Ha fatto rumore l'intervista rilasciata ieri da Veltroni a Repubblica. Riporto di seguito l'articolo. L'intervista è stata concessa a Massimo Giannini ed il quotidiano la ha intitolata: "Basta veleni e attacchi anonimi chi vuole un nuovo leader esca fuori". Sottotitolo: "Veltroni: "In direzione ci contiamo e poi tutti a remare per il Pd".
«Io non amo parlare di questioni interne al Pd, ma di fronte a quello che sta accadendo avverto la necessità di dire: adesso basta. Basta con le confessioni anonime, basta con i retroscena, basta con i veleni. E inimmaginabile che nel cuore di una crisi economica gravissima e di una crisi di consenso del governo, il centrosinistra riformista ricada nel suo solito vizio autolesionista: quello di segare l'albero su cui sta seduto». Sono ore difficili, per Walter Veltroni. Nel suo ufficio del Nazareno, il segretario del Partito democratico ostenta serenità. Ma si capisce che non ne può più.
Diciamo la verità: non è un bel momento, per il Pd. «Questo stillicidio quotidiano non fa male a me, fa male al partito e fa bene alla destra. Berlusconi è impegnato in un attacco contro di noi che non ha precedenti. Di fronte a questa offensiva io non invoco solidarietà o spirito di squadra.
Capisco che sono termini "d'antan", che oggi in politica non vanno più di moda. Ma pretendo trasparenza e coerenza, questo si».
Che vuol dire? «Trasparenza vuol dire che se si è convinti che il problema del Pd sia la leadership, è giusto dirlo a viso aperto. Il 19 dicembre ci sarà la direzione del partito: quello è il luogo per sollevare il problema e per trovare serenamente le forme per risolverlo, se serve anche attraverso un congresso straordinario da fare subito. Io voglio bene al Pd, più di quanto ne voglia a me stesso. Sono pronto a mettermi in gioco, se questa si rivelerà la soluzione più condivisa. Ma se nessuno pensa che il nostro problema sia la leadership, allora chiedo a tutti il massimo della coerenza. Discutiamo pure. Ma avendo ben chiara una cosa: tutti remano nella stessa direzione per raggiungere i migliori risultati. Dopo le elezioni, nell'autunno del 2009, ci sarà il congresso e si tireranno le somme. Ma fino a quel momento, mai più conflitti sotterranei, mai più interviste polemiche, mai più giochi al massacro».
Lei sta dicendo che in direzione sarebbe pronto anche a farsi da parte, se non fosse possibile ricomporre le fratture interne? «Considero gli interessi generali più importanti di quelli personali. Ho sempre lavorato per il bene di questa "creatura", un partito riformista di massa, una forza del 34% che in Italia non è mai esistita se non nella breve parentesi del primo governo Prodi, tra '96 e '98. In meno di un anno i risultati sono stati straordinari. La Summer School è stata un successo. La nostra tv sta andando benissimo. Il Circo Massimo è stato un trionfo.
Abbiamo vinto le elezioni in Trentino e in Alto Adige. Abbiamo gioito per lavittoria di Obama, perché qui qualcuno aveva intuito che era uno straordinario seme di futuro. Siamo risaliti di 4 punti nei sondaggi mentre Berlusconi ha cominciato a cadere. Insomma, tutto stava andando per il meglio. Ho chiesto ai segretari regionali due giorni fa: cosa diavolo è successo in pochi giorni?».
Se vuole le faccio l'elenco: i pizzini di Latorre, il ritorno in pista di D'Alema, il pasticcio della Vigilanza Rai, gli attriti sul partito del Nord, il de profundis di Parisi, ora persino la nuova «questione morale» esplosa a Napoli. Non basta? «Sono cose molto diverse tra loro.
Alcune possono essere persino delle opportunità, come la disponibilità di alcuni dirigenti a contribuire al progetto Pd. Altre appartengono alla solita sindrome autodistruttiva del centrosinistra. Una sindrome che ha ucciso l'Unione, e che nel nostro popolo produce sconcerto e amarezza. Ma sia chiaro, il Pd non può fare e non farà la stessa fine. Il logoramento è un errore che non possiamo permetterci, nell'interesse non di una persona, ma dell'intero partito che si deve presentare al Paese con un'immagine determinata e coesa, con un progetto forte e innovativo. Questo sarà il messaggio con il quale mi presenterò alla direzione del 19».
Lei ha parlato di «Lingotto 2». Sembra passato un secolo, da quel battesimo di Torino. «Ma quella per me resta la piattaforma di modernizzazione sulla quale dobbiamo costruire. La profondità della crisi spinge ad una stagione di forte innovazione, serve un aggiornamento di molti paradigmi politici, un'accelerazione della nostra spinta riformatrice, pensi solo a come deve essere rinnovato il Welfare. Dobbiamo guardare al futuro, e profilarci come una grande forza di popolo. Alla direzione dirò esattamente questo: dobbiamo essere davanti alle fabbriche in crisi, in mezzo ai precariche perdono il lavoro, tra le piccole imprese soffocate dal credito».
Ma intanto c'è chi l'accusa di essere un «dittatore» e chi la critica di essere troppo debole. Come è possibile? «Questo è un vero paradosso. Ho letto un retroscena su un giornale, in cui un anonimo mi rimproverava di gestire il partito con metodi addirittura dittatoriali (mentre se ho un difetto è quello di essere troppo tollerante) e di aver tenuto in piedi un inciucio con la destra sulla Rai, mentre non vedo Letta da mesi, e non parlo con Berlusconi da dopo il voto. Bene, è proprio questo veleno quotidiano che deve finire».
Lei continua a parlare di un governo in crisi, e di un centrodestra in enorme difficoltà. Ne è realmente così convinto? «Basta vedere la giornata di martedì. Il premier la mattina dice "siamo disposti a rivedere la norma su Sky" e la sera chiede le dimissioni dei direttori del Corriere della Sera, della Stampa e di tutti i dirigenti della sinistra. E qualcosa che trasmette il senso di instabilità, di incertezza di chi in questi mesi ha detto tutto e il contrario di tutto, e che sulla crisi non ha fatto nulla, se non mettere le mani nelle tasche degli italiani. Oltre tutto senza avere l'onestà di Bush, che ha chiesto scusa al sua paese perla guerra in Iraq».
Diciamolo, onorevole Veltroni: la vicenda Villari è stata un mezzo disastro anche per il Pd.
«Abbiamo avuto un calo nei sondaggi, proprio nei giorni della vicenda Villari. Non voglio aggiungere altro, per amore di unità verso il partito. Altro che "atteggiamento dittatoriale"... E quello che mi sconcerta è che qualche giornale ha rappresentato Villari come una specie di campione della resistenza alla partitocrazia, un uomo che sta abbarbicato ad una poltrona contro il parere delle più alte autorità istituzionali e di tutte le forze politiche».
C'è un altro nervo scoperto, più doloroso. Genova, Firenze, ora Napoli: nel Pd c'è una «questione morale», come sostiene Gustavo Zagrebelski? «Nel centrosinistra ci sono migliaia e migliaia di amministratori perbene, che lavorano nell'interesse della comunità e contrastano ogni forma di malaffare e di malgoverno. Premesso questo, c'è una questione morale nella vita politica italiana, che deve essere affrontata come dice il presidente della Repubblica. Il Pd non è al riparo da tutto questo. La nostra sfida è far crescere una generazione di dirigenti che abbia un'etica dell'amministrare in sintonia con lo spirito del partito. C'è bisogno che il Pd apra porte e finestre, e selezioni al suo interno le forze migliori. Soprattutto nel Sud».
Secondo Zagrebelski, i «cacicchi» del Pd proliferano in periferia perché il centro del partito non c'è. «I cacicchi hanno cominciato a proliferare parecchio tempo fa. E poi insisto, questa idea del potere si fa strada quando vengono meno i grandi principi dell'impegno politico. Il Pd è nato anche per ricostruire quei principi. E se mi chiede se da questo punto di vista sono soddisfatto, la mia risposta è no, noi abbiamo ancora una grande lavoro da fare».
Perché avete ribadito il vostro no alle proposte di Chiamparino e Cacciari sul Pd del Nord? «Faremo il coordinamento del partito del Nord, ma non il "partito del Nord". Perché l'Italia ha un'altra storia, e perché abbiamo bisogno di un partito nazionale grande e forte. Per questo faremo anche il coordinamento del partito del Sud. Ma un partito moderno ha bisogno di tempo e di tranquillità. A noi sono negati l'uno e l'altra. Non conosco altro partito nel quale ci sia una tale bulimia nei confronti dei leader. Io sono qui da dodici mesi. Ho conosciuto leader come Lula. Chirac, Blair che hanno impiegato anni per affermare il loro progetto. Serve tempo, per costruire una politica di innovazione radicale. Dopodiché naturalmente si risponde di quello che fa. Ed io risponderò del lavoro che avrò fatto. Ma a coloro i quali mi hanno scelto, cioè il popolo delle primarie, come prevede lo statuto».
Un altro fronte aperto è la collocazione in Europa. Rutelli non morirà mai socialista, Fassino firma il manifesto del Pse. Insomma, è il solito caos. «C'è qualcuno che pensa che la soluzione migliore, come ho letto in qualche agenzia di un certo tipo, sia quella di tornare ciascuno al passato? Cioè tornare ai Ds, alla Margherita, magari Ds insieme a i comunisti e Nichi Vendola e la Margherita insieme a Casini? È questa la prospettiva? Per me lo sbocco resta un altro. Io capisco che chi viene da una tradizione politica culturale diversa non se la sente di diventare socialista. Però capisco anche chi dice, perché è la verità, che nel campo socialista esiste gran parte delle leadership e delle politiche che stando al governo o all'opposizione incarnano nei singoli paesi lo schieramento di centrosinistra».
Ma così siamo sempre al «ma anche». Come se ne esce? «Sono dell'idea che si debba creare un grande campo democratico progressista. Penso che il partito del socialismo europeo sbaglierebbe a coltivare l'autoreferenzialità, e penso che noi dobbiamo essere il soggetto attivo di un nuovo campo, capaci però di evitare ogni isolamento. Le forme attraverso le quali questo doppio movimento potrà realizzarsi le vedremo insieme».
Ma con quali alleanze pensa di rilanciare il Pd di qui alle europee? «Questo Paese ha bisogno di avere finalmente ciò che nella storia gli è sempre mancato: un riformismo democratico, lo stesso che ha cambiato il volto di molti dei paesi europei. Per sconfiggere Berlusconi serve un cambiamento radicale del Paese. E questo cambiamento lo può fare solo il riformismo, non uno strano impasto di Dini e Caruso. Di fronte alla crisi di consenso della destra, se il riformismo italiano tiene la barra dritta può creare le basi per un consistente spostamento di elettorato da una parte all'altra. Questo significa "vocazione maggioritaria". Noi dobbiamo poter dire all'Italia: provate noi, provate un' alternativa riformista, provate a fare come si è fatto negli Stati Uniti con Obama o in Inghilterra con Blair. Questa è la mia scommessa, e questo proporrò alla direzione».
Diciamo la verità: non è un bel momento, per il Pd. «Questo stillicidio quotidiano non fa male a me, fa male al partito e fa bene alla destra. Berlusconi è impegnato in un attacco contro di noi che non ha precedenti. Di fronte a questa offensiva io non invoco solidarietà o spirito di squadra.
Capisco che sono termini "d'antan", che oggi in politica non vanno più di moda. Ma pretendo trasparenza e coerenza, questo si».
Che vuol dire? «Trasparenza vuol dire che se si è convinti che il problema del Pd sia la leadership, è giusto dirlo a viso aperto. Il 19 dicembre ci sarà la direzione del partito: quello è il luogo per sollevare il problema e per trovare serenamente le forme per risolverlo, se serve anche attraverso un congresso straordinario da fare subito. Io voglio bene al Pd, più di quanto ne voglia a me stesso. Sono pronto a mettermi in gioco, se questa si rivelerà la soluzione più condivisa. Ma se nessuno pensa che il nostro problema sia la leadership, allora chiedo a tutti il massimo della coerenza. Discutiamo pure. Ma avendo ben chiara una cosa: tutti remano nella stessa direzione per raggiungere i migliori risultati. Dopo le elezioni, nell'autunno del 2009, ci sarà il congresso e si tireranno le somme. Ma fino a quel momento, mai più conflitti sotterranei, mai più interviste polemiche, mai più giochi al massacro».
Lei sta dicendo che in direzione sarebbe pronto anche a farsi da parte, se non fosse possibile ricomporre le fratture interne? «Considero gli interessi generali più importanti di quelli personali. Ho sempre lavorato per il bene di questa "creatura", un partito riformista di massa, una forza del 34% che in Italia non è mai esistita se non nella breve parentesi del primo governo Prodi, tra '96 e '98. In meno di un anno i risultati sono stati straordinari. La Summer School è stata un successo. La nostra tv sta andando benissimo. Il Circo Massimo è stato un trionfo.
Abbiamo vinto le elezioni in Trentino e in Alto Adige. Abbiamo gioito per lavittoria di Obama, perché qui qualcuno aveva intuito che era uno straordinario seme di futuro. Siamo risaliti di 4 punti nei sondaggi mentre Berlusconi ha cominciato a cadere. Insomma, tutto stava andando per il meglio. Ho chiesto ai segretari regionali due giorni fa: cosa diavolo è successo in pochi giorni?».
Se vuole le faccio l'elenco: i pizzini di Latorre, il ritorno in pista di D'Alema, il pasticcio della Vigilanza Rai, gli attriti sul partito del Nord, il de profundis di Parisi, ora persino la nuova «questione morale» esplosa a Napoli. Non basta? «Sono cose molto diverse tra loro.
Alcune possono essere persino delle opportunità, come la disponibilità di alcuni dirigenti a contribuire al progetto Pd. Altre appartengono alla solita sindrome autodistruttiva del centrosinistra. Una sindrome che ha ucciso l'Unione, e che nel nostro popolo produce sconcerto e amarezza. Ma sia chiaro, il Pd non può fare e non farà la stessa fine. Il logoramento è un errore che non possiamo permetterci, nell'interesse non di una persona, ma dell'intero partito che si deve presentare al Paese con un'immagine determinata e coesa, con un progetto forte e innovativo. Questo sarà il messaggio con il quale mi presenterò alla direzione del 19».
Lei ha parlato di «Lingotto 2». Sembra passato un secolo, da quel battesimo di Torino. «Ma quella per me resta la piattaforma di modernizzazione sulla quale dobbiamo costruire. La profondità della crisi spinge ad una stagione di forte innovazione, serve un aggiornamento di molti paradigmi politici, un'accelerazione della nostra spinta riformatrice, pensi solo a come deve essere rinnovato il Welfare. Dobbiamo guardare al futuro, e profilarci come una grande forza di popolo. Alla direzione dirò esattamente questo: dobbiamo essere davanti alle fabbriche in crisi, in mezzo ai precariche perdono il lavoro, tra le piccole imprese soffocate dal credito».
Ma intanto c'è chi l'accusa di essere un «dittatore» e chi la critica di essere troppo debole. Come è possibile? «Questo è un vero paradosso. Ho letto un retroscena su un giornale, in cui un anonimo mi rimproverava di gestire il partito con metodi addirittura dittatoriali (mentre se ho un difetto è quello di essere troppo tollerante) e di aver tenuto in piedi un inciucio con la destra sulla Rai, mentre non vedo Letta da mesi, e non parlo con Berlusconi da dopo il voto. Bene, è proprio questo veleno quotidiano che deve finire».
Lei continua a parlare di un governo in crisi, e di un centrodestra in enorme difficoltà. Ne è realmente così convinto? «Basta vedere la giornata di martedì. Il premier la mattina dice "siamo disposti a rivedere la norma su Sky" e la sera chiede le dimissioni dei direttori del Corriere della Sera, della Stampa e di tutti i dirigenti della sinistra. E qualcosa che trasmette il senso di instabilità, di incertezza di chi in questi mesi ha detto tutto e il contrario di tutto, e che sulla crisi non ha fatto nulla, se non mettere le mani nelle tasche degli italiani. Oltre tutto senza avere l'onestà di Bush, che ha chiesto scusa al sua paese perla guerra in Iraq».
Diciamolo, onorevole Veltroni: la vicenda Villari è stata un mezzo disastro anche per il Pd.
«Abbiamo avuto un calo nei sondaggi, proprio nei giorni della vicenda Villari. Non voglio aggiungere altro, per amore di unità verso il partito. Altro che "atteggiamento dittatoriale"... E quello che mi sconcerta è che qualche giornale ha rappresentato Villari come una specie di campione della resistenza alla partitocrazia, un uomo che sta abbarbicato ad una poltrona contro il parere delle più alte autorità istituzionali e di tutte le forze politiche».
C'è un altro nervo scoperto, più doloroso. Genova, Firenze, ora Napoli: nel Pd c'è una «questione morale», come sostiene Gustavo Zagrebelski? «Nel centrosinistra ci sono migliaia e migliaia di amministratori perbene, che lavorano nell'interesse della comunità e contrastano ogni forma di malaffare e di malgoverno. Premesso questo, c'è una questione morale nella vita politica italiana, che deve essere affrontata come dice il presidente della Repubblica. Il Pd non è al riparo da tutto questo. La nostra sfida è far crescere una generazione di dirigenti che abbia un'etica dell'amministrare in sintonia con lo spirito del partito. C'è bisogno che il Pd apra porte e finestre, e selezioni al suo interno le forze migliori. Soprattutto nel Sud».
Secondo Zagrebelski, i «cacicchi» del Pd proliferano in periferia perché il centro del partito non c'è. «I cacicchi hanno cominciato a proliferare parecchio tempo fa. E poi insisto, questa idea del potere si fa strada quando vengono meno i grandi principi dell'impegno politico. Il Pd è nato anche per ricostruire quei principi. E se mi chiede se da questo punto di vista sono soddisfatto, la mia risposta è no, noi abbiamo ancora una grande lavoro da fare».
Perché avete ribadito il vostro no alle proposte di Chiamparino e Cacciari sul Pd del Nord? «Faremo il coordinamento del partito del Nord, ma non il "partito del Nord". Perché l'Italia ha un'altra storia, e perché abbiamo bisogno di un partito nazionale grande e forte. Per questo faremo anche il coordinamento del partito del Sud. Ma un partito moderno ha bisogno di tempo e di tranquillità. A noi sono negati l'uno e l'altra. Non conosco altro partito nel quale ci sia una tale bulimia nei confronti dei leader. Io sono qui da dodici mesi. Ho conosciuto leader come Lula. Chirac, Blair che hanno impiegato anni per affermare il loro progetto. Serve tempo, per costruire una politica di innovazione radicale. Dopodiché naturalmente si risponde di quello che fa. Ed io risponderò del lavoro che avrò fatto. Ma a coloro i quali mi hanno scelto, cioè il popolo delle primarie, come prevede lo statuto».
Un altro fronte aperto è la collocazione in Europa. Rutelli non morirà mai socialista, Fassino firma il manifesto del Pse. Insomma, è il solito caos. «C'è qualcuno che pensa che la soluzione migliore, come ho letto in qualche agenzia di un certo tipo, sia quella di tornare ciascuno al passato? Cioè tornare ai Ds, alla Margherita, magari Ds insieme a i comunisti e Nichi Vendola e la Margherita insieme a Casini? È questa la prospettiva? Per me lo sbocco resta un altro. Io capisco che chi viene da una tradizione politica culturale diversa non se la sente di diventare socialista. Però capisco anche chi dice, perché è la verità, che nel campo socialista esiste gran parte delle leadership e delle politiche che stando al governo o all'opposizione incarnano nei singoli paesi lo schieramento di centrosinistra».
Ma così siamo sempre al «ma anche». Come se ne esce? «Sono dell'idea che si debba creare un grande campo democratico progressista. Penso che il partito del socialismo europeo sbaglierebbe a coltivare l'autoreferenzialità, e penso che noi dobbiamo essere il soggetto attivo di un nuovo campo, capaci però di evitare ogni isolamento. Le forme attraverso le quali questo doppio movimento potrà realizzarsi le vedremo insieme».
Ma con quali alleanze pensa di rilanciare il Pd di qui alle europee? «Questo Paese ha bisogno di avere finalmente ciò che nella storia gli è sempre mancato: un riformismo democratico, lo stesso che ha cambiato il volto di molti dei paesi europei. Per sconfiggere Berlusconi serve un cambiamento radicale del Paese. E questo cambiamento lo può fare solo il riformismo, non uno strano impasto di Dini e Caruso. Di fronte alla crisi di consenso della destra, se il riformismo italiano tiene la barra dritta può creare le basi per un consistente spostamento di elettorato da una parte all'altra. Questo significa "vocazione maggioritaria". Noi dobbiamo poter dire all'Italia: provate noi, provate un' alternativa riformista, provate a fare come si è fatto negli Stati Uniti con Obama o in Inghilterra con Blair. Questa è la mia scommessa, e questo proporrò alla direzione».
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