«Non siamo inglesi. Ma ciò non giustifica il balletto - maggioranza, opposizione, Presidenza della Repubblica - che da noi, va in scena ogni volta che si profila una crisi di governo», scriveva Piero Ostellino qualche settimana fa sul Corriere della Sera. E aggiungeva: «Né assolve i media che fanno il tifo per le parti in conflitto e tirano il presidente della Repubblica per la giacca, fingendo di difenderne ovvero di discuterne le prerogative». Insomma, dice Ostellino, «le istituzioni fanno acqua da tutte le parti. Se non le si adegua allo "spirito del tempo" la macchina dello Stato va fuori giri».
Quale sia il nocciolo della questione, è presto detto: «L'articolo 1 della Costituzione recita: "La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione". Non spetta agli eletti dal popolo, che ne hanno solo l'esercizio, porre limiti alla sovranità popolare. Che non deve trovare nelle procedure un ostacolo, bensì la propria piena realizzazione. Il soggetto è la sovranità, non sono le forme e i limiti nei quali il popolo la esercita». Dice Ostellino: «È quanto aveva presente Costantino Mortati - il grande costituzionalista che aveva messo in bella calligrafia una Carta pasticciata - quando parlava di prassi (ciò che noi, oggi, chiamiamo impropriamente "Costituzione materiale"). Che egli non intendeva in contrapposizione alla "Costituzione formale", ma a sua integrazione».
Nella realtà delle cose, sottolinea il notista, i guai arrivano dal fatto che «il nostro sistema istituzionale è una parodia delle monarchie costituzionali dell'Ottocento, quando il re aveva l'ultima parola e la democrazia rappresentativa faceva i primi passi. La parte del re la fa il presidente della Repubblica in un contesto politico che non è lo stesso in cui operava la monarchia. Ma le sue "prerogative", in quanto tali, finiscono con avere persino un margine di discrezionalità più ampio dei "poteri" codificati del sovrano». Ostellino spiega: «Innanzi tutto, il re era ritenuto "sopra le parti", anche se, poi, non lo era affatto. Non è così per il presidente della Repubblica. Per il solo fatto di essere appartenuto a una parte politica, che lo ha indicato e votato, egli è inevitabilmente percepito come "uomo di parte". Del resto, di parte, e non di rado, lo sono stati - più o meno esplicitamente - tutti gli inquilini del Quirinale. In secondo luogo, la sua stessa funzione di "filtro" del processo legislativo - che esercita rimandando alle Camere i progetti di legge per vizio di costituzionalità - finisce con essere percepita, più che una garanzia, un'indebita interferenza nell'attività del governo e sull'indipendenza dello stesso Parlamento».
Il notista del Corriere confronta il nostro sistema con quello inglese, dove «nessuno potrebbe insinuare che la regina congiuri contro il primo ministra in carica». Tra le molte differenze che vengono elencate, vi è anche quella che in Inghilterra è il primo ministro che decide di verificare se nel Paese gode ancora del consenso che ha perso in Parlamento, di sciogliere le Camere e indire nuove elezioni. «Chi, da noi, ha proposto un siffatto sistema istituzionale è stato tacciato di fascismo dai custodi della (ben scarsa) sacralità istituzionale», è il netto commento di Ostellino, che aggiunge: «I giornali fiancheggiatori del centrosinistra - che teme di perderle - sono contro eventuali elezioni anticipate e a favore di una maggioranza parlamentare alternativa a quella uscita dalle urne. Peccato che dello stesso avviso non siano quando in gioco è un governo diverso, ad essi gradito. Dicono che il sistema parlamentare puro, senza vincolo di mandato, sarebbe una garanzia per l'indipendenza dei parlamentari rispetto alle oligarchie dei partiti. Peccato che la realtà sia opposta. L'articolo 67 della Costituzione - "Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato" - esautora il popolo della sua sovranità, in quanto ne affida l'esercizio alla discrezionalità dei suoi rappresentanti, conferendo istituzionalmente un carattere elitario, oligarchico, trasformista e autoritario alla democrazia rappresentativa così intesa». Verissimo.
Ma l'articolo di Ostellino contiene un passo illuminante sulle vicende di quest'ultimo mese e mezzo, che riguardano la condotta istituzionale dell'on. Fini. Scrive Ostellino: «Nei sistemi istituzionali anglosassoni, chi presiede i lavori di un ramo del Parlamento è lo Speaker. Il suo è un "lavoro" - his o her job, si dice della sua funzione - che consiste nel dare la parola a chi la chiede. È del tutto impensabile che si metta in concorrenza con il primo ministro, costruisca un proprio gruppo parlamentare distinto e promuova "politiche" diverse da quelle del governo. Se lo Speaker della Camera dei Comuni inglese lo facesse, nessuno ne chiederebbe le dimissioni. Finirebbe in manicomio».
Secondo il notista del Corriere, «a difendere il sistema istituzionale vigente sono rimasti gli epigoni di oligarchie politiche e sociali fondamentalmente ostili alla democrazia liberale. Gente convinta che la democrazia non debba essere "il governo del popolo" - ancorché esercitato dai suoi rappresentanti - ma la Repubblica dei filosofi di Platone, lo Stato etico di Hegel, la "volontà generale" di Rousseau, la "avanguardia del proletariato" marxista-leninista. È la Reazione, malattia senile del progressismo».
Ancora un brano dell'articolo di Piero Ostellino va raccolto per evidenziare l'assurdità nel centrosinistra di un atteggiamento politico propagandato dall'alto e accettato dalla base militante acriticamente. Dice Ostellino: «Avevo sempre pensato che il (solo) modo di cambiare i governanti senza spargimento di sangue fossero, in democrazia, le libere elezioni. Ma pare che molti non la pensino così. I miei lettori di sinistra (...) vogliono cacciare Berlusconi, ma aggiungono anche di non voler votare. Contano, se cade il governo, che il presidente della Repubblica non indica nuove elezioni e confidano nelle "manovre" parlamentari dell'opposizione. Un singolare caso di abdicazione alla propria sovranità!». Davvero! Ma Ostellino va giù ancora a ragione più duro: «Mi chiedo se, di questo passo, non arriveranno a volere l'abolizione delle elezioni quando ci fosse la prospettiva che a vincerle siano "gli altri"». Basta girare un po' per le piazze dei piccoli borghi, dove si presidia per il partito, per capire che una tale volontà non ci metterebbe due minuti a concretizzarsi, magari anche per le comunali.
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