sabato 8 novembre 2008

Obama: Veltroni non è nell’agenda

“Il Messaggero” ha offerto oggi con l’articolo “Gestire la crisi e la fine dell’egemonia, il doppio esame di Obama” un’analisi di Ennio Di Nolfo sul significato e la prospettiva dell’elezione a presidente dell’America di Barack Obama. Vediamolo:

C’è un dato meno appariscente e meno impressionistico che riguarda Barack Obama e che non può essere sottovalutato. A lui tocca la guida degli Stati Uniti nel momento in cui si apprestano a fare i conti con la crisi finanziaria e con la duplice prospettiva di non essere più il gendarme esclusivo del mondo e di dover gestire la stagione complicata della fine dell’egemonia globale americana. La maggior parte dei commenti alla vittoria di Barack Obama nelle elezioni presidenziali si è concentrata, come forse era inevitabile, su alcuni aspetti molto appariscenti. Obama come primo presidente nero degli Stati Uniti; la nuova immagine dell’America nel mondo; la straordinaria prova di democrazia e di pluralismo offerta dagli elettori americani; il ritorno dei democratici al potere dopo la contestata presidenza Bush; la volontà di cambiamento e di rinnovamento che questo risultato esprime.
Sono necessarie, e in una certa misura sono già state avviate, accanto a queste, osservazioni meno impressionistiche e meno collegate agli aspetti contingenti di ciò che è accaduto. Affiorano allora alcuni temi che rappresenteranno altrettanti momenti difficili con i quali Obama dovrà misurarsi e che, tutti, rimettono in discussione l’egemonia politico-economica degli Stati Uniti nel mondo. Il risultato elettorale infatti non può cancellare i mutamenti di fondo con cui il nuovo presidente americano dovrà fare i conti, pur con il pragmatismo e il profondo equilibrio interno del quale ha già dato prova prima e dopo la campagna elettorale.
E appena il caso di ricordare, allora, che Obama dovrà misurarsi con una situazione globale nella quale nessuno è pronto né disposto a fare sconti agli Stati Uniti. Negli otto anni della presidenza Bush, e non solo per responsabilità del presidente uscente, la potenza egemone e solitaria è divenuta una potenza assediata da un’opinione ostile e da pericoli emergenti. La crisi economica aggrava tensioni e avversità. Obama deve perciò affrontare un compito immane, che oggi vede in primo piano non più i problemi militari (pur sempre pressanti) ma quelli relativi all’economia.
Dieci giorni dopo la sua elezione, il presidente eletto dovrà partecipare, con George Bush, al vertice dei G-20, convocato a Washington il 15 novembre, per discutere come superare la crisi. Un compito che, dopo le promesse elettorali, metterà alla prova la capacità di Obama di guidare quella che resta pur sempre la principale potenza mondiale, matrice delle principali innovazioni del secolo, recuperando la guida della globalizzazione non più come dominio di un impero solitario ma come terreno di incontro/scontro di numerose nuove potenze che hanno dato vita a un mondo policentrico.
Essere la principale potenza globale non significa anche essere, oggi, l’elemento dominante la vita economico finanziaria del globo. Tornano di attualità temi che hanno profonde radici storiche. Dall’inizio del secolo XX gli Stati Uniti sono stati la maggiore potenza economico-finanziaria del globo. Fra le due guerre e nonostante la “grande depressione” del 1929-32, essi sono divenuti il motore finanziario del sistema capitalistico. Nel secondo dopoguerra e fino al 1971 (anno della fine degli accordi di Bretton Woods che nel 1944 avevano definito le parità monetarie) avevano guidato la ricostruzione del sistema dell’economia di mercato e, anche dopo quella data e fino ai giorni nostri, essi sono stati il punto di riferimento della finanza mondiale. Wall Street era il simbolo dell’immenso potere americano.
La crisi accesa dagli attacchi di al Qaeda era esplosa durante i mesi scorsi, a causa della faciloneria con la quale il sistema bancario americano aveva finanziato la prosperità interna, lasciando che la crescita del debito pubblico finanziasse le spese delle guerre in Iraq e nell’Afghanistan non è una breve recessione ma una crisi di sistema. Essa esige risposte ideate dai collaboratori di Obama ma anche tali da rispondere alle esigenze di un sistema economico mondiale nel quale gli Stati Uniti non possono più svolgere da soli il compito di supremi regolatori. Si ripropone il tema della centralità e della capacità di governare la vita economica e il mercato finanziario globali. Sotto questo profilo diviene ogni giorno sempre più chiaro che la globalizzazione esprime sino in fondo la portata dei cambiamenti che essa stessa ha provocato. A un dominio finanziario concentrato nella capitale della finanza americana, cioè a New York, si contrappone la realtà di un policentrismo che non è più solo politico ma che manifesta anche l’esigenza di una governance pluralistica e diffusa. Obama dovrà affrontare le grandi riforme interne inscritte nel suo programma tenendo conto delle condizioni nelle quali versa l’economia globale. Tenendo conto del prezzo delle materie prime, del costo del lavoro nel mondo ma soprattutto del variare dei termini di scambio sinora esistenti fra il dollaro, l’euro, la sterlina, lo yen e dello yuan. Il policentrismo politico dovrà dunque misurarsi anche con il policentrismo finanziario.

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