Molti interventi nel corso del dibattito parlamentare alla Camera dei deputati, sulla fiducia a Silvio Berlusconi, contengono punti rimarchevoli o da bloc-notes «a futura memoria», ed un giretto con gli occhi sul testo stenografico della seduta, facilmente reperibile sul sito di Montecitorio, può essere cosa utile per chi ama l'informazione di prima mano. Qui mi soffermo invece sulla dichiarazione di voto del segretario democrat Pierluigi Bersani che l'Unità così ha definito in un suo pezzo: «Dieci minuti di intervento per demolire il fantastico mondo berlusconiano», descrivendo un Berlusconi che «ascolta e scuote la testa, sorride, cerca la complicità di Tremonti» e regalando una chicca ai golosi lettori militanti da succhiare nei chiari di luna del partito: «Compiono tutti e due gli anni ma è Bersani a fare la festa al premier». Davvero? In fin dei conti una dichiarazione di voto è incontestabile, si può dire tutto ed il contrario di tutto per giustificare un sì, un no o l'astensione. E dunque?
Bersani comincia così: «Signor Presidente del Consiglio, è la seconda volta in ventotto mesi che lei interviene alla Camera. La prima volta fu per l'insediamento, e concluse allora il suo discorso con uno squillante "viva il Parlamento". Da allora, qui, non l'abbiamo più sentita, ci ha mandato 36 voti di fiducia e 54 decreti. Abbiamo vissuto in questi due anni l'epoca gloriosa del ghe pensi mi, con risultati che sono sotto gli occhi». Così, con una battuta il segretario con tutto il gusto della battuta piacentina apre il confronto, se sia più efficace il «bagaglino» di Berlusconi o il suo «zelig» o meglio il «vergassolino», che fa più tendenza e sinistra nel contempo.
Continua Bersani: «Lei, allora, fece una promessa fondamentale in quel discorso, anche se - come ha ricordato - aveva chiaro che avevamo la crisi davanti. La promessa era: crescita. Pronunciò una ventina di volte la parola crescita. Vorrei informare che noi abbiamo avuto il calo più grande nella storia del dopoguerra, nella crisi, quasi doppio rispetto agli altri principali Paesi europei». Ma il «Ma non è vero!» del premier di rimando non è raccolto dal cronista che abbagliato dalla battuta del «ghe pensi mi» va per la tangente sintetizzando così quanto riporterò dopo, cioè la demolizione dell'«epoca gloriosa» che «doveva portare crescita economica e ha invece prodotto maggiore disoccupazione, "i cinque punti di ribollita" che dovrebbero rilanciare l'azione di governo ma nena che lambiscono "l'Italia quella vera", "le promesse che marciano sulla Salerno-Reggio Calabria" e le "rivendicazioni di un ruolo internazionale": "Chieda il Nobel per la pace!", ironizza alla fine Bersani tra gli applausi dei deputati dell'opposizione». E, quindi, la macchietta già ricordata per far sorridere il lettore-militante, per rasserenarlo e confortarlo semmai stesse meditando sul nulla del proprio partito: «E Berlusconi per tutto il tempo annuisce ridendo, oppure scuote la testa, o sorride, dà di gomito al vicino di banco Tremonti e con le mani giunte fa come per dire: ma che va dicendo?». Appunto.
Ma vediamo l'originale, che spiega meglio. Dice Bersani continuando: «Il fatto nuovo che vorrei farle considerare è che ci stiamo staccando - per la prima volta nella nostra storia recente - dal gruppo di testa dei Paesi europei. Come si fa a prendere sul serio quello che è venuto a raccontarci oggi? Mi lasci dire, un discorso molto debole, pieno di promesse risapute, e non c'era un fatto nuovo del suo discorso. Promesse che non arrivano mai, promesse che marciano sulla Salerno-Reggio Calabria; ricordo che nel 2001 ci sarebbero voluti tre mesi per farla partire, poi ci disse che sarebbe partita nel 2006, impariamo adesso che parte nel 2013: ci tenga aggiornati!». E ancora: «Altre promesse: abbassiamo le tasse, il federalismo risolverà tutto, facciamo un bel piano per il sud - con tanto di banca - qualche minaccia alla magistratura e qualche risaputa rivendicazione di un ruolo internazionale. Chieda il Nobel per la pace! Credo che siamo a un passo da questa richiesta». Ma Bersani è consapevole che con le battute si fa cabaret non politica e, dunque abbozza un'analisi: «Al di là delle battute, qual è il punto di fondo? Il punto di fondo è che nelle sue parole non c'è comprensione della situazione di questo Paese. Non c'è l'Italia, quella vera. Gli italiani sono arrabbiati, sono scontenti, c'è sbandamento, incertezza, e tanti vivono un vero dramma. Attenzione, le tensioni sociali si acuiscono, e abbiamo un Governo che spesso accende i fuochi, invece di spegnerli. Il punto che sta sotto a tutto questo, signor Presidente, ve lo diciamo da due anni: non c'è abbastanza lavoro in questo Paese. Ci vuole più lavoro in questo Paese».
E si sa che di economia Bersani ne mastica e quindi ecco forse la parte più credibile dell'intervento: «L'economia è troppo bassa in questo Paese. Come dobbiamo dirvelo? Non terrete a posto i conti con un'economia così bassa, come dobbiamo dirvelo? I redditi e i risparmi si stanno assottigliando, non c'è dubbio. Il sud si allontana. Adesso andate a fare promesse, dopo che l'avete massacrato, e devo sentire qui che rimettono il credito d'imposta, che verrà adottato il prestito d'onore. Questo già c'era, ma l'avete tolto! Suvvia, orsù. Perché venite a dirci queste cose? Ascoltate le piccole imprese. Queste vi diranno che c'è meno lavoro, meno credito, molte chiacchiere e più burocrazia di prima. Questo è quanto vi diranno le piccole imprese. Lasciamo stare gli altri discorsi. Avete, invece, nozione di come è messa, in queste settimane, la scuola italiana? Di come sono messe le università, in concreto? Avete nozione della situazione dei ricercatori e degli insegnanti? Ne avete nozione in concreto? Sapete quanti servizi salteranno dal prossimo gennaio per il drammatico taglio che avete imposto agli enti locali? Sapete che i costi delle mense sono già raddoppiati? Questo lo sapete o non lo sapete? Poi parlate di sicurezza. Sapete cosa stanno pensando gli operatori della sicurezza, quelli che vanno a fare le operazioni di cui poi voi vi vantate? Cosa stanno pensando? Dite di andare a prendere risorse dal Fondo per i sequestri ma questo vale il 10 per cento di quello che gli avete tagliato. Signor Presidente del Consiglio, non raccontiamoci più delle cose simili ma guardiamo in faccia questo problema. Vi è un Paese reale, in carne e ossa, che non vuole più chiacchiere ma vuole qualcosa di concreto».
Bene, finalmente dal Pd, sembra, un riconoscimento che c'è la necessità di smetterla con l'antiberlusconismo a priori e di passare dalle parole ai fatti. Anche se quel «guardiamo in faccia» smorza un po' l'effetto. «Guardiamo», non pare sinonimo di «facciamo», ma al più di «discutiamo», unica cosa che sembra il centro sinistra sappia fare. Tavoli e tavolini per evocare i problemi, ma a contribuire a risolverli ne passa e come se ne passa di acqua sotto tutti i ponti d'Italia. Poche idee, perché buttarle rischiando di regalarle al «nemico»? E così il massimo che Bersani tira fuori dal cilindro è il fantasma di Visco: «Allora, vogliamo varare una riforma fiscale? Noi abbiamo una proposta, vi va bene? Abbiamo una proposta per scaricare il peso fiscale dal lavoro, dalle imprese e dalle famiglie e per caricarlo su evasione e rendite. E poi basta con i condoni! Vogliamo discuterne?». Discuterne, appunto. Che altro?
«Vogliamo discutere di politica industriale, di politica per le tecnologie e la banda larga, di politiche per l'efficienza energetica, di politiche per un'edilizia in grado di far risparmiare energia? Abbiamo proposte e sono proposte che possono dare un po' di lavoro. Vogliamo discutere del fatto di alleggerire un pochino gli enti locali consentendo loro di avere un po' di cantieri e di lavoro e di reggere i servizi fondamentali? Ci dite di non venire a parlare dei soldi. Non potete permettervi di venirci a dire qualcosa sulla questione dei conti pubblici perché li avete solo fatti "sballare", dal 1994 ad oggi, mentre noi li abbiamo sempre e solo corretti. È offensivo che veniate a dirci questa cosa. È offensivo! Vi spieghiamo noi dove prendere i soldi, ve lo diciamo noi». Ma perché allora non dirlo a tutti in diretta televisiva? O c'è bisogno di un tavolino? Gran brutta bestia la retorica.
Già. E la polemica sterile e le battute riprendono il sopravvento: «Si è detto "Governo del fare". Ma del fare che cosa? Abbia pazienza, signor Presidente del Consiglio, ma sono 10 anni che governate con la Lega, 7 anni negli ultimi 9. Insomma, volete farci il riassunto? E non in cinque punti di ribollita. Tre, due o un punto. Su cosa è migliorata l'Italia: ditemi almeno un punto. Il fisco? La burocrazia? Il lavoro? In cosa è migliorato questo Paese? Andiamo al riassunto, andiamo al riassunto. Se poi non succede mai niente di concreto non potrà sempre essere colpa del nemico. Una volta l'opposizione, poi i magistrati, i comunisti, i rom, la Corte costituzionale. Ma quanti anni volete governare perché sia colpa vostra? Volete governare per 80 anni? Quanto volete governare?». E poi una frase da annotare: «Il Paese ha bisogno di fatti veri e non di propagande di miracoli». Troppo facile ribattere che l'Italia non ha bisogno neppure di propagande di catastrofi. L'antiberlusconismo, come qualcos'altro nella tradizione popolare, evidentemente rende ciechi. È pura autoreferenzialità, quel desiderio d'essere avanguardia deluso dalla storia, trasformato in un destino di retroguardia senza appello.
No, Bersani non è l'alternativa. Non lo è neppure quando pensando di fare il faceto dice: «Mi spieghi il misterioso motivo per cui lei, signor Presidente del Consiglio, non va a Napoli o non lo cita neanche. Io ci vado domani. Vogliamo andare insieme a vedere dove è il miracolo dei rifiuti? Vogliamo andare insieme a L'Aquila per vedere a che punto si trova il programma di ricostruzione? Adesso ci stiamo andando noi. Venga anche lei a farsi un giro». Come se il suo giro, quello di Bersani, fosse taumaturgico. Manca sempre il dopo. Ed è questo che rende le sue querimonie vuote. Desolatamente vuote. Senza Berlusconi e l'antiberlusconismo che riempie le sue giornate politiche, Bersani e il suo partito sparirebbe, perché non avrebbe ragione di esistere.
Perché si torna sempre lì: «L'onorevole Barbareschi, nel suo intervento bello e onesto, si chiedeva qual è il punto della vostra crisi politica. È la distanza tra le parole e i fatti. Questo è il punto. Signor Presidente, lei arrivò con un sogno, lanciò un sogno. Poi il sogno è diventato una favola, ma la favola si è dispersa in mille bolle di sapone, se lo lasci dire. È questa la percezione che ha il Paese. E, allora, lei fa dire ai suoi telegiornali che è l'uomo del fare e non del teatrino della politica. Guardi, lei è l'impresario di questo teatrino qui!».
E finisce col dichiarare inconsciamente ed indirettamente la propria impotenza politica: «La politica da quindici anni sta facendo il girotondo attorno a lei, alle sue questioni, e se lei, come si è visto questa estate, indica con il dito un malcapitato, quello lì va alla gogna per colpe che a lei sarebbero (e sono) mille e diecimila volte perdonate; questo non è accettabile. I deputati vanno e vengono, lo ribadisco, perché c'è un limite a tutto. I deputati vanno e vengono; noi viviamo ormai nei paradisi fiscali della politica, le carriere sono al portatore, le leggi sono al portatore. Cara Lega, lasciamo stare, quando vi siete stancati di osannare i vostri Ministri, volete spiegarmi per quale diavolo di motivo avete votato tutte le leggi che hanno favorito la cricca? Se le è fatte lei, la cricca, queste leggi! Me lo dite perché? Avanti, noi non ci arrendiamo. Voi oggi mettete una fiducia per debolezza; per debolezza la mettete, perché nessuno vuole in mano il cerino. Nessuno vuole in mano il cerino acceso della crisi, questa è la fiducia del cerino, parliamoci chiaro. Questa qui è la fiducia del cerino. Non potrete promettere più stabilità e più governabilità a un Governo che non sia peggio del peggio che abbiamo visto fin qui, non è possibile».
E finisce con un'apoteosi di confusa coscienza di sé, di rimprovero per l'inefficienza altrui che scopre la propria, di speranza di contare qualcosa domani: «Ci vuole un passaggio che ci porti a un nuovo confronto elettorale, con regole elettorali più civili e con progetti nuovi. Lo sentiamo anche noi, intendiamoci; anche noi abbiamo alle spalle qualche errore; anche noi dobbiamo caricarci di un progetto nuovo per il Paese, ma voi non potete traccheggiare, il Paese non può aspettare. E non veniteci a dire che abbiamo paura delle elezioni: ve le siete rimesse in tasca voi le elezioni, non noi, attenzione! Noi abbiamo da presentare un progetto al Paese. Oggi qui non si apre una pagina nuova; qui si comincia a chiudere una pagina vecchia. La pagina nuova la apriamo noi, noi la apriamo!». Una pagina bianca. Per scriverci cosa? E quando?
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