venerdì 3 settembre 2010

Il sogno e l'anatema

«Le ha chiamate "ammucchiate fuori del tempo". E le ha condannate senza appello. Silvio Berlusconi la pensa esattamente come Walter Veltroni che, in vista di un personale rilancio, aveva espresso una posizione letteralmente sovrapponibile a quella del Cavaliere il quale, a sua volta, è alle prese con un rilancio, quello della sua maggioranza», scriveva così qualche giorno fa il Riformista. Un esempio di quanto sia rimasto della lettera di Veltroni inviata al Corriere della Sera nell'area amica. Certo tutta quella roboante pretesa di scrivere agli italiani finita in un «no ad ammucchiate» consonante con il Silvio-pensiero, non un grande risultato alla fine.
E dire che Veltroni si faceva forte d'un motivo «forte»: «Mi permetto di scrivere agli italiani solo perché sento di avere un minimo di titolo per farlo. In fondo due anni fa, un secolo di questo tempo leggero e bulimico, quasi quattordici milioni di italiani fecero una croce sul simbolo che conteneva il mio nome come candidato alla presidenza del Consiglio». E di un rimpianto forte: «Se un milione e mezzo dei 38 milioni di votanti avesse scelto il centrosinistra riformista invece di Berlusconi ora saremo noi a guidare il Paese». Una prospettiva che più d'uno dirà agghiacciante se si fosse verificata stante il vuoto democratico, nel senso del partito, d'oggi. Quel vuoto stesso che lo spinge ad intervenire ora, dopo essersi messo da parte volontariamente, per dettare una linea, «Vi dico cosa farei», come titola il Corriere.
Ma a chi si rivolge Veltroni? Vediamo: «Scrivo al mio paese. Scrivo agli italiani che tornano a casa, a quelli che non si sono mossi perché lavoravano o perché non possono lavorare. Scrivo agli imprenditori che fanno e rifanno i conti della loro azienda chiedendosi perché metà del loro lavoro di un anno debba andare a finanziare uno Stato che non riesce a finire da sempre la costruzione di un'autostrada come la Salerno-Reggio Calabria o che alimenta autentici colossi del malaffare come quelli emersi in questi mesi. Scrivo ai lavoratori che sentono che si è aperto un tempo nuovo e difficile, in cui, per resistere alla pressione di una globalizzazione diseguale, dovranno rinegoziare e ritrovare un equilibrio nuovo tra diritti e lavoro. Scrivo ai nuovi poveri italiani, i ragazzi precari, che arrivano a metà della vita senza uno straccio di certezza, senza un euro per la pensione, senza un lavoro sicuro, senza una casa, senza la sicurezza di poter mettere al mondo dei figli. E senza che politica e sindacati si occupino di loro». La retorica del patetico che suona come un appello: «sfigati di tutto il mondo unitevi» nella nuova «armata», non più gioiosa macchina da guerra, ma lo squinternato manipolo di un nuovo Brancaleone, da Bettola. Per che cosa? Per una speranza. Bello, no? Già, meraviglioso secondo l'estetica del Tafazzi: «Spero che si concluda rapidamente l'era Berlusconi. Ma forse con una visione opposta a quella di alcuni protagonisti della vita politica italiana. Spero che finisca questo tempo non per tornare a quello passato. Non per mettere la pietra al collo al bipolarismo e riportare l'orologio ai giorni in cui pochi leader decidevano vita e morte dei governi, quasi sessanta in cinquanta anni, come l'andamento del debito pubblico testimonia in modo agghiacciante. Anche perché quei partiti avevano storie grandi che affondavano nel Risorgimento o nelle lotte bracciantili e quei leader avevano fatto, insieme, la Resistenza o la Ricostruzione. Berlusconi è stato un limite drammatico per il bipolarismo, perché la sua anomalia (una delle tante, troppe della storia italiana) ha costretto dentro recinti innaturali, pro o contro, una dialettica politica che avrebbe potuto e dovuto esprimersi nelle forme tipiche della storia del moderno pensiero politico occidentale. Senza Berlusconi in Italia potremo finalmente avere un vero bipolarismo, schieramenti fondati sulla comunanza dei valori e dei progetti, capaci di riconoscersi e legittimarsi reciprocamente in un Paese con una politica più lieve e perciò più veloce ed efficiente nella capacità di decisione del suo sistema democratico. Solo così sarà possibile affrontare, in un clima civile, l'indifferibile esigenza di ammodernamento costituzionale per dare alla democrazia la capacità di guidare davvero la nuova società italiana». Il bipolarismo perfetto, insomma. Il sogno, «I have a dream».
E, dunque, a tanta enunciazione segue a complemento l'anatema: «Se saremo invece tanto cinici da pensare che il declino di Berlusconi possa aprire la strada a un nuovo partitismo senza partiti e alla sottrazione ai cittadini del potere di decidere il governo, finiremo con l'allungare l'agonia del berlusconismo e l'autunno italiano».
Veltroni, nonostante lo sforzo profuso con la sua lunga lettera, di cui sono stati citati solo alcuni passi, non convince. Non convince per un motivo semplice. Perché quello «scrivo al mio Paese» è solo un banale esercizio retorico per dare forza ad una lettera interna indirizzata alla direzione del partito carente di quella progettualità e novità politica necessaria per risollevare le sorti del centrosinistra e animare una prospettiva di un'alternanza al governo. Del resto è significativo un passo della lettera, questo: «Sono stato tra i pochi che si sono fatti da parte davvero (caricandomi responsabilità certo non solo mie). Non ho chiesto alcun incarico, non ho fatto polemiche, non ho alimentato veleni. Ho semmai taciuto e ingoiato fiele, anche di fronte a varie vigliaccherie».

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