martedì 23 dicembre 2008

Il "bono taliano", gli ustascia e il massacro dei serbi

Il quotidiano di Trieste "Il Piccolo" ha pubblicato lunedì 22 scorso un articolo in cui Roberto Spazzali fa la recensione del numero 16 della rivista "Ventunesimo Secolo", dedicando grande spazio ad un argomento, quello del massacro dei serbi da parte degli ustascia di Ante Pavelić, che mantiene ancora interesse nel dibattito storiografico circa il mito del "bono taliano". Titolo: "Gli italiani frenarono gli ustascia nel massacro dei serbi". Utile perché se non altro evidenzia, consapevolmente o inconsapevolmente quanto sia difficile pensare di porre oggi una parola definitiva sulle questioni che hanno interessato il "confine orientale" durante l'occupazione italiana di quei territori e successivamente sino al termine del conflitto mondiale.

La rivista «Ventunesimo secolo», edita da Rubbettino sotto la direzione di Gaetano Quagliarello e Victor Zaslavsky, dedica il numero 16 a due temi monografici che bene rappresentano e illustrano alcuni motivi cruciali del secolo scorso: «L’Italia e il suo confine orientale» e «La primavera di Praga negli Archivi di Mosca». Gli anni Quaranta e Sessanta sono apparentemente lontani da noi e distanti tra loro, ma conservano tuttora un nodo per certi aspetti insoluto sul piano storiografico: il rapporto tra l’Italia e il vicino oriente europeo, nel caso Jugoslavia e Cecoslovacchia.
Partendo dagli studi pionieristici in materia, il più recente accesso a nuove fonti archivistiche ha permesso di gettare nuova luce sui fatti ma non sempre l’interpretazione storiografica che è seguita sembra avere tratto giovamento, quando si è trattato di rivedere se non addirittura scalzare consolidate convinzioni, spesso conseguenza di incrostazioni ideologiche e comode vulgate.
Tutti questi aspetti emergono in modo molto netto dal contributo di Marina Cattaruzza (Università di Berna) e Orietta Mostarda (Centro di Ricerche Storiche di Rovigno) «L’esodo istriano nella storiografia e nel dibattito pubblico in Italia, Slovenia e Croazia: 1991-2006» e in quello di Sanela Hodzic «Italiani brava gente? Storiografia recente dell’occupazione in Croazia durante la seconda guerra mondiale», che in un certo senso si integrano e si completano a vicenda.
Altri contributi sui rapporti italo-jugoslavi sono di Maria Teresa Giusti – che qui anticipa i contenuti di un saggio di prossima uscita – sui militari italiani prigionieri di Tito, e di Elena Aga-Rossi e Antonio Carioti intorno ai prodromi dell’eccidio di Porzus, ovvero l’uccisione in circostanze poco chiare dell’agente Michel Trent del Soe e il diniego di Romano Zoffo, comandante della II brigata Osoppo di passare sotto le dipendenze del IX Corpus. Esattamente un mese prima della strage.
È bene che se ne parli ancora anche se non si aggiungono elementi nuovi, proprio per destituire quei tentativi di comodo relativismo o di pervicace giustificazionismo atti a porre sul piatto della bilancia sempre qualcosa che risulti più pesante di quello opposto. Una delle maggiori difficoltà di comprensione la storia della Venezia Giulia nel secondo Novecento da parte della storiografia italiana è stata di non cogliere l’indissolubile legame tra lotta di liberazione e guerra civile, solcata dallo scontro ideologico in cui la prospettiva di annessione alla Jugoslavia di Tito aveva avuto un potere così dirompente da portare i comunisti giuliani su quelle posizioni, fino a spezzare l’unità della resistenza italiana, fino a favorire una nuova sovranità su gran parte della Venezia Giulia. Certamente in questi ultimi quindici anni i contributi in materia hanno colmato ritardi passati ed ovviato a certe fastidiose omissioni, hanno anche avvicinato storici italiani, sloveni e croati – anche se in verità ciò era già avvenuto negli anni Sessanta con risultati che reputo interessanti e casomai da rivalutare in occasione delle conferenze storiche italo-jugoslave di Taormina - ma solo dopo la dissoluzione del blocco sovietico e la deflagrazione della Jugoslavia.
Ora, secondo Cattaruzza e Mostarda, è possibile un bilancio su storiografia e dibattito pubblico nei rispettivi riflessi: il panorama così ricostruito non è particolarmente confortante perché la ricerca, sui rispettivi versanti ha continuato a subire il condizionamento dell’uso pubblico della storia mentre è stata riposta eccessiva fiducia dei risultati della nota commissione storica italo-slovena, che in Italia non è mai stata ufficialmente riconosciuta anche se divulgata mentre la Slovenia ne ha fatto spesso strumento per dimostrare che si era giunti a una versione condivisa. Parimenti essa non ha nemmeno promosso una storiografia plurale dell’area adriatica, in quanto, come hanno osservato le due studiose, in buona sostanza ciascuna storiografia è rimasta sulle rispettive posizioni nazionali, che anzi si sono radicate.
Così se dal canto italiano è stata istituita la Giornata del ricordo, come atto di riparazione della labile memoria nazionale, largamente condivisa dalle forze politiche, da parte slovena e croata sono riapparsi, come reazione si potrebbe aggiungere, i refrain cari alla più vetusta propaganda nazionalista, segno evidente che la classe politica non ha gradito alcune aperture individuali, alcune precise azioni tese a mettere sotto un’altra lente la Storia, e ha sentito immediatamente il bisogno di ripristinare l’antico controllo sulla produzione storica, fino a dettare alcune forme di storiografia ufficiale. Certamente non sono mancate le voci isolate, i tentativi di leggere e spiegare il Novecento nei rapporti italo-sloveno/croati al di fuori di una politica della memoria, perseguita invece a livello ufficiale in due direzioni opposte: la costruzione di una artificiale memoria condivisa oppure la blanda reciproca attribuzione di colpe e responsabilità pur riconoscendo fortemente le proprie ragioni.
L’attento esame della produzione storiografica e del livello di dibattito dimostra la difficoltà tuttora presente nel campo italiano di comprendere le vicende del confine orientale nel novero della propria storia nazionale, da parte slovena e croata di uscire dalla mitizzazione o dalla difesa apologetica di taluni miti.
Sono altrettanto interessanti i risultati ai quali giunge Senela Hodzic con un esame comparato tra storiografia serba e croata sull’immagine degli italiani durante la campagna nei Balcani: ebbene, se in Croazia gli storici tuttora non si sono discostati di molto dalle versioni offerte dalla storiografia jugoslava di regime, in Serbia la presenza italiana è stata rivalutata soprattutto quando essa risultò determinante nel frenare le persecuzioni ustascia a danno della popolazione serba, e quindi attribuire nuovi ordini di responsabilità nel campo delle atrocità. Anche in questo caso, tanto per serbi che per croati, esigenze di politica interna premono sulla gestione della memoria storica.
La rivista si completa con due contributi altrettanto significativi: l’esame di documenti inediti di Mosca sulla primavera di Praga, a cura di Viktor Zaslavsky, e un’analisi di Antonio Varsori sul convegno delle potenze occidentali a Puerto Rico (1976) dedicato alla tenuta del sistema democratico italiano davanti l’ipotesi di vittoria elettorale del Pci e del suo ingresso al governo. I due contributi ruotano intorno al ruolo dei comunisti italiani, come d’altra parte emerge anche negli articoli dedicati ai rapporti italo-jugoslavi, con la rivelazione di alcune interessanti notizie, quali la capacità dell’Urss di entrare in possesso di documenti segreti della diplomazia italiana (peraltro non ancora disponibili in Italia ma tranquillamente consultabili a Mosca in traduzione russa) e il cruciale nodo della doppia fedeltà comunista. Nei mesi successivi l’invasione sovietica della Cecoslovacchia, per inciso fortemente sostenuta dal leader ungherese Kadar fino ad ottenerla dal Politburo sovietico, nel timore che l’esperienza di Dubcek non avrebbe tardato fare breccia in Ungheria, mentre la dirigenza nazionale del Pci aveva preso le distanze, i 2/3 della base militante approvava l’intervento quale difesa del primato sovietico in seno al movimento comunista internazionale. Un altro ritardo dell’Italia sulla via di una moderna democrazia. Solo quarant’anni fa.

Trieste ha riaccolto Massimiliano d'Asburgo

Trieste ritorna piano piano, grazie all'apertura mentale favorita dall'idea di un'Europa unita dei popoli, a scoprire la sua storia di città asburgica e porto dell'Austria. Finalmente è stato sanato un torto storico: la statua dell'arciduca Massimiliano d'Asburgo, fratello del Kaiser und König Franz Joseph, imperatore del Messico, ritrova la sua collocazione in Piazza Venezia dove fu posizionata nel 1875 alla presenza dell'imperatore Francesco Giuseppe e da dove fu rimossa dall'ottusità degli occupanti sabaudi nel 1918. Riprendo da un'Ansa del 18 dicembre scorso la notizia, titolo: "La statua di Massimiliano ritorna a Trieste".

Dopo 90 anni d'esilio, ritorna a Trieste, nella centralissima piazza Venezia, lungo le rive, la statua dell'arciduca Massimiliano d'Asburgo, fratello dell'imperatore Francesco Giuseppe, re del Messico, ucciso nel 1867. La statua - posizionata a Trieste nel 1875 nel corso di una solenne cerimonia che vide la presenza dell'imperatore - dal 1918, all'arrivo dell'Italia in città, fu tenuta in un deposito comunale fino al 1961, quando fu ricollocata in uno spiazzo del parco del Castello di Miramare. La storia dell'arciduca è fortemente legata a quella di Trieste: Massimiliano morì in Messico nel 1867 ed immediatamente dopo si costituì, nella città che allora era il più importante Porto dell'Impero austriaco, un comitato per raccogliere fondi da destinare proprio alla realizzazione di una statua in sua memoria. Era un riconoscimento per l'attaccamento e l'amore che l'Arciduca aveva dimostrato per la città attraverso molti interventi nell'economia, nella cultura e nel sociale. "La ricollocazione della statua al centro di piazza Venezia - ha detto il sindaco di Trieste, Roberto Dipiazza - sarà di stimolo per lo sviluppo del turismo soprattutto dall'Austria. Molte perrsone - ha detto il sindaco - ritorneranno a visitare Trieste per vedere questo positivo recupero storico, che riporta l'arciduca Massimiliano nel suo sito originario, dando giusto riconoscimento a chi tra l'altro fece costruire il Castello di Miramare che è simbolo della città nel mondo". (ANSA).

Trieste apre al padre della letteratura slovena

Almeno dalle istituzioni sempre più frequenti segnali arrivano che il confine che ha diviso artificiosamente Trieste dal suo retroterra sia caduto definitivamente. Riprendo dal quotidiano "Il Piccolo" un breve articolo del 18 dicembre scorso, dal titolo: "Console slovena a Trieste: una targa per Primoz Trubar". Vediamolo:

Una targa da fissare al muro della Risiera di San Sabba, per ricordare «assieme a tutti gli altri, i morti di origine slovena». Un’altra da sistemare all’ingresso di palazzo Bonomo, per citare Primoz Trubar, considerato il padre della letteratura slovena, in occasione dei 500 anni dalla nascita.
Sono le due richieste fatte ieri al sindaco Roberto Dipiazza da Bojana Cipot, la giovane nuova console della repubblica slovena a Trieste. La Cipot e Dipiazza si sono incontrati per la prima volta, in Municipio, nel corso del tradizionale appuntamento fra il primo cittadino e ogni console di nuova nomina in città. Bojana Cipot, nata a Nova Gorica e laureata in Sociologia all’Università di Lubiana, a suo agio nell’esprimersi in lingua italiana, non ha perso tempo, superando la formalità dell’appuntamento ed entrando subito nel vivo dei rapporti fra la città e la Slovenia. «Sarebbe molto utile – ha detto - proseguire con regolarità nell’organizzazione delle conferenze fra i sindaci transfrontalieri di quest’area geografica». «Senz’altro - è stata la risposta di Dipiazza – perché si tratta di incontri molto importanti, che si inseriscono nel filone della sempre più intensa collaborazione fra Trieste e la Slovenia». Anche sul tema delle targhe il sindaco si è espresso favorevolmente: «Basta seguire le necessarie procedure» ha dichiarato. In città potrebbe così comparirne una dedicata a Primoz Trubar, dapprima sacerdote cattolico e, in seguito, pastore luterano in Germania che si avvicinò al luteranesimo alla scuola del vescovo di Trieste, Pietro Bonomo, e divenne il più attivo animatore della riforma protestante in terra slovena. Considerato il padre della letteratura slovena, Trubar fu autore di più di 25 libri in lingua slovena, i più importanti dei quali furono le traduzioni in sloveno del Nuovo Testamento e dei Salmi.
La Cipot, che è console di carriera, ha anche chiesto a Roberto Dipiazza di poter disporre di una copia del piano Urban: «Vorremmo replicarlo, per quanto possibile, a Lubiana» ha precisato e, anche su questo punto, il sindaco ha manifestato estrema disponibilità. (u.s.)

Trema la Padania

La forte scossa di terremoto avvertita oggi in buona parte del Nord Italia aveva una magnitudo 5.2, ed stata registrata nel pomeriggio, esattamente alle 16.25, dagli strumenti dell'Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia. L'epicentro è stato localizzato tra le province di Reggio Emilia e Parma, nei comuni di Vetto, Canossa (Reggio Emilia) e Neviano degli Arduini (Parma). In precedenza a Reggio Emilia era stata avvertita una prima scossa attorno alle 15.30. La seconda, molto più forte, poco meno di un'ora dopo ha fatto scendere la gente per le strade. Nessun danno visibile agli edifici del centro.
A seguito della scossa di terremoto è stata temporaneamente interrotta la circolazione ferroviaria lungo le linee Bologna - Verona e Bologna – Milano, come hanno reso noto le ferrovie in un comunicato. L’interruzione è una precauzione necessaria per consentire ai tecnici di RFI di effettuare le opportune verifiche sull’integrità dell’infrastruttura, sebbene, per la sua entità, il terremoto non dovrebbe aver prodotto, in teoria, alcuna conseguenza sull’efficienza della rete. Sono previsti pertanto ritardi nella circolazione ferroviaria tra le città interessate con possibili ripercussioni anche nelle aree limitrofe.
La scossa di terremoto è stata avvertita in diverse aree della Toscana. A vigili del fuoco e protezione civile stanno arrivando le segnalazioni dei cittadini, in particolare, dal Mugello e dalle province di Firenze, Pistoia e Lucca. In Versilia la scossa è stata avvertita sia sulla costa sia nell'entroterra.
La scossa di terremoto è stata avvertita a Genova. Numerose le chiamate al 118 subito dopo la scossa a Milano e in altre città della Lombardia. Paura dunque, dalla Toscana a Trieste, ma nessun danno segnalato. Al momento non sono arrivate alle centrali operative dei vigili del fuoco dell'Emilia Romagna richieste di intervento per eventuali danni provocati dalla scossa di terremoto.
Le squadre dei vigili del fuoco sono comunque uscite per effettuare delle verifiche sul territorio anche in seguito alle diverse chiamate di informazioni giunte ai centralini.

venerdì 12 dicembre 2008

Per molti è difficile realizzare d'essere ferri vecchi della propaganda

Sempre da "Il Piccolo", edizione del 7 dicembre, riprendo questa lettera di Dimitri Tabaj di Gorizia. Il tema è il sentimento antisloveno non solo datato ma semplicemente fuori dal tempo.

Non è mia consuetudine commentare lettere che reputo troppo tendenziose o che riportano dati volutamente errati. Faccio comunque un’eccezione per le lettere della signora Novelli, la quale asserisce che il monumento al poeta sloveno Simon Gregorcvicv dovrebbe essere rimosso dai giardini pubblici di Gorizia, poiché a suo dire il poeta stesso non sarebbe goriziano.
Quest’affermazione è quanto meno tendenziosa dal momento che notoriamente Simon Gregorcvicv era natio di Vršno vicino a Kobarid (Caporetto), la quale località è storicamente legata al capoluogo isontino. Non per niente il poeta è chiamato anche «goriški slavvek» ovvero «l’usignolo goriziano».
Egli inoltre visse e operò a Gorizia. Spazzata via la tendenziosità resta tuttavia ancora da chiarire perché la signora Novelli non reputi degno di un monumento qualcuno soltanto perché non goriziano. Spero che ella non voglia, seguendo questa logica sbagliata, far portare via anche il monumento a Enrico Toti (il quale non era goriziano) o a Giulio Cesare (non vorrei deludere nessuno, ma anche Giulio Cesare non era goriziano...). E neppure vorrei che se la prendesse con l’attuale sindaco Romoli soltanto perché natio di Firenze o con l’ex sindaco Valenti perché istriano di nascita.
Temo che il contenuto degli scritti, forse preconfezionati, della Novelli derivi solamente dal clima pesante che si respira a Gorizia, clima ostile a tutto ciò che è sloveno. Si vuole, con una politica di basso profilo, confinare la lingua e la cultura slovena fuori dal centro cittadino (dove invece trova legittima e storica collocazione, come sanno tutti i goriziani slavi o romanzi che siano), seguendo vecchi schemi operativi che mai nulla di buono hanno portato alle nostre popolazioni. Stia tranquilla signora, quello lei chiama con malcelato fastidio «monumentino» e tutt’altro che «-ino»: è un grande monumento a un grande personaggio di queste terre e lo si vede molto bene. È solo questa «visibilità» a darle fastidio, ma ci si abituerà.

I cartelli bilingui e il diritto al rispetto delle minoranze

Il problema del rispetto del bilinguismo in provincia di Trieste è un problema attuale. Lo comprova questo articolo de "Il Piccolo" del 3 dicembre scorso, titolo: "Sgonico all'Anas: subito cartelli bilingui", firmato da Riccardo Tosques.
«Integrare la segnaletica stradale esistente con le relative denominazioni ed indicazioni in lingua slovena pena l’applicazione delle sanzioni vigenti in materia». E’ questa la richiesta formulata dal sindaco di Sgonico Mirko Sardoc attraverso un’ordinanza scritta indirizzata all’Anas Spa, l’ente gestore del tratto di autostrada e delle relative rampe di accesso site nel territorio comunale tuttora sprovviste della segnaletica con la dicitura bilingue.
«L’ordinanza protocollata in data 18 novembre dovrà essere ottemperata nel termine di sessanta giorni continui – recita il documento - altrimenti scatterà «l’applicazione delle sanzioni vigenti in materia». Questo il commento del primo cittadino di Sgonico Mirko Sardoc: «Vogliamo che le leggi nazionali e regionali in materia di tutela della lingua slovena vengano applicate anche per temi non di secondo conto come la segnaletica stradale». Il sindaco ha poi ricordato che anche in caso di apposizione di segnali stradali di nuova collocazione le diciture e le indicazioni dovranno essere sia in lingua italiana che in quella slovena.
Un problema quello dei cartelli bilingui emerso recentemente anche nel comune di San Dorligo della Valle dopo l’ultimazione dei lavori della Grande viabilità. «Anche nella nostra zona persiste l’assenza dei cartelli bilingui sull’autostrada ed è un problema che sta coinvolgendo anche altre realtà della provincia di Trieste», ha spiegato il sindaco di San Dorligo Fulvia Premolin. Qui spesso anche i toponomi sono sbagliati ed è per questo che nelle ultime sedute del Consiglio comunale è emerso la necessità che «tutto il territorio sia tutelato da questo punto di vista».
E anche da Duino Aurisina arriva la notizia di un’ordinanza in arrivo: «I miei uffici stanno preparando un documento simile per cercare di sensibilizzare le autorità competenti sul problema delle insegne stradali bilingui», ha affermato il sindaco Giorgio Ret. Infine anche il Comune di Muggia ha voluto aderire, ma solo moralmente, all’iniziativa presentata da Sardoc: «Per problemi tecnico-legali legati al nostro statuto comunale non possiamo emanare anche noi un’ordinanza simile, ma voglio che sia chiaro che il nostro appoggio al sindaco Sardoc è totale», ha commentato il primo cittadino Nerio Nesladek.

L'Euronazione Mitteleuropea

Su "Il Piccolo" dello scorso 2 dicembre è apparsa la seguente lettera firmata Emo Tossi, che pone in maniera precisa quello che potrebbe essere uno scenario di aggregazione anche statuale dell'«Euroregione» di cui si parla da tempo e che sicuramente sta raccogliendo gli auspici di molti pensatori liberi e di esponenti di peso della politica del Nordest. È importante darne traccia. Scrive il Tossi:
È da parecchio tempo che si parla di costituire una «Euroregione» formata da Friuli Venezia-Giulia, Veneto, Carinzia, Slovenia, Contea croata d’Istria con capoluogo Pola e Contea croata Quarnerina con capoluogo Fiume; però questa proposta non mi pare tanto adatta alla realtà dei fatti.
Io proporrei invece di considerare l’ente sopra menzionato non «Euroregione» ma «Euronazione» e di chiamarla «Repubblica Mitteleuropea». Questa sarebbe costituita da quattro «Euroregioni» autonome e cioè Veneto, Carinzia, Slovenia e «Litorale Mitteleuropeo» formato dall’attuale Friuli Venezia-Giulia, dall’attuale Litorale sloveno con capoluogo Capodistria, dalla Contea croata d’Istria con capoluogo Pola e dalla Contea croata Quarnerina con capoluogo Fiume. Capoluogo del «Litorale Mitteleuropeo» naturalmente sarebbe Trieste, che dovrebbe essere anche capitale della «Repubblica Mitteleuropea». Proprio così si agevolerebbe il futuro specialmente dell’auspicabile «Litorale Mitteleuropeo» in tutte le sue componenti e si onorerebbe un passato secolare indimenticabile!
Credo che la presente proposta sarebbe accolta molto favorevolmente dalla stragrande maggioranza dei cittadini interessati perciò mi auguro che trovi fortuna in un futuro non lontano.

mercoledì 10 dicembre 2008

Veltroni si becca sei mattoni in un solo sondaggio

Dai giornali d'oggi annoto questo articolo di Oscar Giannino su "Libero", titolo: "Sondaggi neri per il leader Pd. Veltroni vicino al crac: perde altri 5 punti".


I sondaggi, si sa, vanno presi sempre con le pinze. E la politica che si rispetti talora, e soprattutto nei momenti di difficoltà, si serve dei sondaggi non tanto per fame tavole della legge, ma magari per imporre svolte coraggiose con l'idea che solo esse saranno in grado di capovolgere andamenti negativi e ridar forza e consensi alla propria parte. In larga misura, è proprio il difficile compito che oggi spetta al Pd e al suo leader. Perché il sondaggio elettorale Ipr-Repubblica reso noto ieri fa giustizia non di uno, ma di ben quattro luoghi comuni sui quali in questi ultimi due mesi si cullavano molte delle speranze del Pd. Il primo luogo comune pretendeva che la crisi finanziaria e le difficoltà economiche inevitabilmente si ripercuotessero in scontento popolare, e dunque in un fisiologico calo dei consensi per Silvio. Il secondo, immaginava che con la legge elettorale proporzionale con cui si vota alle prossime europee, la sinistra antagonista esclusa nell'aprile scorso dal Parlamento tornasse a rafforzarsi, con un evidente ritorno alle urne e non attraverso voti in meno per il Pd stesso. Il terzo, prevedeva che al di là della sinistra antagonista la proporzionale avrebbe comunque prodotto una dispersione generale del voto, e di conseguenza un indebolimento più forte innanzitutto per il PdL. Il quarto, infine, scommetteva sul fatto che, in assenza di soglie elettorali tali da impensierire, magari il travaso di voti dal centrodestra sarebbe stato più evidente a favore dell'Udc, incoraggiando Casini a esaminare con maggior interesse l'idea di una convergenza col Pd.
Il sondaggio realizzato per Repubblica smentisce in un sol colpo tutte queste aspettative della sinistra. Berlusconi e il PdL non solo non "soffrono", per effetto della crisi economica, ma aumentano ulteriormente i consensi. E non di poco, visto che il partito di Berlusconi tocca quota 39%. In crescita di quasi due punti rispetto alle politiche del 2008. Il Pd si attesta invece su un magrissimo 28% che non può far sorridere. Più di 3 punti percentuali in meno rispetto alle europee del 2004, quando Ds e Margherita ottennero disgiuntamente il 31,1%. E con un calo di oltre 5 punti rispetto al 33,2% conseguito alle politiche, nello scorso aprile.
Quanto alla sinistra antagonista, la somma di Rifondazione, Pdci e Verdi alle politiche fu bocciata con un esiguo 3,8%. Tornando eventualmente a separarsi, non fa meglio. Rifondazione si ferma oggi al 2,3%, perdendo due terzi dei voti rispetto al 6,1% del 2004. Il Pdci allo 0,6%, perdendo i tre quarti dei consensi rispetto al 2,4% del 2004. I Verdi all'1;3% solo la metà di quel che erano nel 2004. Venendo agli effetti di "sgretolamento" della proporzionale sui poli maggioritari, purtroppo per il Pd l'effetto si manifesta solo nel suo campo, come abbiamo visto in netto arretramento rispetto a quando Ds e Margherita erano separati. Ma al contrario l'operazione PdL premia Berlusconi e Fini, che al 39% oggi guadagnerebbero ben 6 punti e mezzo rispetto al 32,5% ottenuto alle ultime europee, quando Forza Italia e An correvano divisi. Infine, per quanto concerne l'atteso premio all'Udc da parte di voti in uscita dal centrodestra, il sondaggio attesta il contrario. Il centrodestra cresce nei voti e dunque non travasa verso il centro, visto che ai due punti guadagnati sulle politiche dal PdL si sommerebbe una Lega comunque in netta avanzata dal 5 al 7,5% rispetto alle ultime europee, e a pochi frazioni di punto dall'8,3% conseguito alle politiche. Mentre solo il 4% degli elettori dichiara oggi la sua intenzione di voto per il partito di Casini. In calo di un punto e mezzo rispetto alle politiche di aprile.
Oltre a questi quattro scacchi per Veltroni, il sondaggio ne anticipa un altro paio ancor più pesanti. Uno sconfessa l'alleanza voluta dal leader del Pd alle politiche. L'altro comprova che hanno ragione i dirigenti del partito che criticano, non lui che non dà loro retta. Vediamoli. Del centrosinistra, l'unico a guadagnare nettamente voti è infatti Di Pietro. Il duro e puro dell'antiberlusconismo incassa una crescita dei consensi fino al 7,8%, quattro volte quelli raccolti alle europee 2004, e quasi raddoppiando il 4,4% delle politiche grazie al simbolo affiancato a quello del Pd. È il Pd a travasare voti verso Di Pietro: questo è uno degli elementi più chiari del sondaggio. Una tendenza che prova che o Veltroni ha sbagliato alleanza, oppure sbaglia a restarvi alleato lasciando Di Pietro nella comoda condizione di trarre il massimo vantaggio dai suoi toni più oltranzisti. Che oltretutto rischiano di essere ancora più premianti, con la questione morale che azzanna i garretti del Pd in mezza Italia, senza che Veltroni metta in campo una strategia chiara in risposta.
Infine, gli andamenti territoriali. Non solo il PdL di Berlusconi sarebbe primo partito in tutte e cinque le circoscrizioni, raggiungendo il massimo in quella insulare col 43,8%o e il minimo nel Nord Est col 31,5%, laddove la Lega supererebbe però il 13,2%, candidandosi a prima forza politica in regioni come il Veneto. E con un Bossi in fortissima crescita nel Nord Ovest, dove toccherebbe il 19,5% guadagnando 8 punti rispetto al 2004. Ma questa crescita del centrodestra avverrebbe proprio a scapito del Pd, che tra Piemonte e Lombardia nel Nord Ovest totalizzerebbe una flessione di ben 5 punti rispetto ai 3 o 4 che perderebbe comunque nel resto d'Italia. Come a dire che il sindaco di Torino Sergio Chiamparino ha perfettamente ragione, nel chiedere uno "strappo" nordista rispetto al Pd romano. Il coordinamento del Pd del Nord che Chiamparino e Cacciari invocano non ha nulla a che vedere, con la mera finzione organizzativa messa in scena ieri dalla segreteria nazionale con i segretari del partito di otto Regioni, compresa l'Emilia Romagna che è altra storia. Il sondaggio di Repubblica indica che senza un'anima largamente indipendente da Roma, al Nord vince sempre più chi interpreta meglio le vocazioni e le proteste territoriali. È una questione politica, non organizzativa.
Sei mattonate per Veltroni in un solo sondaggio. Non c'è male, in vista della prossima direzione del Pd e delle elezioni abruzzesi.


Concerto di Natale 2008 delle Acli lodigiane


Segnalo una iniziativa organizzata dalle Acli lodigiane per venerdì 12 dicembre alle ore 21.00 presso la chiesa S. Filippo in C.so Umberto a Lodi.

Una giustiza all'anarchia

Roberto Castelli è intervistato oggi da "La Padania" sul tema della giustizia. Titolo: "Castelli: «Giustizia da riformare, ma senza pensare alle vendette»". L'articolo è di Matteo Mauri.
«Premessa: non è corretto parlare di "riforma della giustizia"; piuttosto bisogna dire: "completamento di un'azione che abbiamo iniziato noi due legislature fa. Poi è arrivato Mastella...».
E ha bloccato tutto? «Ha fatto una controriforma. Con cui però non è riuscito a cancellare alcune cose importanti, come la scuola della Magistratura, la revisione del processo disciplinare, la messa in capo della responsabilità del procuratore capo. Ma di questo ultimo punto, evidentemente, qualcuno non se n'è accorto».
Roberto Castelli, già ministro della Giustizia per cinque anni due legislature fa, parla del degrado in cui versa la magistratura e auspica una riforma profonda ma non punitiva.
Senatore Castelli, quando dice che qualcuno non si è accorto di ciò che è successo, allude ad Eugenio Scalfari? «Certo, si sta battendo per introdurre il principio, affermando che è la cosa più importante da fare. Inoltre si dimentica di avermi insultato e attaccato per anni proprio perchè all'interno della nostra riforma c'`era proprio l'introduzione della responsabilità del procuratore capo. Il che dimostra quanto fossero pretestuose le prese di posizione di Repubblica, da molti definito come l'organo ufficiale della sinistra».
Sinistra che oggi pare meno lontana rispetto alle posizioni assunte da lei quando era ministro della Giustizia. «La sinistra si rende conto oggi di una cosa che affermo da tempo: il suo controllo della magistratura è una pia illusione. Adesso che la sinistra viene attaccata pesantemente pensa che sia il caso di dare una regolata ad un organo completamente avulso da tutto, che prende invece iniziative più politiche che giudiziarie».
Luciano Violante appare sempre più convinto della necessità di una riforma profonda: la sua è una posizione personale oppure dà voce ad una buona parte del Pd? «Non lo so. Certo, negli anni '90 Violante era considerato uno dei referenti delle "toghe rosse". Se uno come lui oggi dice certe cose mi pare comunque un fatto significativo. Quale sia il vero motivo che ha spinto Violante ad assumere certe posizioni ora è impossibile dirlo. Certo è che la sinistra sta subendo un po' ciò che ha subito Mastella. Non hanno capito cioè che lasciare ogni pm senza controllo ha lasciato tutti preda dei "cani sciolti". Pensare che il Csm potesse esercitare un controllo reale è stato pura utopia. Ci sono riusciti in parte, per esempio con Cordova e con la Forleo, parzialmente anche con De Magistris. Ora si accorgono che bisogna mettere un po' d'ordine. Adesso c'è l'anarchia».
Addirittura? «Basti pensare a Catanzaro e Salerno. Senza voler giudicare chi abbia ragione e chi torto, è chiaro che una delle due parti ha agito in modo palesemente illegale. In questa situazione degenerata resta soltanto Di Pietro a difendere lo status quo. Del resto come è possibile difendere una magistratura i cui componenti si arrestano a vicenda? Abbiamo sentito un magistrato dire che un procuratore faceva azione eversiva!».
Quindi come se ne esce? «Se ne esce realizzando quelle parti di riforma che io non ero riuscito a fare e ripristinando quelle parti cancellate da Mastella. A cominciare dalla professione in carriera, che con la controriforma Mastella è riesplosa. Bisogna poi riformare il Csm».
Non è facile... «Ormai è sotto gli occhi di tutti che la magistratura non è stata in grado di autogovernarsi, quindi bisogna intervenire».
Adesso che anche esponenti della sinistra sono coinvolti in indagini giudiziarie, è giusto dire che c'è una questione morale anche da quella parte, o che comunque non c'è più una superiorità morale della sinistra? «La superiorità è stata sempre più apparente che reale. La sinistra si è salvata per motivi molto precisi: di fronte a certi passaggi, alcuni magistrati si sono fermati. Inoltre dobbiamo ricordare che Primo Greganti non ha mai parlato, altrimenti la storia sarebbe stata diversa».
Quello che sta scoppiando da Firenze a Napoli, passando per l'Abruzzo e altre parti d'Italia è una nuova tangentopoli che questa volta colpisce in primo luogo la sinistra? «No. Se per tangentopoli intendiamo la magistratura che si fa supplente del potere politico, direi proprio di no. La magistratura non ha più quell'immagine di potere salvifico, che salvava il paese dal degrado della politica. Oggi c'è il degrado delle istituzioni, a cui anche la magistratura ha contribuito. Ci saranno indagini, magari condanne, ma non siamo di fronte ad una nuova tangentopoli».
In questa situazione, paradossalmente siamo nelle condizioni migliori per fare una riforma profonda della magistratura, magari anche con il contributo dell'opposizione? «La magistratura è debole, quindi la riforma sta per essere fatta. L'importante è che non diventi un'azione punitiva. Violante oggi ammette che avevano dato l'idea di agire per vendetta. la politica non deve compiere lo stesso errore».
Riforma della giustizia solo dopo il federalismo fiscale? «Per noi sicuramente il federalismo fiscale è più importante: è troppo tempo che aspettiamo. Essendo noi in un regime di bicameralismo perfetto, forse è possibile fare contemporaneamente le due riforme. Però lo scetticismo di Bossi non è casuale: evidentemente teme ulteriori lungaggini. Sicuramente noi non possiamo rinunciare al federalismo fiscale, ne lasciar spazio alla riforma della giustizia a scapito del federalismo fiscale. Per la Lega sarebbe inaccettabile».

La giustiza il prezzo per il federalismo?

Da "Il Foglio" di oggi riporto questo articolo titolato: "Così Tremonti e Bossi aprono al dialogo con il Pd sul federalismo".

Il sito internazionale Asia Times ha pubblicato un articolo del politologo Spengler, intervistato dal Foglio l'1 novembre 2008, in cui è citato in termini entusiastici il ministro italiano dell'Economia Giulio Tremonti, il quale - scrive Spengler - ha riconosciuto in un testo del 1985 scritto dall'allora cardinale Joseph Ratzinger la primigenia previsione dell'attuale crisi economica: l'idea che "un'economia deregolata rischi di crollare su se stessa per la mancanza di regole". L'attestazione di stima arriva nel giorno in cui il ministro Tremonti assieme al ministro delle Riforme, Umberto Bossi, ha aperto alla proposta federalista dei Partito democratico. La Lega da sempre sa che per far avanzare il federalismo è necessario un dialogo con il Pd, tanto che il ministro Roberto Calderoli e il ministro ombra, Sergio Chiamparino, sono stati prodighi in passato di reciproche aperture al negoziato. Ora il testo del Pd è mutuato dalle tesi condivise il mese passato dal presidente della Camera, Gianfranco Fini, e dal leader democratico Massimo D'Alema nel corso di un seminario ad Asolo (provincia di Treviso). Lo spirito bipartisan - è il ragionamento che muove la Lega ma anche il ministro Tremonti da tempo è all'origine del lungo iter del federalismo italiano ed è indispensabile oggi, come richiamato anche dalla presidenza della Repubblica recentemente. Nella bozza del Pd: commissione bicamerale che affianchi il governo nella scrittura dei decreti attuativi per il federalismo, delega di un anno al governo per la scrittura e revisione delle autonomie locali. Il ministro Bossi, che aveva precedentemente bocciato l'idea di una Bicamerale, pensando che potesse soltanto allungare i tempi di approvazione, ieri ha detto: "Penso che entro metà gennaio la riforma del federalismo passerà al Senato. Dopo si tratterà di mettere in piedi una commissione. Se sarà bicamerale vedremo".
Il ministro Tremonti ha giudicato "interessante" l'idea, aggiungendo che "il governo ci sta lavorando". Soddisfatti i gruppi parlamentari del Pd. Anna Finocchiaro, capogruppo al Senato, ha detto: "È un fatto positivo, il testo di federalismo proposto dal governo era troppo vago. Ci vorrebbe una commissione bicamerale con poteri molto forti". Il clima bipartisan tra la Lega e il Pd non ha placato, anche ieri, le polemiche tra i democratici e alcuni esponenti del Pdl intorno alla "questione morale" che starebbe investendo il partito dì Walter Veltroni. Il segretario del Pd si è consultato con D'Alema, insieme hanno respinto le "inssinuazioni" del centrodestra. Così il federalismo secondo alcuni osservatori - si sta sempre più legando (e contrapponendo) alla riforma della giustizia. Il ministro Bossi ha ripetuto che "prima dev'essere approvata la riforma federale e solo dopo si potrà intervenire con una riforma costituzionale della giustizia". Mentre il Guardasigilli, Angelino Alfano, anche ieri ha ribadito "la necessità" di intervenire in tempi rapidi sulla giustizia, "senza tuttavia saltare il dialogo con l'opposizione". Forte l'invito del presidente della Camera Fini a favore di una riforma "condivisa" che contempli una riflessione "sull'assetto della magistratura".
Varie le reazioni dell'opposizione: nettamente contraria l'`Idv, il partito di Antonio Di Pietro. L'Udc è favorevole a sedersi "immediatamente a un tavolo di dialogo", ha detto il leader Pier Ferdinando Casini. Il Pd ha posto invece delle condizioni, negando l'ipotesi che l'intervento legislativo possa essere di carattere costituzionale. Il capogruppo Finocchiaro ha detto: "La nostra disponibilità a discutere della riforma della giustizia è una disponibilità condizionata, Innanzitutto non venga toccata la Costituzione. Poi è neccessario che si riformino le procedure per assicurare celerità e affidabilità dei processi". Non è una porta chiusa, ma almeno nella giornata di ieri il dialogo è parso più vicino sul federalismo.

domenica 7 dicembre 2008

Israele e il nodo di Hebron

Hebron in Cisgiordania è un punto caldo delle vicende interne di Israele. Sotto accusa i coloni israeliani per azioni contro inermi palestinesi dopo lo sgombero di un edificio effettuato dalla polizia. Haretz oggi ci racconta della dua presa di posizione del premier Ehud Olmert. Scrive il quotidiano che Olmert ha inveito contro i coloni, che a Hebron hanno attaccato i palestinesi e le loro proprietà negli ultimi giorni, unendosi così ad altri personaggi israeliani nel marchiare gli attacchi come un “pogrom”.
I coloni nella città cisgiordana sono andati su tutte le furie dopo che le Forze di Difesa di Israele hanno sgomberato decine di loro da un edificio la cui proprietà è contestata. L’operazione è venuta dopo che l’Alta Corte di Israele ha ordinato che i coloni lasciassero l'edificio, denominato "Casa della discordia".
“Siamo i figli di un popolo il cui ethos storico è costruito sulla memoria del pogrom”, ha detto Olmert durante la riunione settimanale di gabinetto a Gerusalemme. “La vista di ebrei che sparano a palestinesi innocenti non ha altro nome che pogrom”.
“Mi vergogno che gli ebrei possano fare una cosa simile”, Olmert ha aggiunto. “Ho chiesto al ministro della Difesa e a altri rilevanti esponenti di fare tutto ciò che ci vuole, con tutta la forza necessaria, e in ogni luogo controllato dallo Stato di Israele, al fine di fermare questo fenomeno.”
Uno spezzone video fornito dal gruppo israeliano per i diritti umani B'Tselem mostra un colono a sparare a palestinesi che lanciavano sassi da distanza ravvicinata, colpendo due di essi. Un secondo colono è immortalato mentre apre il fuoco.
"Mi sono rivolto ai funzionari cui compete la cosa, perché sia garantito che le autorità incaricate dell'applicazione della legge prendano provvedimenti energici e severi per consegnare i responsabili alla giustizia", ha detto Olmert.
Anche il ministro della Giustizia Daniel Friedmann definisce gli attacchi come un pogrom, in una intervista televisiva andata in onda nel fine settimana.
Palestinesi hanno riferito che 17 palestinesi sono stati feriti negli scontri, cinque di loro da arma da fuoco. I due coloni ripresi nel filmato si sono consegnati alle forze di polizia.

I timori iraniani di un attacco israeliano sono fondati?

Traduco qui un articolo apparso lo scorso 30 novembre sul quotidiano Haaretz, firmato dal corrispondente Yossi Melman, intitolato “Come Israele è riuscito ad ostacolare i piani nucleari dell’Iran”. Lo ripropongo perché ci racconta di alcune particolarità della lotta di intelligence in atto tra Israele, i paesi occidentali e l’Iran.
Il capo del Mossad Meir Dagan – scrive il giornalista di Haaretz - ha promesso di bloccare il programma nucleare dell’Iran, poco dopo essersi insediato nella sua carica più di sei anni fa. Ha promesso di farlo in una lettera inviata al dipartimento e ai capi unità del Mossad, e ai capi della Intelligence militare e ai servizi di sicurezza del Shin Bet.
Alti funzionari veterani del Mossad hanno cercato di impedirgli di farlo. Parla di ingerenza, di rinvio, d'interruzione, hanno detto - non promettere. Gli stessi alti funzionari hanno da prima attribuito l'ambizione e le pretese di Dagan alla sua inesperienza, ma poi hanno realizzato che la promessa è stata un prodotto di troppa sicurezza di sé.
Da quando Dagan è stato aggregato al Mossad, si è mosso come un toro in un negozio di porcellane. Egli ha chiuso dipartimenti, effettuato cambiamenti strutturali, si è alienato i veterani, ha insultato alti funzionari e fatto promesse che non mantiene - compresa la sua promessa di bloccare il programma nucleare dell’Iran, che continua progredire ad un ritmo costante. Le 3.800 centrifughe del complesso di arricchimento dell’uranio di Natanz stanno arricchendo uranio a basso livello. Altre 3.000 centrifughe sono sul punto di essere collaudate. L'Iran continua a costruire un reattore nucleare ad Arak progettato per produrre plutonio, e presto varcherà la soglia tecnologica che gli consentirà di assemblare una bomba.
Ma Dagan ha conseguito un certo numero di risultati. Ha insistito risolutamente sul fatto che l'Iran fosse un obiettivo prioritario di raccolta di informazioni e fosse posizionato al più alto ordine di priorità di intelligence “essenziale”.
Il fatto è che questo processo ha avuto inizio durante il periodo di Shabtai Shavit e acquisito slancio sotto Ephraim Halévy, ma Dagan è stato colui che ha focalizzato i riflettori dell’intelligence sulle ambizioni nucleari degli ayatollah, assegnando risorse sostanziali e riorganizzando i servizi, le unità e le filiali per farlo. Sotto Dagan, la cooperazione d’intelligence con altre nazioni è aumentato. Si potrebbe dire con cautela che una percentuale sostanziale del bilancio operativo dell’intelligence israeliana è dedicato a questo tema.
Le modifiche e accentuazioni di Dagan hanno iniziato a mostrare risultati. Diversi governi stranieri (Spagna, Belgio, Austria, Tanzania, Azerbaigian e altri) hanno impedito all'Iran di ricevere importanti attrezzature tecnologiche per il suo programma nucleare. I più audaci esempi di cooperazione internazionale includono la creazione di società fantoccio che hanno venduto apparecchiature difettose all’Iran, in modo da "avvelenare" il suo programma nucleare. Ci è stato offerto un assaggio di questo metodo quando è stato rivelato che alcuni uomini d'affari svizzeri che hanno svolto un ruolo di primo piano nella rete di contrabbando guidata dal dottor Abdul Khader Khan, il pakistano che ha venduto all'Iran i progetti delle centrifughe, erano effettivamente agenti della CIA.
Un altro vantaggio che le società fantoccio detengono è che possono anche vendere all'Iran dispositivi validi destinati a creare fiducia, e quindi fornire attrezzature munite di dispositivi di ascolto o cavalli di Troia. Questo è il motivo per cui Ali Ashtari, che ha fornito le apparecchiature per la Guardia rivoluzionaria iraniana (che è responsabile del programma nucleare), è stato impiccato la settimana scorsa. Un tribunale rivoluzionario di Teheran ha stabilito che era un agente Mossad.
Naturalmente, una maggiore attività di intelligence comporta rischi sottostanti che possono esporre agenti, collaboratori, dirigenti e ufficiali di collegamento. Le guardie rivoluzionarie dell’Iran, il Ministero dell’intelligence ed il procuratore generale hanno “smascherato” parecchie spie del Mossad nelle ultime settimane.
Oltre a Ashtari, altri tre agenti sono stati presumibilmente smascherati, "riservisti" della Basij, la milizia popolare subordinata alle Guardie rivoluzionarie. I mezzi di comunicazione iraniani hanno riferito che erano stati reclutati dal Mossad e avevano imparato a usare le armi, esplosivi e sofisticate apparecchiature di comunicazione a Herzliya e Cesarea. Prima di ciò, era stato riferito che un noto blogger iraniano-canadese che ha visitato Israele è stato pure arrestato per il sospetto di spionaggio per Israele.
L'Iran è in un periodo delicato. Si terranno elezioni presidenziali nel maggio 2009, e la posizione del Presidente Mahmoud Ahmadinejad, che non è particolarmente popolare tra gli iraniani, non è chiara. La caduta dei prezzi del petrolio stanno aggravando la crisi economica in Iran, e la campagna elettorale sta facendo crescere rivalità personali e organizzative.
Le leadership militari, politiche e religiose in Iran hanno paura che Israele attaccherà i suoi siti nucleari nel periodo di penombra prima che l'amministrazione Bush lasci l’incarico e che Barack Obama sia investito in gennaio. Molti di loro ritengono che Bush e Israele hanno già raggiunto un accordo su un tale attacco, anche se questo è improbabile. Obama ha chiarito che egli preferisce il dialogo con Teheran, prima di dirigersi sul percorso militare, e Israele non agirà contrariamente ai desideri dell’America, non certo su un tema talmente teso e delicato.
Tutto questo sta creando una psicosi in Iran. Si può tuttavia presumere che non c'è fumo senza fuoco, ed è certamente possibile che gli uomini catturati siano davvero agenti del Mossad. In ogni caso, ciò che sappiamo è solo la punta dell’iceberg degli sforzi israeliani e occidentali per bloccare il programma nucleare dell'Iran, così come degli sforzi dell'Iran per smascherare e neutralizzare loro.

sabato 6 dicembre 2008

IP unico o Immane Pirlata?

Roberto Maroni, stando alle agenzie, ha dichiarato che per la rete è ormai inevitabile “il controllo sui dati di tracciamento delle comunicazioni telematiche. Stiamo lavorando con i gestori per la realizzazione del numero IP unico per ogni utente della rete, in modo da evitare il rischio di cancellazione e di impossibilità di utilizzo per diversi mesi”. È sicuramente una frase buttata lì, ma non vi è dubbio che ci si può anche ragionare sopra, sebbene alla fin fine sembri la solita volontà di fare un buco nel mare. Le difficoltà di associare un IP ad un individuo che subito vengono alla mente sono tali che dovrebbero consigliare di non perderci su del tempo e di dedicarsi piuttosto a cose più importanti e vitali per l’umanità.
Scrive “Punto Informatico”: «L'idea di una sorta di IP univoco, dunque, sarebbe da legarsi alla data retention e alla necessità di agevolare le operazioni di indagine e tracciamento che vengono veicolate sulla massa di dati trattenute di default sulle comunicazioni degli italiani, vale a dire data e ora di connessione e qualsiasi altro elemento utile a ricostruire i movimenti online degli utenti, con l'unica eccezione dei contenuti dei messaggi e dei siti visitati. Rimane da vedere, però, in quale modo potrebbe essere realizzato un progetto di questo tipo “a prova di terroristi e criminali”, e in che modo l'IP di un utente, divenuto univoco, non sia attaccabile dall'esterno per la perpetrazione di abusi. Si vedrà, intanto ciò che allarma è il potenziale di controllo sociale che una connessione blindata porterebbe con sé».
Forse il miglior commento sta nel titolo di un post di commento di tale “Dan” che dice, immagino in forma interrogativa, «Hanno trovato l’ip di bin Laden» ed il commento è laconico: “Ma ai veri «criminali e terroristi» sapete quanto gliene frega dell'ip?”.
Con un altro commento “puntoacapo87” propone la soluzione finale, the final solution: «La vera soluzione contro il terrorismo è svecchiare il parlamento, si parla tanto di baroni all'università ma il vero problema sta nei politici. Forse è vero che ogni paese ha i politici che si merita, e che questi rappresentano la maggioranza dei cittadini in quanto eletti, ma io, da quando ho la maggiore età e quindi il diritto di voto non ho mai trovato qualcuno serio che mi rappresenti appieno, o almeno che non si contraddica da un giorno ad un altro (…)». E a “Federico T” che gli ha risposto dichiarandosi fan della proposta, “puntoacapo87” mette il dito nella piaga: «Vorrei proprio sapere quali sono i vantaggi derivanti dall’IP unico in termini di sicurezza... Non è che ci stanno regalando a tutti la possibilità di avere un server ma ci stanno togliendo la privacy. Si sapranno orari di connessione, e siti visitati, quindi gusti e preferenze, e tutto questo per chi non l'avesse ancora capito serve solo a fare pubblicità mirata!!! Saremo schedati in base all'età, al sesso, alla provenienza geografica e tutto questo grazie a un piccolo codice, l'IP appunto. C'è molta ignoranza dal punto di vista informatico in Italia, e molti non sanno neppure cosa sia un firewall. Ora (esempio stupido) se io volessi spiare il computer di una persona (con conoscenze minime di informatica) per sapere se è in linea non lo posso fare (dovrei indovinarne l'indirizzo), ma se questa persona avesse un IP univoco, basta che mi segni quella serie di numeretti e col programma giusto non si fa poi così fatica a sapere se è online oppure no e da qui tutto quello che vuoi... Chi ne sa qualcosina saprà agire di conseguenza per tutelarsi, ma io mi preoccupo per gli altri... che son tanti, troppi! Il mio intervento c'entra, nel senso che proporre qualsiasi cosa senza la minima conoscenza dell'argomento è grave! E questi interventi "all'italiana" dei nostri politici, fanno sentire che nel bel paese c'è bisogno di una riforma, seria, sotto molti punti di vista. (…)». E chiude con una citazione che val la pena di segnarsi: «L'ignoranza (sotto tutte le forme) rappresenta, ahinoi, una risorsa utile per il sistema: se non ci fossero tanti ignoranti in giro non sarebbe così facile trovare un furbone che li seduce. Ecco perché un ignorante è molto più pericoloso di un mascalzone». Lascio a voi di indicarne l’autore.

venerdì 5 dicembre 2008

Inquietante: Mumbai diventa Italia!

Vi segnalo una cosa strana, della serie non dite poi che non ve l’avevo detto. Ho preso l’abitudine quando traduco qualcosa di fare una passata del testo da tradurre con lo strumento per le lingue di Google, un tool non proprio perfetto per una traduzione fatta bene, tuttavia utile per capire il senso globale di un testo anche se zeppo di strafalcioni. Del resto credo che l’italiano sia una lingua difficilissima e con un lessico ricchissimo, difficilmente pienamente comprensibile per una macchina che non tenga conto del contesto nelle scelta tra le mille varianti di significato di una parola. Oltretutto anche l’inglese non è da meno soprattutto se l’autore si abbandona ad un uso esteso di nomi come aggettivi, così come è prassi nel linguaggio tecnico. Come al solito ho passato al traduttore online il testo dell’articolo del quotidiano Haaretz che volevo tradurre, e lo strumento di Google mi offre in due punti un risultato sorprendente?, stupefacente?, funambolico?, paranormale?, insomma trovate voi l’aggettivo.
Il primo passo, questo: «Byman suggests examining the terrorist achievement in proportion. "In Mumbai, very 'soft' targets were attacked, not anything like airplanes or the Pentagon. Israel is the only place in the world that protects targets like hotels. In the U.S., too, most hotels are not protected."», che tradotto è : Byman suggerisce di esaminare il risultato del terrorismo in proporzione. “A Mumbai, sono stati attaccati obiettivi molto agevoli, non qualcosa come aeroplani o il Pentagono. Israele è il solo luogo nel mondo che protegge obiettivi come gli alberghi. Negli Stati Uniti, pure, la maggior parte degli alberghi non sono protetti”. Bene vediamo come il tool di Google ha tradotto, perdonategli il linguaggio del povero”abbronzato”: «Byman suggerisce di esaminare la realizzazione del terrorismo in proporzione. "In Italia, molto 'soft' gli obiettivi sono stati attaccati, non come qualcosa di aeroplani o il Pentagono. Israele è l'unico posto al mondo che protegge obiettivi come alberghi. Negli Stati Uniti, troppo, la maggior parte alberghi non sono protetti"». La cosa incredibile l’ho evidenziata in grassetto: “Mumbai” mi viene tradotto con “Italia”! Incredibile! E la cosa si ripete in un secondo passo, della serie repetita iuvant, evidentemente.
Il secondo passo è questo: «Yoram Schweitzer of the Institute for National Security Studies, in Tel Aviv, discerns something new in the murderous efficiency demonstrated by the terrorists in Mumbai. "They were operating in a dense urban area, in a manner reminiscent of what we used to see in the rural areas of Afghanistan. In Mumbai there were no armed security personnel able to counter them quickly. The large number of casualties, the hostages, the long time it took until the terrorists were finally killed - all increased the attack's effectiveness."» Tradotto significa: Yoram Schweitzer dell’Istituto per gli studi sulla sicurezza nazionale, di Tel Aviv, scorge qualcosa di nuovo nell’efficienza assassina dimostrata dai terroristi a Mumbai. “Essi hanno operato in una densa area urbana, in una maniera che ricorda quella che eravamo abituati a vedere nelle aree rurali dell’Afghanistan. A Mumbay non c’era personale della sicurezza armato capace di contrastarli rapidamente. Il grande numero di feriti, gli ostaggi, il lungo tempo voluto fino alla conclusione finale dell’uccisione dei terroristi – tutto ha aumentato l’efficacia dell’attacco”. Bene in questo caso il tool di Google traduce: «Yoram Schweitzer l'Istituto per gli studi sulla sicurezza nazionale, a Tel Aviv, scorge qualcosa di nuovo nel micidiale efficienza dimostrata dai terroristi a Mumbai. "Essi sono stati operativi in un denso area urbana, in un modo che ricorda di quello che abbiamo utilizzato per visualizzare nelle aree rurali dell'Afghanistan. In Italia non vi erano armati di sicurezza personale in grado di contrastare rapidamente. Il gran numero di vittime, gli ostaggi, lungo tempo ci sono voluti fino alla terroristi sono stati infine uccisi - tutti i aumentato l'attacco di efficacia ".». Ancora una volta “Mumbai” tradotto “Italia”.
Per vedere se il fenomeno fosse trattabile in modo scientifico, ho riprovato con i soli due periodi incriminati e ho ritrovato lo stesso risultato come è testimoniato dalle due schermate riprodotte sotto.
La cosa è alquanto strana e direi inquietante. Se qualcuno è in grado di dare una spiegazione della cosa lasci un commento.



Il peggio deve ancora venire

Il testo che segue è una affrettata traduzione di un articolo di Amos Harel su Haaretz di oggi, un commento del dopo Mumbai riferito ad Israele, ma che può interessare tutti.

Jeffrey Goldberg, un noto reporter della rivista "L'Atlantico", ha avuto una brillante idea. Circa due mesi prima delle elezioni presidenziali degli Stati Uniti, Goldberg ha pubblicato un articolo sul New York Times in cui ha sostenuto che l'unico criterio per decidere tra Barack Obama e John McCain avrebbe dovuto essere la loro capacità di trattare le prossime minacce terroristiche contro l'America. La maggior parte degli esperti di terrorismo che hanno parlato con lui - Goldberg ha scritto - crede che vi sia una probabilità del 50 per cento che nel prossimo decennio, Al-Qaeda e i suoi seguaci tentino di effettuare un attacco nucleare su un centro urbano negli Stati Uniti. Il prossimo presidente, secondo Goldberg, deve essere in grado di fare solo una cosa: evitare che Manhattan bassa o il centro di Washington possano essere distrutti in un tale attacco.
Nella stessa settimana in cui l'articolo di Goldberg è stato pubblicato, la caduta libera a Wall Street è stata accelerata e i mass media hanno cominciato a descrivere la crisi economica mondiale come la peggiore dal 1929. La campagna presidenziale, che era fino ad allora ruotata intorno alla questione del "Chi risponderà al telefono alle 3 AM?", si è spostata sulla questione del "Cosa diavolo è successo al mio fondo pensione?". I media, poi, che per loro stessa natura non sono inclini a concentrarsi su un unico tema per lungo tempo (dopo tutto, vi è solo un titolo veramente importante in ogni giornale), hanno dimenticato le minacce del terrorismo internazionale per un attimo. Gli eventi degli ultimi 10 giorni - non solo gli attacchi terroristici di Mumbai, ma anche la relazione del Congresso “Il mondo a rischio", in cui si prevede l’elevato rischio di un attacco del terrorismo con le armi di distruzione di massa da qualche parte del mondo entro il 2013 - sono servite come un promemoria di quello che avrebbe dovuto essere chiaro fin dall'inizio: L'amministrazione americana, e i leader di altri paesi alle prese col terrorismo (per lo più radicale islamico) in patria e all'estero, non possono godere del privilegio di incantare elettori e media, di concentrarsi su una crisi alla volta. Essi hanno sempre avere a che fare con diversi focoliai d’incendio alla volta. Il Presidente Obama deve fare i conti con le guerre in Iraq e in Afghanistan, le minacce in Pakistan e in Iran, e, contemporaneamente, trovare un modo per salvare l'economia americana, anche.
La misura degli effetti del terrorismo sul mondo è un po’ meno drammatica di quello che appare talvolta in televisione. Certo, l'assalto a Mumbai, è stato un grande successo per i suoi ideatori - gli attacchi hanno mostrato il fallimento di un’intelligence indiana debole e dal ventre molle, e la fragile sicurezza. Ma, dice il Dr Daniel L. Byman, un esperto di antiterrorismo di Washington del Brookings Institution, in scontri come questo, i terroristi fanno danni solo all’inizio dell’attacco. Da quel punto in poi, molto dipende dalla risposta della nazione che è stata attaccata.
Un documento preparato per la conferenza sul terrorismo dell’Adelson Institute for Strategic Studies, che si terrà a Tel Aviv la prossima settimana, descrive un aumento della natura letale del terrorismo negli ultimi anni, principalmente a causa dell'aumento dei casi di attentati suicidi, perpetrati da terroristi islamici. Tuttavia, il documento afferma anche che le campagne di terrore e di sovversione solo raramente hanno come risultato il rovesciamento di un governo; la maggior parte di queste organizzazioni sono ancora principalmente considerate un disturbo da parte dei paesi che esse attaccano. Allo stesso tempo, la brutale repressione, l'assassinio dei cervelli del terrorismo, il raggiungere accordi politici con loro - tutti questi metodi forniscono, nella migliore delle ipotesi, solo soluzioni temporanee. Essi non sono tali da garantire una tranquillità a lungo termine tranquilla.
Per quanto orribili siano stati gli attacchi di Mumbai, nulla di quanto è accaduto dopo l'11 settembre 2001 può rivaleggiare per la portata e le implicazioni con tale attacco, formativo del terrore globale della nostra epoca. Rispetto ad esso, tutti gli altri attacchi sono solo punti sul grafico, alti e bassi dopo il grande picco. Contrariamente alla percezione popolare, il terrorismo non travolge l’Occidente. Terroristi islamici non hanno colpito gli Stati Uniti per sette anni e tre mesi. I loro sanguinosi successi in Europa (Madrid, Londra), tuttavia impallidiscono rispetto ai tentativi che sono stati sventati. Maggior parte degli attacchi avviene sulla linea di giunzione, in luoghi in cui il mondo in via di sviluppo incontra l'Occidente, dal night club di Bali al grand hotel di Mumbai. La direzione in cui si diffonde il terrore non è uniforme, ma ricorda un pendolo. Dall’Undici Settembre abbiamo assistito a una temporanea sconfitta di Al-Qaeda e dei Talibani (alla fine del 2001), un grande risveglio del terrorismo in Iraq dopo la sua occupazione da parte degli Stati Uniti e la caduta di Saddam Hussein (dal 2003), il sorprendente successo dell'impegno americano in Iraq nel corso degli ultimi due anni, insieme a una preoccupante recrudescenza di Al-Qaida nelle zone tribali al confine tra Pakistan e Afghanistan. Il terrorismo islamico si basa ancora pesantemente sui grandi organici di volontari, campi di addestramento e la mancanza di strutture statuali, in virtù della quale essa può prosperare.
Quindi, quanto vi è di nuovo negli ultimi avvenimenti? Byman dice che gli attentati in India sono la realizzazione di un "incubo americano", in particolare a causa del ruolo svolto in Pakistan, un ruolo che è stato rivelato "proprio nel momento in cui abbiamo cercato di tirarli fuori da questo circolo. Il Pakistan e altri paesi sono quelli che consentono alle reti terroristiche di prosperare - in termini di logistica, formazione, denaro - e hanno un molto limitato controllo su di esse. In Pakistan è stato costruito il piano che poi ha prodotto l'attacco a Mumbai. Le precedenti amministrazioni americane hanno investito una grande quantità di attenzione sul conflitto arabo-israeliano e molto meno sulle relazioni India-Pakistan. Questo potrebbe cambiare”.
Byman suggerisce di esaminare la realizzazione del terrore in proporzione. "A Mumbai sono stati attaccati obiettivi agevoli, non qualcosa come aeroplani o il Pentagono. Israele è l'unico posto al mondo che protegge obiettivi come alberghi. Negli Stati Uniti, anche, la maggior parte alberghi non sono protetti".
Yoram Schweitzer dell'Istituto per gli studi sulla sicurezza nazionale, a Tel Aviv, scorge qualcosa di nuovo nella micidiale efficienza dimostrata dai terroristi a Mumbai. "Essi sono stati operativi in una densa area urbana, in un modo che ricorda di quello che eravamo abituati a vedere nelle aree rurali dell'Afghanistan. A Mumbai non vi era personale di sicurezza armato in grado di contrastarli rapidamente. Il gran numero di vittime, gli ostaggi, il lungo tempo che c’è voluto per avere ragione dei terroristi che alla fine sono stati uccisi - tutto ha aumentato l’efficacia dell’attacco". La lezione di Mumbai suggerisce la necessità di un maggiore coordinamento in fatto di controterrorismo, l'aumento della condivisione di intelligence e la cooperazione tra i paesi di fronte a questo tipo di minaccia. Vi è una maggiore comprensione ora che il terrorismo permea le frontiere e prospera, grazie al coordinamento delle varie organizzazioni. A medio termine, ci possono essere ulteriori tentativi di imitare l'attacco simultaneo su più obiettivi. Israele dovrà estendere la sua coperta di sicurezza ancor più, almeno in parte, per assicurarsi che copra obiettivi ebraici anche all'estero.
Israele non si aspetta a breve ondate di kamikaze pakistani che invadano le sue sponde in qualsiasi momento (anche se un paio di pakistani cittadini britannici hanno effettuato un attentato al Mike's Place a Tel Aviv circa cinque anni fa). D'altro canto, Al-Qaeda e dei suoi seguaci pianificano attacchi contro Israele dal 2001 almeno. E, naturalmente, c'è il terrorismo più vicino a casa: Hamas, Hezbollah e Jihad islamica. Queste minacce non vanno a scomparire, a seconda di ciò che sarà la prossima amministrazione a Washington o a Gerusalemme.

Il coming out di Di Pietro

Riprendo dalle rassegne stampa di ieri questo articolo di Gian Marco Chiocci e Massimo Malpica, inviati de "Il Giornale" a Napoli: Il caso Campania. L'autogol Di Pietro sull'inchiesta. L'ex ministro cerca di smentire i legami con l'ex provveditore nel mirino dei pm ma, finisce per rivelare di essere a conoscenza del procedimento già dal 2007".
Qualcuno già sapeva. La maxi-inchiesta sui presunti appalti pilotati al comune di Napoli già nell'estate del 2007 era nota al di fuori della procura partenopea. E non stiamo parlando di «talpe» della Dia o di servitori dello Stato infedeli che spifferano tutto ai politici e agli imprenditori interessati dalle indagini. Stiamo parlando di un ex ministro, all'epoca in carica, che ieri ha fatto coming out. Antonio Di Pietro.
Nell'annunciare querela al Giornale sostenendo di essere stato accusato di fatti specifici che questo quotidiano non ha mai riportato, il leader dell'Idv spiega che nel 2007 avrebbe trasferito ad altro incarico il provveditore alle opere pubbliche di Campania e Molise, Mario Mautone, indicato ieri dal Giornale e dal Mattino come presente nell'informativa della Dia che ha dato il via all'inchiesta sulla presunta appaltopoli partenopea.
E Di Pietro sostiene di averlo fatto di proposito, «nel momento in cui - scrive l'ex pm - ho appreso le prime avvisaglie di indagini». Dunque quando Mautone, a metà del 2007, lascia la sua poltrona al provveditorato per trasferirsi a Roma alla direzione generale del settore edilizia pubblica e interventi speciali del ministero delle Infrastrutture allora guidato da Di Pietro, quest'ultimo già «ha avvisaglie» di un'inchiesta in corso, come ieri rivela nella nota diramata alle agenzie di stampa. Il dettaglio, in un'inchiesta dove le polemiche infuriano a proposito di fughe di notizie e segreti istruttori di Pulcinella, non sembra di poco conto.
Di Pietro sostiene che Mautone non è il suo uomo di fiducia: «Non lo è mai stato né è stato da me incaricato di svolgere le funzioni di provveditore delle opere pubbliche in Campania e nel Molise.
Funzioni che, al contrario, gli furono assegnate dal mio predecessore». Un punto che non era in discussione, poiché il Giornale fa risalire al «merito» di Di Pietro non l'incarico di provveditore alle opere pubbliche campane assegnato a Mautone, bensì la sua chiamata al ministero, dove peraltro Tonino lo aveva già da maggio nominato - tra polemiche e interrogazioni parlamentari - in una commissione per gli appalti autostradali.
E poi sfugge la logica del ragionamento dell'ex ministro: se aveva «appreso le avvisaglie» di un'inchiesta tanto dirompente, perché decise di promuovere Mautone a direttore, tanto più se non era un uomo di sua fiducia? E da chi aveva avuto queste «avvisaglie» Di Pietro, visto che l'inchiesta era blindata nei ristretti confini della procura di Napoli, e ancora scevra da quelle fughe di notizie che avrebbero spinto l'assessore Giorgio Nugnes al suicidio e costretto un ufficiale della Dia a rimettere l'incarico? Certo non poteva avergliene parlato lo stesso Mautone, che ieri al quotidiano napoletano ha dichiarato di essere all'oscuro di tutto e di avere appreso dell'indagine solo ora, dai giornali: «Non sono e non mi sento sotto inchiesta. Ho letto del procedimento sugli appalti del comune e sono disponibile a qualsiasi chiarimento con i magistrati», il commento dell'ex provveditore.
Insomma appare curiosa la replica dell'ex ministro, a cui questo quotidiano non ha mai «imputato» nulla dell'indagine in corso, limitandosi a dare notizia della presenza in questa inchiesta di un funzionario da lui successivamente chiamato a una direzione del suo ex dicastero, e già in passato accostato al leader dell'Idv.
Di Mautone e del figlio dell'ex pm, per esempio, nei mesi scorsi hanno parlato il settimanale La Voce della Campania e l'agenzia Il Velino, accennando a una presunta indagine che coinvolgerebbe proprio Cristiano Di Pietro (che ieri al Giornale ha negato annunciando querele) e l'ex provveditore, al quale ultimo il primogenito dell'ex pm - secondo le notizie riportate dalle due testate fino a ieri mai smentite - avrebbe caldeggiato alcuni consulenti. Ma. questa è un'altra storia. La domanda di fondo resta la solita: come faceva Tonino a sapere?

Firmata la convenzione per l'abolizione delle bombe a grappolo

Alla Conferenza di Oslo, che si è svolta dal 2 al 4 dicembre, è stata firmata da oltre 100 Paesi una convenzione per l’abolizione delle bombe a grappolo, il primo accordo di disarmo multilaterale dalla firma della Convenzione di Ottawa sulle mine antipersona.
L’Italia è stata tra i primi ad impegnarsi per la proibizione della produzione e dell’impiego delle munizioni a grappolo entrando a far parte, sin dall’inizio, del gruppo di 46 Paesi che nel febbraio del 2007, aderendo alla Dichiarazione di Oslo, ha lanciato il processo che ha portato nel maggio di quest’anno all’approvazione del testo della Convenzione.
Tale processo consiste nella riduzione, nel controllo o nella eliminazione degli armamenti per motivi umanitari, con l’obiettivo di attenuare le sofferenze delle popolazioni civili (con un particolare riguardo per le donne e i bambini) e dei militari.
La posizione italiana rientra nel quadro delineato dall’art.11 della Costituzione: da un lato il rifiuto della guerra, dall’altro l’impegno nel prevenire e regolare i conflitti.
(Fonte: Ministero degli Esteri).
Per diversi decenni l’uso di bombe a grappolo ha portato sofferenze all’umanità e allo sviluppo inaccettabili, sia durante la guerra che per tanto tempo dopo la sua cessazione. La società internazionale vuole dire basta a tutto questo e all’inizio di quest’anno trattative storiche per proibire l’utilizzo di bombe a grappolo hanno coinvolto più di 100 paesi.
La convenzione proibisce l’utilizzo, la produzione, il trasferimento e lo stoccaggio di bombe a grappolo. La convenzione inoltre impegna chi la sottoscrive ad aiutare le vittime e le società colpite, a rimuovere le bombe inesplose e a distruggere gli arsenali.
“La Convenzione è una pietra miliare nel lavoro internazionale umanitario per il disarmo e contribuirà a prevenire sofferenze future all’umanità”, ha affermato il Ministro degli Esteri norvegese Jonas Gahr Støre.
La Norvegia ha voluto essere la prima a firmare la Convenzione che proibisce l’utilizzo, la produzione e la vendita di bombe a grappolo. Tutti gli Stati che hanno partecipato hanno contribuito con discorsi e dichiarazioni sull’implementazione della Convenzione, sui piani futuri per la distruzione degli arsenali, l’aiuto alle vittime e la cooperazione internazionale per rendere il mondo libero dalle bombe a grappolo.
(Fonte: Ambasciata norvegese in Italia)

Quell'inguaribile sognatore di Veltroni, ma lo fa o lo è?

Ha fatto rumore l'intervista rilasciata ieri da Veltroni a Repubblica. Riporto di seguito l'articolo. L'intervista è stata concessa a Massimo Giannini ed il quotidiano la ha intitolata: "Basta veleni e attacchi anonimi chi vuole un nuovo leader esca fuori". Sottotitolo: "Veltroni: "In direzione ci contiamo e poi tutti a remare per il Pd".
«Io non amo parlare di questioni interne al Pd, ma di fronte a quello che sta accadendo avverto la necessità di dire: adesso basta. Basta con le confessioni anonime, basta con i retroscena, basta con i veleni. E inimmaginabile che nel cuore di una crisi economica gravissima e di una crisi di consenso del governo, il centrosinistra riformista ricada nel suo solito vizio autolesionista: quello di segare l'albero su cui sta seduto». Sono ore difficili, per Walter Veltroni. Nel suo ufficio del Nazareno, il segretario del Partito democratico ostenta serenità. Ma si capisce che non ne può più.
Diciamo la verità: non è un bel momento, per il Pd. «Questo stillicidio quotidiano non fa male a me, fa male al partito e fa bene alla destra. Berlusconi è impegnato in un attacco contro di noi che non ha precedenti. Di fronte a questa offensiva io non invoco solidarietà o spirito di squadra.
Capisco che sono termini "d'antan", che oggi in politica non vanno più di moda. Ma pretendo trasparenza e coerenza, questo si».
Che vuol dire? «Trasparenza vuol dire che se si è convinti che il problema del Pd sia la leadership, è giusto dirlo a viso aperto. Il 19 dicembre ci sarà la direzione del partito: quello è il luogo per sollevare il problema e per trovare serenamente le forme per risolverlo, se serve anche attraverso un congresso straordinario da fare subito. Io voglio bene al Pd, più di quanto ne voglia a me stesso. Sono pronto a mettermi in gioco, se questa si rivelerà la soluzione più condivisa. Ma se nessuno pensa che il nostro problema sia la leadership, allora chiedo a tutti il massimo della coerenza. Discutiamo pure. Ma avendo ben chiara una cosa: tutti remano nella stessa direzione per raggiungere i migliori risultati. Dopo le elezioni, nell'autunno del 2009, ci sarà il congresso e si tireranno le somme. Ma fino a quel momento, mai più conflitti sotterranei, mai più interviste polemiche, mai più giochi al massacro».
Lei sta dicendo che in direzione sarebbe pronto anche a farsi da parte, se non fosse possibile ricomporre le fratture interne? «Considero gli interessi generali più importanti di quelli personali. Ho sempre lavorato per il bene di questa "creatura", un partito riformista di massa, una forza del 34% che in Italia non è mai esistita se non nella breve parentesi del primo governo Prodi, tra '96 e '98. In meno di un anno i risultati sono stati straordinari. La Summer School è stata un successo. La nostra tv sta andando benissimo. Il Circo Massimo è stato un trionfo.
Abbiamo vinto le elezioni in Trentino e in Alto Adige. Abbiamo gioito per lavittoria di Obama, perché qui qualcuno aveva intuito che era uno straordinario seme di futuro. Siamo risaliti di 4 punti nei sondaggi mentre Berlusconi ha cominciato a cadere. Insomma, tutto stava andando per il meglio. Ho chiesto ai segretari regionali due giorni fa: cosa diavolo è successo in pochi giorni?».
Se vuole le faccio l'elenco: i pizzini di Latorre, il ritorno in pista di D'Alema, il pasticcio della Vigilanza Rai, gli attriti sul partito del Nord, il de profundis di Parisi, ora persino la nuova «questione morale» esplosa a Napoli. Non basta? «Sono cose molto diverse tra loro.
Alcune possono essere persino delle opportunità, come la disponibilità di alcuni dirigenti a contribuire al progetto Pd. Altre appartengono alla solita sindrome autodistruttiva del centrosinistra. Una sindrome che ha ucciso l'Unione, e che nel nostro popolo produce sconcerto e amarezza. Ma sia chiaro, il Pd non può fare e non farà la stessa fine. Il logoramento è un errore che non possiamo permetterci, nell'interesse non di una persona, ma dell'intero partito che si deve presentare al Paese con un'immagine determinata e coesa, con un progetto forte e innovativo. Questo sarà il messaggio con il quale mi presenterò alla direzione del 19».
Lei ha parlato di «Lingotto 2». Sembra passato un secolo, da quel battesimo di Torino. «Ma quella per me resta la piattaforma di modernizzazione sulla quale dobbiamo costruire. La profondità della crisi spinge ad una stagione di forte innovazione, serve un aggiornamento di molti paradigmi politici, un'accelerazione della nostra spinta riformatrice, pensi solo a come deve essere rinnovato il Welfare. Dobbiamo guardare al futuro, e profilarci come una grande forza di popolo. Alla direzione dirò esattamente questo: dobbiamo essere davanti alle fabbriche in crisi, in mezzo ai precariche perdono il lavoro, tra le piccole imprese soffocate dal credito».
Ma intanto c'è chi l'accusa di essere un «dittatore» e chi la critica di essere troppo debole. Come è possibile? «Questo è un vero paradosso. Ho letto un retroscena su un giornale, in cui un anonimo mi rimproverava di gestire il partito con metodi addirittura dittatoriali (mentre se ho un difetto è quello di essere troppo tollerante) e di aver tenuto in piedi un inciucio con la destra sulla Rai, mentre non vedo Letta da mesi, e non parlo con Berlusconi da dopo il voto. Bene, è proprio questo veleno quotidiano che deve finire».
Lei continua a parlare di un governo in crisi, e di un centrodestra in enorme difficoltà. Ne è realmente così convinto? «Basta vedere la giornata di martedì. Il premier la mattina dice "siamo disposti a rivedere la norma su Sky" e la sera chiede le dimissioni dei direttori del Corriere della Sera, della Stampa e di tutti i dirigenti della sinistra. E qualcosa che trasmette il senso di instabilità, di incertezza di chi in questi mesi ha detto tutto e il contrario di tutto, e che sulla crisi non ha fatto nulla, se non mettere le mani nelle tasche degli italiani. Oltre tutto senza avere l'onestà di Bush, che ha chiesto scusa al sua paese perla guerra in Iraq».
Diciamolo, onorevole Veltroni: la vicenda Villari è stata un mezzo disastro anche per il Pd.
«Abbiamo avuto un calo nei sondaggi, proprio nei giorni della vicenda Villari. Non voglio aggiungere altro, per amore di unità verso il partito. Altro che "atteggiamento dittatoriale"... E quello che mi sconcerta è che qualche giornale ha rappresentato Villari come una specie di campione della resistenza alla partitocrazia, un uomo che sta abbarbicato ad una poltrona contro il parere delle più alte autorità istituzionali e di tutte le forze politiche».
C'è un altro nervo scoperto, più doloroso. Genova, Firenze, ora Napoli: nel Pd c'è una «questione morale», come sostiene Gustavo Zagrebelski? «Nel centrosinistra ci sono migliaia e migliaia di amministratori perbene, che lavorano nell'interesse della comunità e contrastano ogni forma di malaffare e di malgoverno. Premesso questo, c'è una questione morale nella vita politica italiana, che deve essere affrontata come dice il presidente della Repubblica. Il Pd non è al riparo da tutto questo. La nostra sfida è far crescere una generazione di dirigenti che abbia un'etica dell'amministrare in sintonia con lo spirito del partito. C'è bisogno che il Pd apra porte e finestre, e selezioni al suo interno le forze migliori. Soprattutto nel Sud».
Secondo Zagrebelski, i «cacicchi» del Pd proliferano in periferia perché il centro del partito non c'è. «I cacicchi hanno cominciato a proliferare parecchio tempo fa. E poi insisto, questa idea del potere si fa strada quando vengono meno i grandi principi dell'impegno politico. Il Pd è nato anche per ricostruire quei principi. E se mi chiede se da questo punto di vista sono soddisfatto, la mia risposta è no, noi abbiamo ancora una grande lavoro da fare».
Perché avete ribadito il vostro no alle proposte di Chiamparino e Cacciari sul Pd del Nord? «Faremo il coordinamento del partito del Nord, ma non il "partito del Nord". Perché l'Italia ha un'altra storia, e perché abbiamo bisogno di un partito nazionale grande e forte. Per questo faremo anche il coordinamento del partito del Sud. Ma un partito moderno ha bisogno di tempo e di tranquillità. A noi sono negati l'uno e l'altra. Non conosco altro partito nel quale ci sia una tale bulimia nei confronti dei leader. Io sono qui da dodici mesi. Ho conosciuto leader come Lula. Chirac, Blair che hanno impiegato anni per affermare il loro progetto. Serve tempo, per costruire una politica di innovazione radicale. Dopodiché naturalmente si risponde di quello che fa. Ed io risponderò del lavoro che avrò fatto. Ma a coloro i quali mi hanno scelto, cioè il popolo delle primarie, come prevede lo statuto».
Un altro fronte aperto è la collocazione in Europa. Rutelli non morirà mai socialista, Fassino firma il manifesto del Pse. Insomma, è il solito caos. «C'è qualcuno che pensa che la soluzione migliore, come ho letto in qualche agenzia di un certo tipo, sia quella di tornare ciascuno al passato? Cioè tornare ai Ds, alla Margherita, magari Ds insieme a i comunisti e Nichi Vendola e la Margherita insieme a Casini? È questa la prospettiva? Per me lo sbocco resta un altro. Io capisco che chi viene da una tradizione politica culturale diversa non se la sente di diventare socialista. Però capisco anche chi dice, perché è la verità, che nel campo socialista esiste gran parte delle leadership e delle politiche che stando al governo o all'opposizione incarnano nei singoli paesi lo schieramento di centrosinistra».
Ma così siamo sempre al «ma anche». Come se ne esce? «Sono dell'idea che si debba creare un grande campo democratico progressista. Penso che il partito del socialismo europeo sbaglierebbe a coltivare l'autoreferenzialità, e penso che noi dobbiamo essere il soggetto attivo di un nuovo campo, capaci però di evitare ogni isolamento. Le forme attraverso le quali questo doppio movimento potrà realizzarsi le vedremo insieme».
Ma con quali alleanze pensa di rilanciare il Pd di qui alle europee? «Questo Paese ha bisogno di avere finalmente ciò che nella storia gli è sempre mancato: un riformismo democratico, lo stesso che ha cambiato il volto di molti dei paesi europei. Per sconfiggere Berlusconi serve un cambiamento radicale del Paese. E questo cambiamento lo può fare solo il riformismo, non uno strano impasto di Dini e Caruso. Di fronte alla crisi di consenso della destra, se il riformismo italiano tiene la barra dritta può creare le basi per un consistente spostamento di elettorato da una parte all'altra. Questo significa "vocazione maggioritaria". Noi dobbiamo poter dire all'Italia: provate noi, provate un' alternativa riformista, provate a fare come si è fatto negli Stati Uniti con Obama o in Inghilterra con Blair. Questa è la mia scommessa, e questo proporrò alla direzione».

Il Foglio Clandestino pubblica "Gli amori gialli"



Tristan Corbière, Gli amori gialli è il nuovo volume delle edizioni del Foglio Clandestino.

Berlusconi e il G8 in Italia

"G8 in Italia, già scatta l'allarme sicurezza" è un articolo di Luigi Ambrosino su "Il Mattino" di oggi. "Berlusconi presenta logo e strategie: «Dopo Genova è normale stare all'erta». Nuove aperture all'Africa", il sottotitolo.
Sarà un G8 che coinvolgerà a pieno titolo nei suoi lavori i Paesi «ormai emersi» del G5 più l`Egitto, l`Africa, e alcune potenze asiatiche. Una riunione quindi «a geometrie variabili», pronta ad allargarsi di volta in volta a seconda dei temi sul tavolo. Ma il formato originale, quello che comprende gli otto grandi della Terra, sarà conservato, perchè «finora ha svolto molto bene la sua funzione» e anzi «avrà una lunga storia anche in futuro».
Il premier Silvio Berlusconi si prepara per la terza volta in quindici anni ad assumere - dal primo gennaio 2009 - la presidenza del G8. E ieri, con a fianco il ministro degli Esteri Franco Frattini e il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Guido Bertolaso, coglie l'occasione della presentazione del logo-simbolo del prossimo summit per tracciare le linee-guida che caratterizzeranno il vertice della Maddalena. «Sono abbastanza sicuro che sarà un vertice che si terrà in totale sicurezza vista sia la zona, che l'isola della Maddalena - ha sottolineato il premier - Avendo avuto l'esperienza traumatica di Genova, per noi il problema della sicurezza al G8 è un problema che esiste, e ma lo terremo in considerazione».
Di sicurezza ha parlato anche il ministro Frattini, ma riferendosi all'eventuale allarme terrorismo. «L'Italia presidente del G8 sarà oggettivamente un obiettivo più visibile per il terrorismo islamico», ha detto rilevando come i servizi segreti italiani abbiano «segnali inequivocabili di una recrudescenza delle attività della rete di Al Qaida contro l'Occidente in generale, non l'Italia in modo mirato: gli attentati simultanei a Mumbai ne sono una prova».
Il vertice, comunque, non potrà non ricalibrarsi sui mutati equilibri geo-politici rispetto alla prima, lontana riunione del G6 nel 1975, Ma che manterrà, almeno nel primo giorno dei lavori, la formula tradizionale con Usa, Germania, Francia, Gran Bretagna, Italia, Giappone, Canada e Russia. La convinzione è infatti che gli otto leader «lavorano fianco a fianco, e si creano legami diretti di vera amicizia», forieri di risultati positivi per tutti. A cominciare dalla strategia anti crisi economica messa a punto al G20 di Washington, ma che «troverà una sintesi» proprio attorno al «tavolo ristretto» del G8. Lo tsunami finanziario globale che si sta abbattendo sull'economia reale e la riforma delle istituzioni di controllo saranno infatti uno dei piatti forti nel mènù dei lavori. E su questo il coordinamento con il G20 che ad aprile prossimo tornerà a riunirsi a Londra sarà costante.
Sugli altri temi invece - cambiamenti climatici, terrorismo, lotta alla povertà, sicurezza energetica il club dei Grandi, così come proposto dall'Italia durante l'ultimo summit giapponese, coinvolgerà «a pieno titolo», e non più solo per delle semplici «colazioni di lavoro», i Paesi interessati. Per questo il secondo giorno, alla Maddalena, agli Otto si unirà il G5 (Brasile, India, Cina, Sudafrica e Messico) più l'Egitto: paese, quest'ultimo, voluto fortemente dal governo italiano per l'«autorevolezza» di cui gode nel complicato scenario mediorientale. Mentre il terzo giorno il summit si aprirà ai rappresentanti dell'Unione africana, dell'Indonesia e dell'Australia.
In particolare sulla stabilizzazione delle aeree di crisi, Berlusconi svela «il ruolo di tramite» che l'Italia, in qualità di prossimo presidente del G8, sta svolgendo tra l'India e il Pakistan dopo la gelata seguita ai «terribili atti di terrorismo» di Mumbai.
Un'area delicatissima, che comprende anche l'Afghanistan, per la quale Frattini ha annunciato nei giorni scorsi una «conferenza regionale», in giugno, che si terrà probabilmente a Trieste. Già perchè il G8 italiano non si risolverà ovviamente nella tre-giorni della Maddalena, ma comprenderà riunioni tra i ministri competenti per materia degli Otto grandi che garantiranno «una vetrina internazionale» a diverse città italiane. Simbolicamente, tra Palazzo Chigi e Farnesina, si lavora ad un vertice tra i ministri dell'Ambiente proprio a Napoli.
Alla vigilia poi di un Consiglio europeo (la prossima settimana a Bruxelles) che si annuncia particolarmente complesso per la difficile mediazione sul pacchetto clima-energia che Roma cerca da mesi, è Frattini a puntualizzare che alla Maddalena un altro obiettivo prioritario sarà quello di convincere anche i «grandi inquinatori» della Terra (Usa, Cina e India) a fare la loro parte nella riduzione delle emissioni, perchè altrimenti gli sforzi solitari della «piccola Europa» sarebbero ininfluenti.

Aiutiamo i bambini di Rabbi Gavriel e Rivkah Holzberg

giovedì 4 dicembre 2008

Senatori in esilio e poche altre curiosità della politica nostrana

Il presidente della commissione di Vigilanza Rai Riccardo Villari ha dichiarato oggi, a margine delle audizioni dei vertici di Viale Mazzini: "Se sarò espulso vorrà dire che mi sentirò un senatore del Pd in esilio". Al termine dell'audizione ha aggiornato la commissione a mercoledì prossimo quando si aprirà il dibattito sulle relazioni di Petruccioli e Cappon.
E pochi minuti è durata l'esposizione del senatore del Pd Riccardo Villari di fronte all'assemblea del gruppo Pd di palazzo Madama dove a sorpresa ha annunciato il ritiro dell'appello alla decisione del direttivo di escluderlo. Il senatore ha voluto comunque esporre le "ragioni di chi si sente amareggiato in quanto un fondatore di questo partito viene espulso senza che gliene siano state date le motivazioni". Villari ha detto all'assemblea: "Ritiro il mio appello perché non voglio mettere in imbarazzo il gruppo rispetto ad un provvedimento di espulsione che considero ingiusto anche perché preso nei confronti di un fondatore di questo partito".
Berlusconi si chiama fuori ancora una volta dalla vicenda, una vicenda che "non attiene al governo". Il premier alla presentazione del logo del G8 della Maddalena, ha ribadito l'estraneità del governo dal caso Villari, spiegando che "i gruppi parlamentari devono assumere le loro decisioni relazionandosi con il presidente della Vigilanza". Ma se c'erano ancora dei dubbi sulla vicenda, ha pensato Anna Finocchiaro a toglierli definitivamente, lasciando trasparire la volontà egemonica del partito di Veltroni, quella di sempre, nei riguardi delle altre minoranze. Parlava di Villari, ma in realtà confessava la volontà nascosta dietro il paravento della pacatezza e serenità veltroniana: "Riccardo Villari non è piu' senatore dell'opposizione. L'esclusione nei suoi confronti diventa definitiva". Sì, avete letto bene: l'opposizione è il Pd, what else? E dunque, per la Finocchiaro Villari "si ritrova nella condizione del soldato giapponese che resta nella giungla dopo la fine della guerra". Ci sarebbe da chiedersi al contrario dove che fine abbia fatto il Pd? Quella del Giappone, la resa? A chi?
E il senatore rimasto nella giungla a fare il Presidente della Vigilanza senza l'esercito in cui militava e che aveva contribuito a fondare, consapevole della necessità di proseguire lungo la sua strada, ha detto: "Immagino che questo sia un malessere momentaneo. Dobbiamo lavorare perché tutti ci siano nella commissione e diano il proprio contributo per dare una mano all'azienda Rai che è l'azienda culturale piu' importante del Paese".
Altro argomento. Il senatore del Pd Vincenzo Vita, commentando le parole del premier che ieri ha affermato che al prossimo G8 in Sardegna proporrà una "regolamentazione a livello internazionale" del Web, ha ribadito quello che per tutti dovrebbe essere un luogo comune: "Internet non ha bisogno di censure e tantomeno di regolamentazioni, perché per sua natura si autoregola".
Chiudo con il presidente emerito della Repubblica, Francesco Cossiga che ha dichiarato, sul tema caldo della giustizia calabrese: ''E ora il dipietrino Uolter Veltroni, pover'uomo, tra i procuratori di Catanzaro e di Salerno con chi si schierera'? Ma certo, contro Silvio Berlusconi e a favore di Barak Obama…''.

La bufera del terrorismo internazionale

Inizio questo post in progress con un'annotazione che ricorda tempi lontani. Questa mattina Klaus Davi per la rubrica "Klauscondicio" ha intervistato Licio Gelli. Il venerabile gran maestro ha affermato sottolineandolo che la strage di Bologna "Fu opera di una mano straniera".
E sempre per restare a casa nostra ieri sera la capogruppo del Pd, Sesa Amici, e il vicepresidente della commissione Affari costituzionali della Camera, Roberto Zaccaria hanno detto che ''La proposta della Lega di una moratoria sulla costruzione delle moschee è rozza e sommaria e manifesta l'ossessione dell'Islam del partito di Umberto Bossi. È una proposta ingiusta e contraria ai dettami della costituzione e della dichiarazione universale dei diritti umani che riconoscono la libertà di culto e di religione di tutti i cittadini''.
Ricordo che una moratoria sulla costruzione di nuove moschee l'aveva chiesta la Lega dopo l'arresto dei due marocchini, uno dei quali predicatore, accusati di associazione a delinquere finalizzata al terrorismo internazionale. Così Roberto Cota, presidente dei deputati della Lega Nord: "Chiediamo una moratoria a tempo indeterminato sulla costruzione di nuove moschee e presunti centri culturali finché il Parlamento non approverà una legge che regolamenti l'edificazione di luoghi di culto che non abbiano sottoscritto intese con lo Stato. Presenteremo una mozione parlamentare in tal senso. Esiste già una nostra proposta di legge per la regolamentazione della costruzione di questi luoghi di culto di cui abbiamo chiesto la calendarizzazione in aula". Ieri il sindaco di Maccherio aveva chiuso il centro islamico in cui erano stati arrestati i due terroristi: "Il sindaco di Macherio, in presenza di irregolarità amministrative che non avrebbero neppure dovuto consentire l'inizio delle attività, ha disposto proprio oggi, con atto amministrativo, la chiusura di quel centro culturale islamico dove sono stati arrestati quei due terroristi", aveva riferito alla Camera il ministro dell'Interno Roberto Maroni. Oggi alla vicenda ha fatto eco Umberto Bossi che al Senato a chi gli chiedeva cosa fare delle moschee esistenti, ha risposto: "Basta non costruirne altre".
E andiamo all'estero. Questa mattina è stato elevato lo stato di allerta per nuovi attentati terroristici nei tre aeroporti indiani di Mumbai, Bangalore e Chennai (la ex Madras). Il ministero dell'aviazione civile ha precisato che l'allarme è stato diffuso sulla base di informazioni di intelligence.
In Afghanistan un attentatore suicida si è fatto saltare in aria a bordo di un'auto all'interno di un complesso dell'intelligence afghana, nella provincia orientale di Khost. Almeno una persona, un agente di guardia, è rimasta uccisa e altre sette ferite, secondo quanto ha precisato il vice governatore di Khost, Tahir Khabari, attribuendo la responsabilità dell'attacco ai ''nemici della pace'', un termine usato dalle autorità afghane per definire i talebani.
In Iraq è di almeno 10 morti e decine di feriti il bilancio del duplice attentato dinamitardo suicida compiuto oggi a Falluja, nella provincia irachena di Al Anbar. Obiettivo dei due attacchi altrettante stazioni di polizia, entrambe gravemente danneggiate nelle esplosioni.
Tornando agli attacchi terroristici di Mumbai (un tempo si sarebbe potuto tragicamente scherzare dicendo: torniamo a bomba a Bombay) l'India ritiene che menti degli attentati del 26 novembre scorso siano due leader di Lashkar-e-Taiba, il gruppo terroristico pachistano che ha la sua base nel Kashmir. Le fonti di Nuova Delhi, che lo rivelano, indicano in Zaki-ur-Rehman Lakhvi e in Yusuf Muzammil gli organizzatori degli attacchi.

mercoledì 3 dicembre 2008

Napolitano a Napoli

Da “Il Mattino” di ieri, martedì 2 dicembre, riporto l’intervento del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, titolo: “La coesione del Paese interesse nazionale”.

Dopo i molti, lunghi mesi durante i quali il nome di Napoli è stato associato - nell’opinione diffusa e nella polemica politica - alla penosissima emergenza rifiuti, una vicenda il cui epilogo tragico oggi ci turba e scuote umanamente, è giusto, ora, accendere i riflettori su tutte le forme di operosità e di capacità realizzatrice - spinte ed energie sane - di cui sono ricche questa città e questa regione. Realtà produttive, nel senso più ampio dell’espressione. Centri di ricerca scientifica e tecnologica, realtà culturali e iniziative volte a valorizzarle: si possano riassumere nella parola «eccellenze» o vadano molto al di là di ciò, sono, tutte, esperienze e presenze, nel segno di un corretto rapporto con le istituzioni e del pieno rispetto della legalità, che valgono a bilanciare rappresentazioni negative, unilaterali e spesso ingiuste. Di qui quella fiducia nell’avvenire di Napoli che due anni e mezzo fa - poco dopo essere stato chiamato ad assumere la più alta magistratura della Repubblica - volli, fuor di retorica, riaffermare (nell’incontro che si tenne in Palazzo Reale) e da cui trassi l’appello a «un forte investimento materiale e di fiducia da parte delle classi dirigenti e dello Stato».
Non nascosi, tuttavia, in quella occasione, le pesanti criticità che offuscavano l’immagine e la prospettiva di sviluppo di Napoli e della Campania. E indicai come gravi la lentezza di realizzazione di alcuni progetti fondamentali da tempo annunciati; la sempre inquietante pressione della criminalità organizzata e della criminalità diffusa; la questione irrisolta dei rifiuti che - aggiunsi - «richiede un’azione risoluta contro cieche resistenze a decisioni improrogabili e contro palesi illegalismi». Quell’azione risoluta è poi finalmente giunta: per quel che riguarda la questione rifiuti, i risultati di sforzi concentrati ed energici non sono mancati, vediamo ora le condizioni per procedere verso soluzioni esaurienti e durevoli.
Ma il quadro complessivo resta segnato da luci e ombre, da potenzialità e contraddizioni, da volontà di rilancio e ostacoli vecchi e nuovi. Facciamo comunque leva sulle energie sane e valide, sui fattori di intraprendenza e dinamismo che emergono: questa è la priorità. E perciò ben vengano i riconoscimenti cui sono oggi felice di presenziare - per imprese che hanno mostrato di saper eccellere, anche e in particolare nella competizione globale del nostro tempo.
È una bella, importante iniziativa, che si colloca in continuità con quella della Federazione Cavalieri del Lavoro-Mezzogiorno dello scorso luglio e con l’Assemblea dell’Unione Industriali di Napoli dello scorso ottobre. Ne viene un esempio per tutto il Mezzogiorno, un esempio di valore nazionale.
E vorrei a questo punto allargare il discorso proprio all’intero Mezzogiorno, anche perché - pur non sottovalutando le diversità che presenta il panorama meridionale - pesano sullo sviluppo di tutta l’area difficoltà e problemi con cui ci si deve misurare.
I dati in cui si riassume il divario leggermente attenuatosi nella seconda metà degli anni ’90 e nuovamente aggravatosi negli ultimi anni - tra il tasso di crescita del Centro Nord e quello del Mezzogiorno, sono troppo noti, non occorre richiamarli, sono stati certificati anche dalla Banca d’Italia. Tali dati riguardano sia la crescita del Pil, sia quella dell’occupazione, specie femminile, e della disoccupazione, al netto di una ripresa di flusso migratorio dal Sud verso il Centro Nord; essi riguardano anche il grado di efficienza di servizi e prestazioni fondamentali.
Non si può non trarre da ciò materia di seria riflessione sulla validità delle politiche portate avanti nell’ultimo quindicennio dallo Stato e dalle istituzioni regionali e locali rispetto all’obbiettivo di una riduzione del divario tra Nord e Sud e di un’efficace promozione dello sviluppo del Mezzogiorno. Tale riflessione dovrebbe condurre a nuove determinazioni, partendo da un presupposto che si tende invece a trascurare: il presupposto formulato così dal Governatore Draghi, in occasione dell’ultima Assemblea della Banca d’Italia - «Gli spazi di crescita sono molto più ampi al Sud che al Nord. Azioni volte a sfruttarli possono dare un contributo decisivo al rilancio di tutta l’economia italiana». Si tratta dunque di un concreto interesse nazionale, oltre che di un imperativo storico e politico, quello della coesione del paese.

Credo di poter dire - senza entrare nel merito di alcuna disputa politica - che in questo momento, e già da tempo, assai basso è il grado di attenzione che tutte le forze rappresentative del paese dedicano al problema del Mezzogiorno e del rapporto tra Mezzogiorno e sviluppo nazionale. Si può ritenere che non ci si possa attendere una maggiore attenzione in quella direzione vista la grave e delicatissima crisi finanziaria e la incombente recessione economica con cui il mondo, e l’Italia, stanno facendo e debbono fare i conti. Ma se è vero che s’impone un grande sforzo comune per sostenere la crescita economica del paese, può questo obbiettivo generale essere perseguito senza tener conto dei limiti e delle potenzialità che il Mezzogiorno rappresenta, e rinviando a non si sa quale «dopo» azioni specificamente rivolte a far leva sugli «spazi di crescita» che ci sono al Sud? Non dovrebbe ogni intervento pubblico anti-crisi mirare anche e in particolare al Mezzogiorno, che già soffre di condizioni di persistente arretratezza e le cui popolazioni soffrono di un più forte disagio sociale? Mi auguro che questo interrogativo venga nelle prossime settimane raccolto e sciolto responsabilmente. Me lo auguro anche pensando a fenomeni di recessione e quindi di aumento della disoccupazione e della cassa integrazione, che incombono su già precari equilibri economici e sociali a Napoli e nelle regioni meridionali.
Si è detto, in tempi recenti e a ragione, che per il Mezzogiorno è importante un discorso non solo e non tanto di quantità di risorse, ma di qualità dell’azione pubblica e di miglioramento del contesto generale al fini di un impiego più produttivo, più efficace delle risorse disponibili. Questo è senza dubbio vero, ma egualmente non si può fare a meno di rilevare l’evoluzione in corso nell’attribuzione di risorse a politiche di riequilibrio territoriale. È in atto una sensibile riduzione non parlo nemmeno degli stanziamenti ordinari - del Fondo per le Aree Sottoutilizzate; riduzione nel periodo 2007-2013 di oltre 11 miliardi, 10 per il Mezzogiorno.
Dallo stesso Fondo il decreto appena approvato dal Consiglio dei Ministri preleva ulteriori risorse, destinandole al «Fondo per le infrastrutture prioritarie»: e a questo punto diventa essenziale che il Parlamento e le Regioni vigilino perché sia mantenuta ferma, per tutti i campi d’intervento, la distribuzione territoriale - che lo stesso nuovo decreto ribadisce in linea di principio - nella misura dell’85 per cento a favore delle Regioni meridionali. Ciò vale in particolare di fronte al grave deficit di infrastrutture che presenta il Sud.
Fermandomi a questa sola considerazione per ciò che riguarda l’aspetto della quantità di risorse da garantire al Mezzogiorno, non posso non toccare l’altro aspetto, quello dell’efficienza e della qualità dell’impiego delle risorse disponibili. E qui non poche sono le note dolenti, che chiamano in causa molteplici responsabilità, in gran parte, non possiamo nasconderlo, interne al Mezzogiorno.
Note dolenti, in particolare e soprattutto, a proposito dell’impiego di assai cospicui fondi europei. Perché dall’Europa vengono non solo vincoli, come talvolta si dice, ma politiche di coesione e sostegni strutturali. E i fondi destinati al Mezzogiorno sono stati negli ultimi anni una riserva, ripeto, cospicua. Ma ritardi nell’utilizzazione, scelte dispersive, insufficienze progettuali e ripiegamenti fuorvianti su cosiddetti progetti sponda, hanno condotto al rischio di perdere una grande occasione. E dunque assolutamente indispensabile che cambino i comportamenti di tutti i soggetti, pubblici e privati, che condizionano negativamente il miglior uso, secondo l’interesse generale, delle risorse disponibili per il Mezzogiorno.
Valgono a questo proposito le osservazioni mosse dal professor Barucci, oggi e in una precedente occasione sempre a Napoli, sulla debolezza delle logiche di mercato, sul peso gravissimo di quelle che egli chiama «intermediazioni improprie», che possono ricondursi a molteplici forme di corruzione e clientelismo, di interferenza e manipolazione rispetto a un lineare e corretto impiego delle risorse pubbliche, e che si traducono in crescita dell’economia illegale.
Bisogna riconoscere che accanto al potenziamento dell’azione già notevole dello Stato contro la criminalità organizzata specie nella sua dimensione di potenza economica, occorre mettere in discussione la qualità della politica, l’efficienza delle amministrazioni pubbliche, e anche l’impegno ad elevare il grado complessivo di coscienza civica, la cui insufficienza moltiplica le difficoltà e favorisce le degenerazioni.
Affrontare senza impacci e ipocrisie queste questioni dall’interno del Mezzogiorno, è condizione essenziale per porre con maggiore forza anche il tema cruciale del rapporto tra il provvedimento di cui si discute in attuazione del federalismo fiscale ovvero dell’articolo 119 della Costituzione, e lo sviluppo di adeguate politiche per il Mezzogiorno.
Va in questo quadro chiarito e garantito il livello effettivo dei necessari trasferimenti tra il Nord e il Sud del paese, anche in funzione di una parità nel godimento di diritti fondamentali: senza, nello stesso tempo, sottrarsi a un doveroso esercizio di responsabilità, nel Mezzogiorno, per quel che riguarda, ripeto ancora una volta, l’impiego oculato delle risorse pubbliche destinate al Sud e per quel che riguarda, in particolare, costi e qualità dei servizi da prestare a carico della finanza pubblica.
Non c’è bisogno di dire quanto questo esercizio di responsabilità nella finalizzazione e nel controllo della spesa pubblica nel Mezzogiorno si imponga nelle condizioni di bilancio che caratterizzano l’Italia: dovendosi sul piano generale intervenire per impedire che la crisi finanziaria si trasmetta ancor più pesantemente all’economia reale ma nello stesso tempo mantenere la fiducia nei titoli del nostro debito pubblico, che resta ingente.
Ho voluto richiamare, nella sua complessità, la situazione del Mezzogiorno, dentro la quale si colloca quella di Napoli. È una situazione che richiederebbe di essere ben più attentamente seguita, analizzata e affrontata, da tutte le rappresentanze e le istituzioni nazionali. Ma qui oggi possiamo registrare con soddisfazione gli impulsi di crescita e di progresso che vengono – all’interno del Mezzogiorno e dell’area napoletana e campana - dal mondo dell’impresa e della ricerca. Mi riferisco alle eccellenze che abbiamo appena premiato, e il cui successo è frutto di capacità innovativa e competitiva, a smentita dei luoghi comuni che indicano nel Mezzogiorno solo il luogo dell’assistenzialismo e dello sviluppo protetto. E ciò vale egualmente per le aziende che ho visitato stamattina a Pomigliano d’Arco tra operai e tecnici giovani che sono espressione di un prezioso capitale umano.
Mi riferisco a quel che ho ascoltato prima che iniziasse questa assemblea sulla nascita, nella Federico II, di un Centro di calcolo scientifico avanzato, esempio di sinergia tra l’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare e l’Università, con lo sguardo rivolto anche all’interazione ricerca-industria. Abbiamo appena visto in Israele, con la dottoressa Marcegaglia, come un paese possa fare dell’eccellenza tecnologica uno dei motori trascinanti della propria economia. E abbiamo potuto tutti cogliere l’importanza che tende ad assumere il Progetto Sud-Nord lanciato dalla Confindustria per una più intensa cooperazione, in materia di ricerca e innovazione, tra soggetti imprenditoriali delle diverse aree del paese. Sono altrettanti motivi di orgoglio che potete vantare contro troppo facili sottovalutazioni e denigrazioni. Vi dico perciò: abbiate fiducia in voi stessi, nella vostra capacità di superare le sfide dell’oggi e del domani, e anche - aggiungo - nella vostra capacità di sollecitare e influenzare cambiamenti positivi nella realtà istituzionale e civile di Napoli, della Campania, del Mezzogiorno. Abbiate fiducia in voi stessi perché si possa noi tutti avere fiducia nell’avvenire di Napoli.

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