giovedì 9 settembre 2010

Malessere

Grillini e popolo viola prima, centri sociali poi, sinistra dell'antipolitica e sinistra radicale, irrompono a Torino alla Festa nazionale del Pd: cosa sta succedendo al partito di Bersani al punto da non incutere più al popolo della sinistra quel mitico rispetto che un tempo il Pci, comunque, riusciva a mantenere? Dopo le proteste verbali contro il presidente del Senato Renato Schifani, la volta del sindacalista Angelo Bonanni, accolto dai centri sociali prima con fischi, urla - «Il denaro è un buon servo e un cattivo padrone», «Marchionne comanda e Bonanni obbedisce» - e lanci di banconote finte, poi raggiunto da un fumogeno che gli ha bruciato il giubbotto senza però ferirlo. Ed Enrico Letta, così come Fassino, sbigottito a gridare: «Voi non avete niente a che fare con la democrazia. Siete il contrario di cui ha bisogno il Paese. Siete antidemocratici». E il commento successivo del segretario Pierluigi Bersani: «Si è trattato di un atto di intimidazione e di vera e propria violenza, un attacco squadrista. È inconcepibile che una festa popolare, che vive nel pieno centro della città, possa essere attaccata in questo modo. Attendiamo di conoscere dal ministero dell'Interno quali misure preventive e repressive siano state prese per impedire un episodio del genere». Certo, si tratta, come ha detto il presidente del Senato, di un intollerabile gesto che nega la democrazia e che deve essere assolutamente condannato, ma una riflessione il Pd dovrebbe farla alla fine.
C'è un evidente malessere diffuso in quel partito. Traspare dalle dichiarazioni dei leader, dei più autorevoli portaborse, dei tanti amministratori che infoltiscono le fila della dirigenza ad ogni livello. Traspare dalle numerose dichiarazioni di militanti che le televisioni hanno mandato in onda, come cronaca e come colore, dopo i fattacci, quel «alla festa dell'Unità non sarebbe successo» sentito più e più volte da compagni di sempre che vivono male, oggi, quel prefisso «ex» che all'epiteto si è soliti attaccare.
L'impressione è che la creazione del Pd con quel distacco netto dalla sinistra voluto da Veltroni come preciso calcolo politico per far scomparire definitivamente dalla politica parlamentare gli ex alleati scomodi dell'Unione, che avevano portato sì ad una vittoria ma anche al rapido tracollo, abbia avuto alla fine un costo importante per il partito, quello di metterlo in una sorta di «cassa integrazione» politica in attesa di una collocazione futura, non si sa quando, non si sa dove. Senza una leadership spendibile, tant'è che Vendola non a caso si propone come in Puglia a fare da Mosè verso la terra promessa d'un governo duraturo. Senza un progetto concreto innovativo. E non si dica il contrario. Basta leggere ogni dichiarazione dove si parla di mani vuote e d'una ricerca d'un qualcosa, che dia un minimo d'identità, d'avviare; sempre, dal livello alto della segreteria al livello più basso del piccolo insignificante dirigente di provincia. Ed un distacco, poi, sempre più crescente dai cittadini, dalla loro quotidianità, dai loro bisogni; da una società in continua frenetica evoluzione, accecati da un esiziale antiberlusconismo ed internamente da torbidi giochi di corrente.
Luca Canova è un consigliere della minoranza Pd nella Provincia di Lodi. Nel suo blog scrive sullo «stato dell'arte» del partito considerazioni particolarmente degne di attenzione. La sua analisi parte dal tema del giorno, l'ultimo coniglio dal cilindro sul tema della «distruzione» di Berlusconi, Futuro e Libertà, ma ritrovando analogie sul modo di interpretare l'attuale società italiana, o meglio sull'incapacità ad interpretarla, arriva inevitabilmente a parlare del suo partito. Scrive Canova: «"Il Pd è nato per unire due riformismi", si diceva qualche tempo fa, dimenticando generosamente che sia la sinistra sia i centristi hanno rappresentato oggettivamente anche un asse conservatore, in Italia. Le circonvoluzioni in cui si dibatte il Pd ne sono la miglior conferma: anziché unire il meglio del contenuto riformista dei partiti originari (che so: la vicinanza ai lavoratori dei Ds e la solidarietà sociale della Margherita) ci si confronta e contrasta sul peggio di antiche eredità (che so: una certa ingordigia democristiana per cariche pubbliche e un incomprensibile culto della personalità per l'area ex Ds). Risultato: un risottone sciapo che non piace nemmeno ai militanti più convinti». E prova a dare una risposta all'ovvia domanda del perché accada: «Perché anche nella sinistra prevale un conservatorismo e un conformismo di fondo che rende automaticamente eretica e degna di ostracismo qualsiasi proposta coraggiosa o che ponga con coraggio i problemi e le soluzioni. Si guardi alla questione dei DICO, oppure il caso Englaro, o le leggi sui diritti di coppia, sulla RU 486 ma si guardi soprattutto alle leggi approvate su questa scia ideologica sanfedista». E correttamente pone la domanda: «Come si può pensare, ragionevolmente, di essere "alternativa politica" se non si propongono soluzioni politicamente alternative?». Molto giusto.
E Canova si risponde: «Non si può, e infatti si perde. Risultato ovvio di una strategia che è in sé perdente, che insegue il mito di un ceto medio moderato che non esiste e che, se esiste, ha già scelto con convinzione la peggiore destra europea, come a suo tempo non storse bocca di fronte all'operetta mussoliniana, agli attentati di Cosa Nostra, al baratro dell'opera pubblica. Un ceto medio moderato che esiste solo nella testa di politologi da salotto; non esiste ceto medio in Italia, se per ceto medio si intende una borghesia laica, acculturata, liberale ed europea. E non esiste alcuna moderazione in quel grumo sociale che a tale classe sociale si avvicina, ma solo un feroce e rozzo estremismo». Ed inevitabilmente conclude: «Noi, inseguendo questo mito, abbiamo perso consenso e credibilità».
Uno dei miti oggetto del dibattito nel Pd è la cosiddetta «vocazione maggioritaria». Che cosa significhi il termine ce lo spiega Piero Fassino intervistato alcuni giorni fa da Europa: «La vocazione maggioritaria significa che il Pd deve avere un consenso largo ma che non è esclusivo e che ha la capacità di guidare una coalizione. Nessuno ha mai pensato di poter prendere il 51 per cento». Con una simile visione del «compito» è evidente che, come dice Fassino, «il nodo delle alleanze è ineludibile. In tutta Europa il modello bipolare è pluripartitico: in Italia non ci sono due partiti ma due coalizioni».
A smuovere di nuovo in tal senso le acque è stato recentemente Veltroni. «Note nostalgiche comprensibili, visto che ha legato la sua esperienza di leader a quella stagione. Ma la vocazione maggioritaria è una politica abbondantemente sperimentata e purtroppo abbondantemente sconfitta. Se l'interpretazione di Veltroni è questa, è un ritorno all'indietro», commenta Nicola Latorre, voce dalemiana e vicepresidente dei senatori del Pd, intervistato da Il Mattino. Latorre spiega: «La nostalgia per un sistema bipartitico è legittima, ma la pratica è stata archiviata dal congresso e dai fatti. E i congressi non si fanno per perder tempo. Lì si sono confrontate diverse ipotesi di legge elettorale e l'indicazione è stata chiara: serve un sistema che restituisca ai cittadini la scelta dell'eletto, non faccia arretrare dal sistema dell'alternanza, non istituzionalizzi un bipartitismo rifiutato dalla società italiana». Insomma non volendo vedere al proprio interno, nel vuoto di proposta, la causa della sconfitta, si «inventa» che la legge che ha eletto Prodi «interrompe il rapporto tra elettore ed eletto» - pareva a tutti allora che qualcosa non quadrasse - ma soprattutto quella legge «nasce come legge di una maggioranza imposta ad una minoranza». Vero, ma la «porcata» di Calderoli era tanto una porcata che ha fatto vincere alla sua prima applicazione l'avversario della sua coalizione.
C'è, poi, la questione della leadership. Figure come i sindaci di Torino e di Firenze, Chiamparino e Renzi fanno scuola e rilanciano velleità di altri. Anche dalle nostre parti dove sembra concretizzarsi il progetto all'interno del Pd di una corrente di sindaci e amministratori. Ambizioni di salita nel ranking del partito si attribuiscono a Guerini, sindaco di Lodi, che si schermisce: «Ho un impegno come sindaco di questa città e intendo portarlo avanti». E poi è uno che dice: «Ci vuole un grande progetto per l'Italia e un rinnovamento. Il partito non abbandoni la sua vocazione maggioritaria e non si perda in formule troppo tattiche che fanno perdere uno slancio di programma», che non pare proprio in linea con la segreteria Bersani. E ancora: «Certo il tema delle alleanze non si può eludere, ma io credo che sia necessario fare uno scatto in avanti. Proporre Fini come nostro possibile alleato credo non sia in linea con la missione che ci siamo posti quando abbiamo iniziato l'avventura del partito democratico. Il problema non è quindi mettere insieme tante forze, ma ragionare su un progetto riformista e maggioritario; in questa logica dovremo attrezzarci visto che potremmo non farcela, però ritengo che la direzione sia quella giusta». C'è chi, come Colizzi, presidente del consiglio comunale di Lodi, alla «corrente» dei sindaci ci crede, augurandosi che il Pd a livello nazionale «possa davvero valorizzare gli amministratori che valgono», come nel caso di Guerini. «Non essendoci più le scuole dei partiti, ora sono gli enti locali le vere palestre della nuova classe dirigente», sostiene Colizzi. Sperando che non sia un abbaglio estivo.

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