Scriveva il Riformista qualche giorno fa, con la penna di Stefano Cappellini, che era bastato da parte di Pierluigi Bersani evocare la definizione "nuovo Ulivo" per suscitare reazioni le più disperate: «Ci sono i prodiani di rito ortodosso che applaudono, i prodiani eretici che mugugnano, Di Pietro che si fa avanti, il comunista Paolo Ferrero che è disponibile alla Santa Alleanza ma non al governo, il verde Bonelli che ci sta a tutte e due, e giù giù a scendere fino a un Enrico Gasbarra che si domanda inquieto: "Se la formula dell'Unione è superata, ancor di più lo sarebbe l'idea di un partito che prima unisce dentro di sé i progressisti dell'ex Unione e che quindi, privo dell'identità cattolico-moderata, va a cercare alleanze verso altre forze politiche che sono state forti avversarie proprio dell'Ulivo". Un sudoku, più che un dubbio».
Vero è che nell'articolo ci si chiede se «il "nuovo Ulivo" evocato da Bersani, che quindi prenderà il posto del "vecchio Ulivo", sarà più simile al "grande Ulivo" di era prodiana o al "piccolo Ulivo" di era successiva» e se c'è «ancora in giro qualcuno in grado di spiegarne le differenze». E poi, «in che cosa consisterebbe la differenza con l'Unione? Nel fatto che ne farebbero parte meno partiti? Non sarebbe una gran discriminante», conclude Cappellini. Che chiosa subito dopo: «Il sospetto è che Bersani abbia voluto lanciare nell'arena la proposta per dimostrare che, parallelamente alla strategia "difensiva" della Santa Alleanza, è già in campo anche una soluzione in positivo, più identitaria. Insomma, una pars construens per testimoniare che pure su questo fronte non c'è il rischio di rimanere indietro rispetto alla linea "offensiva" di Veltroni». Una risposta insomma, nulla più. Nessuna strategia ma solo un espediente tattico per di più rivolto al possibile avversario interno preannunciato dalla lettera al Corriere. Ma lasciamo il Pd alle sue beghe interne per annotare un paio di considerazioni suggerite da un editoriale di Europa di una settimana fa. Era il giorno dopo l'incontro tra Bossi e Berlusconi, e a parte la presa di autocoscienza che Bossi «può essere scambiato per un leader invincibile solo da una sinistra che abbia paura della propria ombra», Europa, come il partito di riferimento, prova a «tirare a campare» con il «tirare a campare» del centrodestra. Europa come l'Unità, non si comprende bene chi sia il suo lettore di riferimento, se un improbabile lettore elettore di centrodestra, uno che non vota ma guarda a destra, o uno di sinistra, ma che si ritiene forse che abbia portato, da bravo «compagno», di quelli vecchi con l'Unità nella tasca della giacca, il cervello all'ammasso.
Un giornale di centrosinistra, se non altro per quel rimasuglio di sinistra che rimane nel nome dell'area, dovrebbe proporre la strada, non fantasiosa, concreta, reale, che porta verso quel sole radioso dell'avvenire, rappresentato dal trionfo di quelle idee di progresso, di equità e giustizia sociale, di civiltà di cui la sinistra è da sempre portabandiera. Un progetto da realizzare, un'azione di fatti e non di parole, che porti sempre più la gente a scommettere sul proprio domani e sul domani dei propri figli, a sconfiggere le forze che frenano lo sviluppo di una società italiana più democratica e partecipata, capace di dare realmente la sovranità al popolo togliendola dalle mani dei poteri forti. Già.
E invece non si trova di meglio che disquisire del fatto che i capi della destra sono «un giorno rodomonti, il giorno dopo con la coda fra le gambe». «E chissà dove ha messo lo spadone con cui battezza i cavalieri celtici, il Bossi che esce dal summit con Berlusconi: più doroteo dei dorotei», si domanda l'editoriale, facendo indirettamente capire la propria delusione riguardo la qualità dell'arte pupara della dirigenza democrat, che già sperava nel harakiri del centrodestra: «Il capo leghista comunica che "si va avanti così". Che "per adesso non si fa nulla". Che elezioni "non se ne parla". E che nessuno sarà chiamato in soccorso della maggioranza, perché l'ex tonitruante presidente del consiglio preferisce provare a ricucire, a rimediare, a recuperare, magari a ricomperare qualcuno dei parlamentari che hanno abbandonato il Pdl». Come deludono questi capi del centrodestra la dirigenza del Pd, che li faceva fessi al punto giusto, pronti al soccorso rosso d'un partito senza un progetto, che altro non sa fare che darsi alla botanica.
Comunque, Europa mostra d'aver capito che di far uscire dalla desolazione il suo partito per grazia divina il buon Bersani di chance non ne ha proprio: «Alla fine, tante complicazioni si riassumono in un concetto banale: nessuno di coloro, a cominciare da Casini e Fini, che si sono imbarcati nella missione di far cadere Berlusconi può più permettersi di fermarsi, né tanto meno di tornare indietro. E siccome non hanno fretta, il loro ideale è proprio il "tirare a campare" uscito come linea berlusconiana dal summit». Che peccato, era troppo bello per essere vero, insomma. E tutto perché «al di là della mitologia sul Cavaliere coraggioso, la verità è che l'uomo non ama il rischio se non è sicuro di vincere facile. Non diciamo un codardo, ma insomma». Non così idiota però, giusto sottolinearlo, come il Pd di Bersani sperava. Una speranza davvero da ultima spiaggia.
Nessun commento:
Posta un commento