Casilino 900, il campo della vergogna che Veltroni aveva dimenticato - questo il titolo di un articolo di oggi de Il Giornale, a firma di Massimo Malpica, che evidenzia l'ipocrisia dello sfascismo nostrano. Sottotitolo: Viaggio nell'accampamento rom che l'Ue ha «scoperto» dopo 40 anni e cresciuto nell'indifferenza dei sindaci di centrosinistra.
Due bambini giocano su un lenzuolo-amaca steso tra due alberi, tra lastre di cemento, schegge di legno, piatti di plastica. Una donna allatta il suo bimbo mentre gli altri cinque figli si inseguono correndo nel fango sotto il telo di plastica che fa da tenda di fronte alla piccola roulotte dove abitano tutti.
«Cosa ci manca? Niente, solo acqua e luce», dice sorridente, come se vivere così fosse una cosa da niente. Eccolo il campo della discordia e della vergogna, il Casilino 900, cresciuto e ingrassato male - sotto le ultime amministrazioni di centrosinistra. Col risultato che, per il commissario per i diritti umani del Consiglio d'Europa Thomas Hammarberg, il Casilino 900 è una «baraccopoli», non un campo d'accoglienza. Esiste da 40
anni, questo megainsediamento degradato ma «semiregolare» , come viene definito con un'ardita acrobazia verbale. Rutelli, costretto a fine '99 a sgomberare il vicino e decennale Casilino 700 ormai fuori controllo, qui non è intervenuto.
Né Veltroni ha saputo sbrogliare questa matassa, preferendo un mantenimento dello status quo, ammantato di «solidarismo».
Ora la patata bollente ce l'ha Alemanno, che cerca una strada diversa dalla politica dei campi, e del degrado. «Ogni tanto le ruspe spingevano l'immondizia lontano dagli ingressi, poi l'intervento di "bonifica" era finito», racconta ridacchiando un nomade dell'ex Jugoslavia, «da più di 20 anni residente qui», dice mostrando la carta d'identità con l'indirizzo: via Casilina, 900. Un luogo in cui le condizioni di vita sono «inaccettabilmente basse», scrive incredulo Hammarberg. Difficile non dar ragione al commissario svedese.
Sterrati circondati da lamiere e rottami di macchine del vicino sfasciacarrozze, pozze di fango, rifiuti, assi di legno chiodate, roulotte fatiscenti dove abitano decine di persone. Qui «vivono» 650 esseri umani, più di un terzo dei quali sono bambini. Molti sono nati qui, e qui sono cresciuti, con una visione del mondo e della quotidianità che è difficile persino da comprendere.
Parabole satellitari e piscine gonfiabili sono solo improbabili metafore di una «vita normale» che a pochi minuti dal centro della capitale sembra lontanissima. La luce manca da sei mesi, l'acqua da dieci anni. «Abbiamo solo una fontana per tutti», spiega sotto una pergola di edera, tra una decina di persone sedute Klej, arrivato dal Montenegro. Qui ha passato 27 anni della sua vita, insieme alla moglie ha messo al mondo otto figli.
«Vanno tutti a scuola», giura, «l'integrazione la vogliamo». I rapporti con i romani del quartiere però sono conflittuali. Una donna si alza in piedi e agita le mani, facendo risuonare i grandi bracciali d`oro.
«Dicono che bruciamo le gomme, e qualche volta in passato è vero che c`erano fuochi e fumo, ogni comunità ha buoni e cattivi. Ma i roghi di questi giorni per me sono fatti apposta per mettere in cattiva luce noi e l'esperimento della "casa di tutti"». La «Savorengo Ker», uno chalet in legno a due piani autocostruito che vorrebbe essere una proposta alternativa e più dignitosa ai container. Per Alemanno l'esperimento è interessante, ma non va bene che l'università RomaTre l'abbia tirata su abusivamente.
Di certo gli sguardi compiaciuti di molti verso quella casa qualcosa dicono. «Non so chi sia felice di vivere nelle nostre condizioni», attacca Hassimi Bairam, uno dei portavoce del campo. «Abbiamo capito che il destino di questo campo è segnato, va bene così. Ma se dobbiamo trasferirci meglio avere case che baracche, meglio un villaggio di un campo».
Più avanti c'è il settore di kosovari e macedoni, fuggiti dalla guerra una decina d'anni fa. Quello che dicono è una condanna delle politiche sui rom di Roma e dell'Italia.
«C'è gente che è felice di vivere così, ma per me è assurdo. Io ho fatto le Olimpiadi del 1984 a Los Angeles come pugile, fino a dieci anni fa avevo una casa vera, un indirizzo mio, una vita dignitosa», sospira Giorgio, 45 anni, gli ultimi nove al Casilino 900: «Ora vivo in una capanna di legno, i miei tre figli crescono tra i rifiuti. Sono ospite in Italia, voglio rispettare le regole, lavorare, comprare una casa "di muro". I miei amici in Germania o in Francia sono stati messi in condizione di integrarsi, chi non voleva è stato allontanato, ma lì i campi non esistono. Qui, invece, purtroppo sì. Ci hanno dimenticati per anni in questa terra di nessuno».
«Cosa ci manca? Niente, solo acqua e luce», dice sorridente, come se vivere così fosse una cosa da niente. Eccolo il campo della discordia e della vergogna, il Casilino 900, cresciuto e ingrassato male - sotto le ultime amministrazioni di centrosinistra. Col risultato che, per il commissario per i diritti umani del Consiglio d'Europa Thomas Hammarberg, il Casilino 900 è una «baraccopoli», non un campo d'accoglienza. Esiste da 40
anni, questo megainsediamento degradato ma «semiregolare» , come viene definito con un'ardita acrobazia verbale. Rutelli, costretto a fine '99 a sgomberare il vicino e decennale Casilino 700 ormai fuori controllo, qui non è intervenuto.
Né Veltroni ha saputo sbrogliare questa matassa, preferendo un mantenimento dello status quo, ammantato di «solidarismo».
Ora la patata bollente ce l'ha Alemanno, che cerca una strada diversa dalla politica dei campi, e del degrado. «Ogni tanto le ruspe spingevano l'immondizia lontano dagli ingressi, poi l'intervento di "bonifica" era finito», racconta ridacchiando un nomade dell'ex Jugoslavia, «da più di 20 anni residente qui», dice mostrando la carta d'identità con l'indirizzo: via Casilina, 900. Un luogo in cui le condizioni di vita sono «inaccettabilmente basse», scrive incredulo Hammarberg. Difficile non dar ragione al commissario svedese.
Sterrati circondati da lamiere e rottami di macchine del vicino sfasciacarrozze, pozze di fango, rifiuti, assi di legno chiodate, roulotte fatiscenti dove abitano decine di persone. Qui «vivono» 650 esseri umani, più di un terzo dei quali sono bambini. Molti sono nati qui, e qui sono cresciuti, con una visione del mondo e della quotidianità che è difficile persino da comprendere.
Parabole satellitari e piscine gonfiabili sono solo improbabili metafore di una «vita normale» che a pochi minuti dal centro della capitale sembra lontanissima. La luce manca da sei mesi, l'acqua da dieci anni. «Abbiamo solo una fontana per tutti», spiega sotto una pergola di edera, tra una decina di persone sedute Klej, arrivato dal Montenegro. Qui ha passato 27 anni della sua vita, insieme alla moglie ha messo al mondo otto figli.
«Vanno tutti a scuola», giura, «l'integrazione la vogliamo». I rapporti con i romani del quartiere però sono conflittuali. Una donna si alza in piedi e agita le mani, facendo risuonare i grandi bracciali d`oro.
«Dicono che bruciamo le gomme, e qualche volta in passato è vero che c`erano fuochi e fumo, ogni comunità ha buoni e cattivi. Ma i roghi di questi giorni per me sono fatti apposta per mettere in cattiva luce noi e l'esperimento della "casa di tutti"». La «Savorengo Ker», uno chalet in legno a due piani autocostruito che vorrebbe essere una proposta alternativa e più dignitosa ai container. Per Alemanno l'esperimento è interessante, ma non va bene che l'università RomaTre l'abbia tirata su abusivamente.
Di certo gli sguardi compiaciuti di molti verso quella casa qualcosa dicono. «Non so chi sia felice di vivere nelle nostre condizioni», attacca Hassimi Bairam, uno dei portavoce del campo. «Abbiamo capito che il destino di questo campo è segnato, va bene così. Ma se dobbiamo trasferirci meglio avere case che baracche, meglio un villaggio di un campo».
Più avanti c'è il settore di kosovari e macedoni, fuggiti dalla guerra una decina d'anni fa. Quello che dicono è una condanna delle politiche sui rom di Roma e dell'Italia.
«C'è gente che è felice di vivere così, ma per me è assurdo. Io ho fatto le Olimpiadi del 1984 a Los Angeles come pugile, fino a dieci anni fa avevo una casa vera, un indirizzo mio, una vita dignitosa», sospira Giorgio, 45 anni, gli ultimi nove al Casilino 900: «Ora vivo in una capanna di legno, i miei tre figli crescono tra i rifiuti. Sono ospite in Italia, voglio rispettare le regole, lavorare, comprare una casa "di muro". I miei amici in Germania o in Francia sono stati messi in condizione di integrarsi, chi non voleva è stato allontanato, ma lì i campi non esistono. Qui, invece, purtroppo sì. Ci hanno dimenticati per anni in questa terra di nessuno».
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