nuova legge elettorale, e in primavera si vada a votare perché l'Italia ha bisogno di essere governata da un'alternativa democratica e autenticamente riformista». Conclusione scontata ma semplicemente politicamente ridicola. E il tragico è il non accorgersene. E poi, quella «fiducia "finta"», suvvia! La raccontava secoli fa Esopo la storiella. La volpe e l'uva.

sabato 2 ottobre 2010

SPQR

«Al tempo del fascismo, quando il mito di Roma imperiale veniva quotidianamente iniettato ai cittadini, circolava un gioco di parole sull'acronimo SPQR: "Sapete Podestà Quanto Rubate"? con la risposta "Rubo Quanto Posso Signori" (RQPS), gioco che sembra delineare un antico e italico vizio dei reggitori la cosa pubblica»; comincia così un articolo di Roberto Ciambetti su La Padania, in cui si commenta il putiferio scatenato ad arte, proteste, richieste di dimissioni e quant'altro, su una battuta di Umberto Bossi, che - dicono - citasse Asterix «interpretandolo bossianamente» o Boldi, ma è vecchia parodia come il cucco. Personalmente ho ricordi, di scolaro delle medie del buon tempo antico, di quel straziare Senatus Populusque Romanus in Sono Porci Questi Romani o altre varianti più «raffinate» come Stolto Popolo Quello Romano, per non dire di peggio con cui si giocava a chi ne trovava una nuova, magari sconfinando in altri campi, da quello proprio non femminista allo scherzare con fanti e santi.
Ma l'articolo nel nostro non è un dotto saggio. Qui si rivendica, signori miei. Ciambetti si chiede perché invece «nessuno protesta, alza la voce, s'indigna se Roma organizza in contemporanea a quella di Venezia una mostra cinematografica, oppure se propone di fissare un circuito automobilistico di Formula 1 in alternativa a Monza». E si chiede: «Cosa sarebbe successo in Francia se Parigi si fosse messa in testa di organizzare una mostra cinematografica internazionale alternativa in contemporanea a quella di Cannes? Cosa avrebbe detto l'opinione pubblica francese se Parigi avesse proposto un circuito cittadino alternativo al famoso Circuit de la Sarthe di Le Mans?». Ma se la Francia non basta, ecco anche la Germania, dove «nessuno si sogna di avanzare l'ipotesi di sostituire Berlino all'alternanza Hockenheim-Nürburgring per il Gran premio di Formula 1 o di proporre tra il 10 e il 20 febbraio del prossimo anno un festival internazionale cinematografico in contemporanea al Filmfestspiele di Berlino giunto alla sua 61esima edizione». E ancora, dice Ciambetti, «nessuno a vienna si sogna di far concorrenza al Salzburger Festspiele».
Tutto questo per confermare che il giudizio è sempre quello: Roma ladrona. «Venezia studia l'opportunità di proporsi come candidata ai giochi Olimpici? Ecco salta fuori la candidatura di Roma», per non dire del progetto di scippare Monza del gran premio. Insomma, dice il notista, c'è da chiedersi se veramente Sapiens Populus Quaerit Romam o non piuttosto uno Stultus Populus Quaerit Romam. E a proposito di amore, ricorda come nella tifoseria romanista si sia ideata una variante che può apparire bellissima, dice, di SPQR: Senza Padroni Quindi Romanisti. Ma c'è l'aggiunta: «Peccato che la proprietà della squadra di calcio sia dell'Unicredit che con i soldi delle nostre Fondazioni, ha comprato Borriello e Burdisso: "Stiamo investendo per far sognare tifosi e città" così rispose il vice ad di Unicredit, Paolo Fiorentino commentando quell'acquisto». E Ciambetti chiude con un'ironia che non si coglie immediatamente: «E allora, per dirla con Obelix, forse è proprio vero "Sono Pazzi Questi Romani"!». Cioè, chiamali pazzi! E dai, non piangiamoci addosso. Non facciamoci riconoscere. Stampa Padana Quanto Ruga!

venerdì 1 ottobre 2010

Avanti!

Dalla due giorni della fiducia è uscita sconfitta la posse contro il Cavaliere. Chi contava di disarcionarlo usando Fini come lancia è rimasto deluso. Va detto per sgombrare ogni dubbio, di quelli che ancora oggi molta carta stampata continua a «vomitare» come se non fosse successo nulla. Quanto durerà il governo ancora o se si andrà alle elezioni in primavera, questi sono problemi altri, che non devono distogliere la riflessione sul fatto stabilito dal voto alla Camera e da quello, il giorno dopo, al Senato. Che cioè al governo Berlusconi ora e ad un governo Berlusconi domani, se si andasse alle elezioni anticipate, non c'è alternativa, anche ma non soprattutto perché i suoi avversari, i tanti Di Pietro, i tanti Bersani e i tanti Casini, sono nient'altro che una colorata armata Brancaleone, non certo una macchina da guerra, né tanto meno gioiosa visti gli isterismi esternati negli interventi in Parlamento, dopo aver capito che il principe nero «straniero» era tutt'altro che il messia strombazzato ai militanti rincoglioniti da una propaganda asfissiante della propria certa vittoria, la sconfitta del Caimano.
Diciamocelo: la scelta di continuare a dipingere un governo in piena crisi non fa che rafforzare la sensazione che sia solo un machiavello per nascondere la pochezza politica in termini di idee e di progetto da parte di un'opposizione «che non c'è» di cui si è prodi bravi, scudieri e palafrenieri. Non c'è niente di più aleatorio dei numeri, ma se si smette per un momento l'abitudine mentale di scambiare i propri desiderata per realtà, non si può non riconoscere un dato indubitabile, che cioè, alla Camera il governo ha finito col portare a casa più voti di quelli incassati il giorno del suo insediamento e che la differenza tra sì e no al Senato è ben ampia, 45 voti, un risultato quest'ultimo, come osserva Mario Sechi sul Tempo, che azzera qualsiasi possibilità di ribaltone. Siamo ben lontani, per dirla con Sechi, dal governo Prodi, quando «il Professore dipendeva dal voto dei senatori a vita e dalle bizze caudillesche del senatore italo-argentino Domenico Pallaro».
Bossi e Berlusconi, dunque, hanno oggi i numeri per continuare a governare e, ciò che forse più conta hanno i numeri per andare dritti alle elezioni in caso di pesanti intoppi lungo la strada nel prosieguo della legislatura da parte dei finiani. Questa è una corretta lettura dei fatti, dopodiché ci si può buttare a fare la curva sud, come l'opposizione finora ha fatto, sognando l'Ibrahimovic di turno.
Su Libero Belpietro ha scritto: «Non so voi, ma io ho la sensazione che anche questa volta, nella fretta di dare il benservito al Cavaliere, qualcuno abbia fatto i conti senza l'oste, che in questo caso sono gli elettori». E a sostegno riporta un sondaggio di Piepoli, «sondaggista non tenero con il presidente del Consiglio», che «in caso di elezioni, dava per scontata la vittoria del Pdl e della Lega, la disfatta del Pd e cifre da sopravvivenza per il centrino di Fini, Casini e Cicciobelli vari». Ora che si è messa una pietra tombale sul «ribaltone tecnico» c'è veramente il «rischio» che si arrivi alla fine naturale della legislatura. In fin dei conti a Fini può bastare il risultato minimo ottenuto, quello di aver dimostrato di essere oggi una forza «parlamentare», ma è troppo politico navigato per riconoscere ai suoi pasdaran di essere pure una forza «elettorale». Fini, insomma, necessita di tempo per non sparire dalla scena politica e porre le fondamenta del suo nuovo partito, quando deciderà di fondarlo. Oltretutto il ruolo istituzionale non lo aiuta. E, dunque, la sua è quella che Vittorio Feltri chiama una condanna a stare insieme a Berlusconi, più a lungo possibile.
La delusione del popolo democrat, che già sognava il suo bel governicchio tecnico con la benedizione di Napolitano, è tutta racchiusa ed evidenziata nelle parole che Mario Adinolfi affidava a Twitter poco dopo le sedici del giorno del voto alla Camera: «Adesso di Fini non parlateci più». Che dire poi dell'isterismo che traspare da queste dichiarazioni di Dario Franceschini a commento del discorso del premier, rilasciate alla stampa e riportate anche sul suo blog: «È il discorso tragicomico di un uomo che ha fallito come capo del governo e come capo del suo partito. Dopo due anni in cui ha mostrato la sua natura da Mr Hyde, tenta di rimettersi il volto del dott. Jekill che aveva usato all'inizio della legislatura. Ma la natura è più forte di lui quindi questa immagine durerà poche ore. Il resto è soltanto un elenco di promesse come se arrivasse dalla Luna: tutto proiettato sul futuro vista l'impossibilità di rivendicare risultati. Aggiungo che i numeri di oggi pomeriggio dimostreranno che con questo discorso inizia una seconda parte della legislatura in cui il suo governicchio sarà nelle mani di Fini e del suo gruppo parlamentare». Più un pio desiderio che una previsione ponderata d'uno scenario, perché come stringatamente ha evidenziato Bossi: «I finiani sono indispensabili sulla carta, ma hanno paura di andare al voto», e si sa, la paura fa novanta. Almeno per il momento, tant'è che ci viene detto dal capogruppo filino al Senato Viespoli che il nuovo partito non nasce martedì - come pareva d'aver sentito dire da Fini - ma al massimo prenderà forma «un coordinamento politico-culturale».
Certo, non ci rimane che aspettarci, visto il nulla propositivo, che il nostro quotidiano andar per rassegne stampa sia infarcito, così come la visione dei tg, sempre più di «scoop» su dichiarazioni «imbarazzanti» come quella di Bossi subito cavalcata - per poi cogliere al volo le scuse per non offrire un casus belli al Cavaliere per buttarsi subito sulla strada delle urne - o il video rubato, lo «scandalo» che nulla aggiunge a ciò che è stato già detto da Berlusconi in diverse occasioni. Tutto condito con i frizzi di Bersani, tipo «l'epoca gloriosa del ghe pensi mi» o «i cinque punti di ribollita» o «la fiducia del cerino», per dirne qualcuno, e frasi: «Non veniteci a dire che abbiamo paura delle elezioni, ve le siete rimesse in tasca voi le elezioni, non noi, attenzione» o il massimo: «Oggi qui non si apre una pagina nuova, qui si comincia a chiudere una pagina vecchia. La pagina nuova la apriamo noi», peccato che il segretario non abbia aggiunto quando, una data, lasciando così solo la speranza a noi mortali di partecipare un giorno all'evento. forse.