mercoledì 29 settembre 2010

Fermati gli ogm

Federica Ferrario, responsabile della Campagna OGM di GreenPeace Italia, ha rilasciato martedì un comunicato stampa in cui con piena soddisfazione annuncia: «Ce l’abbiamo fatta, abbiamo fermato gli OGM». Nel comunicato si spiega che il Gip di Pordenone ha stabilito una multa di 25mila euro per Giorgio Fidenato – l’agricoltore friulano che ha piantato illegalmente mais OGM – e la distruzione del campo OGM di Fanna. «Dopo le denunce, le analisi di laboratorio, i nostri attivisti in azione per fermare la contaminazione, finalmente oggi si riporta la legalità in Friuli e si mettono le basi per porre fine a questa irresponsabile e assurda illegalità, che durava ormai da mesi», dichiara la Ferrario.
La vicenda aveva avuto inizio ad aprile, quando, in Friuli, un agricoltore, Giorgio Fidenato appunto, si era autodenunciato per aver seminato, a suo dire, sei piante di mais OGM. In realtà sono stati seminati due interi campi, tutto con mais OGM illegale. Ci è voluta un’intensa campagna di Greenpeace e delle associazioni che hanno a cuore l'agroalimentare italiano per smuovere le autorità e spingere i politici a prendere posizione. Alla fine l’obiettivo è stato raggiunto.
«Il sistema agricolo italiano, che si regge su piccole coltivazioni di qualità, verrebbe messo completamente in ginocchio da un via libera agli OGM. Abbiamo quindi deciso di organizzare un convegno nell'ambito della Fiera del Riso di Isola della Scala, nel veronese, per riflettere sull'importanza di salvaguardare l'agricoltura italiana, a cominciare dal riso», annuncia Greenpeace, sottolineando che: «Anche a livello europeo c'è molta strada da fare per prevenire la contaminazione transgenica, ed è indispensabile migliorare la procedura per la valutazione sulla sicurezza degli OGM, ancora insufficiente». E l'associazione ha avviato una raccolta di firme: «Raccogliendo un milione di firme, i cittadini europei possono chiedere ufficialmente alla Commissione europea un futuro libero da OGM. Ci siamo quasi. Manca pochissimo al milione».
Il testo dell'appello al Presidente della Commissione Europea José Manuel Barroso è: «Ci appelliamo a lei per porre una moratoria all'introduzione degli OGM in Europa e creare un ente scientifico, etico indipendente che svolga ricerche sull'impatto degli OGM e ne determini la regolamentazione». Per firmare, cliccare qui.

lunedì 27 settembre 2010

Dubbi sull'Iter

Jacques Foos, professore onorario al Conservatoire national des Arts et Métiers, in un articolo su L'Expansion.com evidenzia i dubbi sul progetto internazionale ITER (International Thermonuclear Experimental Reactor) partendo dalle affermazioni del premio Nobel Georges Charpak che a sorpresa tirano in ballo la pertinenza del progetto che cerca di realizzare la fusione nucleare controllata, portato avanti da équipe internazionali di ricercatori. Gli interrogativi nascono dal fatto che certi presunti vantaggi della fusione non appaiono oggi così evidenti mentre invece le difficoltà tecniche rendono il costo molto gravoso e i ritardi d'una sua realizzazione considerevoli.
I sostenitori della fusione usano come argomento il fatto che essa non produce scorie come la fissione classica. Ma il processo libera del trizio che è un elemento radioattivo difficile da confinare per la sua piccola massa col conseguente rischio di ritrovarne nell'ambiente quantità non trascurabili. Inoltre le reazioni di fusione producono neutroni molto energetici che inducono radioattività in tutti i materiali della struttura e all'interno del perimetro del reattore, cosa che praticamente non succede negli attuali reattori. In termini di radioattività creata, si può dire che per kilowattore prodotto ci saranno altrettanti becquerel creati che per la fissione.
Altro argomento: la fusione è una fonte di energia inesauribile. Tuttavia, il reattore a fusione necessita per il suo funzionamento di importanti quantità di litio, che è un metallo relativamente raro. E soprattutto l'argomento non è oggi più sostenibile con l'avvento, ormai molto vicino, dei reattori della quarta generazione, in particolare dei reattori a neutroni rapidi che fanno del combustibile classico, uranio e plutonio, una sorgente d'energia per parecchi millenni.
Ci si può, dunque, legittimamente interrogare, dice Foos, su un progetto, stante il suo costo nel passato, quest'anno, dai 6 ai 16 miliardi di euro. Il 45% per cento di questo importo è a carico dell'Europa, sebbene dovrebbe essere visto come un progetto internazionale in un senso più ampio, in quanto se il progetto avrà successo, è certo che delle ricadute tecnologiche ne avrà giovamento il mondo intero, sia che l'abbia o no finanziato. E, dunque, dice Foos, sarebbe logico che tutti paghino «per vedere», cosa che oggi non avviene, mentre alcuni, tra cui la Francia, pagano un tributo molto pesante. E niente indica che tale budget non sia rivisto vero l'alto in avvenire, essendo negli ultimi anni quasi triplicato. E visti i ritardi, il combustibile non sarà caricato prima del 2026, Foos si chiede quanti di quelli che oggi partecipano nell'esperimento, saranno presenti alla prima prova.
Certamente la realizzazione della fusione è una sfida formidabile per gli scienziati. La storia della fusione è vecchia come l'universo, dato che le prime reazioni nucleari ebbero inizio un milionesimo di secondo dopo il Big Bang. Ancora oggi il 80% delle stelle dell'universo brillano per reazioni di fusione, come il Sole che consuma 460 milioni di tonnellate di idrogeno al secondo per una potenza dissipata di 4 miliardi di miliardi di kW. Le reazioni di fusione, poi, producono una maggiore quantità di energia, 7 volte di più delle reazioni di fissione utilizzate nei reattori nucleari. Tuttavia, perché i nuclei atomici si possano fondere, sono necessarie temperature dell'ordine del miliardo di gradi, temperature che si trovano naturalmente all'interno delle stelle. Altra questione è se l'uomo vuole ricreare tali condizioni e soprattutto controllare la reazione.
Il primo uso che fu fatto della fusione, è stato quello militare con la costruzione di una bomba. Un uso che non prevede il controllo della reazione. Inoltre per ottenere la temperatura necessaria si utilizza una bomba A classica a fissione. Il controllo della reazione è molto più complicato, in quanto la fusione risulta essere un modo di produrre un'energia gigantesca all'interno di materiali che allo stato solido non sopportano temperature superiori a qualche migliaio di gradi. Da qui l'idea di confinare il plasma caldo con campi magnetici. I primi esperimenti furono fatti negli Usa nel 1938 e i primi reattori sperimentali, i tokamak, furono sviluppati nel decennio 1958-1968, e sono funzionanti in diversi paesi. Il progetto ITER non è un altro prototipo, dovrebbe dimostrare la fattibilità industriale di un reattore a fusione. Per questo, deve riuscire a produrre più energia di quella che è necessaria per realizzare il processo di fusione e a controllare questo processo per un periodo di circa 5 minuti.

mercoledì 22 settembre 2010

Aprirsi al mondo

Venerdì 17, sabato 18 e domenica 19, una sparuta pattuglia di brembiesi, 21 persone più l'autista, hanno partecipato in terra francese all'incontro di gemellaggio tra Brembio e Saint-Christo en Jarez, rinnovando l'amicizia tra le due comunità. La data scelta dagli amici francesi per il viaggio era quella della locale fête de la patate gourmande, una fiera che promuove un prodotto del posto, la patata, conosciuto in tutta la Francia per le sue caratteristiche di qualità e di prelibatezza. Ma quest'anno il programma, come momento topico, prevedeva nella giornata di sabato la visita alla vicina Lione, la metropoli ricca di storia e di tesori culturali, dichiarata dall'Unesco patrimonio mondiale dell'umanità.
Impossibile in una giornata visitarla compiutamente tutta, così la scelta degli amici francesi per l'escursione è stata ristretta alle vestigia dell'antica Lugdunum, la capitale romana delle Tre Gallie e alla Vieux-Lyon: gli acquedotti, il colle di Fourvière, dunque, e alcuni aspetti della vecchia Lione come le traboules e le miraboules, le vie ricche di un patrimonio architettonico di notevole spessore e di curiosità, il museo Gadagne che raccoglie marionette di tutti i paesi e celebra il Théâtre de Guignol, il personaggio inventato dal lionese Laurent Mourguet nel 1808. È stata un'occasione per scoprire un meraviglioso sito dove la storia, dagli antichi Galli fino ad oggi, si mostra nella sua completezza all'attenzione del visitatore, un museo dinamico all'aria aperta; una città che forse per molti brembiesi ricorda solo il nome di una squadra di calcio incontrata dai propri beniamini in Champions League.
Non sono mancati naturalmente i momenti tipici del gemellaggio, momenti ufficiali e momenti conviviali, come la cena di sabato nelle famiglie, che permettono di rafforzare l'amicizia non solo con le famiglie ospitanti, ma anche con gli altri partecipanti all'evento, e lo scambio di idee, informazioni sulle reciproche comunità, sulla vita di tutti i giorni.
La cerimonia ufficiale si è svolta presso la nuova scuola di Saint-Christo, edificio che ospita l'equivalente nostro della scuola materna e della primaria, realizzato secondo i canoni della moderna didattica; e il cui fabbisogno energetico è fornito da un impianto fotovoltaico sul tetto. A rappresentare l'amministrazione comunale di Brembio il consigliere comunale Giorgio Marazzi, che ha letto una lettera del sindaco di Brembio, in cui si scusava con il sindaco di Saint-Christo per la propria assenza all'incontro e tentava una giustificazione della poca partecipazione brembiese all'incontro, rispetto ai precedenti, adducendo motivazioni quali la crisi che il mondo sta vivendo e l'insicurezza che spingerebbe la gente oggi a non muoversi da casa.
Il sindaco di Saint-Christo, Remy Guyot, intervenendo a sua volta, dichiarava di accettare le scuse del sindaco brembiese e garantiva la propria presenza in Italia il prossimo anno in occasione del nuovo incontro tra le comunità. Volgeva in positivo i contenuti della lettera riprendendo alcune affermazioni quali il fatto che il gemellaggio rappresenti «un valore enorme» e «un bene prezioso da conservare» e sia «un messaggio ai giovani» che «la speranza la si può trovare aprendosi al mondo».
Dopo i saluti, seguiva lo scambio di regali tra le due comunità da parte delle due presidentesse dei rispettivi comitati di gemellaggio, Maria Grossi per Brembio e Mireille Voron per Saint-Christo en Jarez. Nel corso della cerimonia è stata ricordata l'opera della ex presidente del comitato brembiese, Marilena Parenti, attualmente residente a Londra, che è stata a Brembio il cuore dell'iniziativa di gemellaggio, e che ha voluto essere presente a questo incontro facendo il viaggio da Brembio con gli altri concittadini. La cerimonia ufficiale è stata chiusa da un lancio di palloncini nei rispettivi colori nazionali.
Questa è la cronaca in sintesi del viaggio di quest'anno a Saint-Christo. Il foglio settimanale Fatti e Parole presenta nel numero di domenica 26 un resoconto più ampio dedicando quattro pagine all'avvenimento. Inoltre alcuni video della cerimonia ufficiale saranno pubblicati sulla pagina di BrembioYouTv. Per vedere Fatti e Parole cliccare qui.

venerdì 17 settembre 2010

Camera da letto

«Ormai visti i tempi in cui ci troviamo, gli esempi che ci sono in giro, queste frasi che vengono dette un po' in libertà, è chiaro che ne trovi di persone così. Ci sono, ci sono. Però si deve combattere a tutti i costi questo andazzo. Con la meritocrazia, con i sacrifici che ognuno può fare, se no è tutto quanto inutile... se no, anziché andare a scuola, è meglio andare a fare un corso di strip-tease», a parlare così è Alessandra Mussolini, intervistata dal Secolo XIX sulle esternazioni di Angela Napoli, deputata di Futuro e Libertà, che ha detto «non escludo che deputate si siano prostituite» e di Giorgio Clelio Stracquadanio, che ospite del programma Klauscondicio ha detto: «prostituirsi, se si vuol far carriera, è legittimo». Naturalmente il giudizio della Mussolini sulle due frasi è fortemente negativo: «Sono delle frasi che si commentano da sole. E non si possono buttare nemmeno queste cose sullo scherzo, ci dev'essere un'etica, un decoro. Qui si passa da un eccesso all'altro, non c'è via di mezzo, non c'è il buon senso, manca completamente il buon senso. Le cose più semplici del mondo, ovvero un po' di equilibrio e di ragionevolezza, pare che non esistano più». La Mussolini, ricordo, è presidente della commissione parlamentare bicamerale per l'infanzia e l'adolescenza.
I fatti sono noti. Angela Napoli e Giorgio Stracquadanio, in una sorta di contrappunto a distanza, hanno sollevato un grosso rumore sulle carriere politiche. Finiana la prima, più antifiniano di tutti gli antifiniani l'altro. Al «Non escludo che senatrici o deputate siano state elette dopo essersi prostituite», della prima il «È assolutamente legittimo che per fare carriera ognuno di noi utilizzi quel che ha, l'intelligenza o la bellezza che siano. Se anche una deputata o un deputato facessero coming out e ammettessero di essersi venduti per fare carriera o per un posto in lizza, non sarebbe una ragione sufficiente per lasciare la Camera o il Senato», dell'altro.
Stracquadanio, politico e giornalista, già esponente di spicco del Partito Radicale Transnazionale, per capire, è quello che ha detto anche che a Fini bisognava riservare il «trattamento Boffo». E vada che la politica è ciò che è; e vada che i suoi radicali candidarono Cicciolina. Va bene tutto, ma qualcuno nel Pdl ha fatto girare la battuta: «Ma questo qui, perché non se lo prende Fini?». Però ha detto una verità che in quanto tale è stata ridicolizzata per disinnescarla: «La politica ha anche una dimensione pubblica. Ci si presenta anche fisicamente agli elettori». Checché ne dica Libero.

giovedì 16 settembre 2010

In cerca di unità

Rassicurare, sembra essere questa la parola d'ordine distribuita alla stampa dal Partito democratico lodigiano. Non sono le questioni nazionali a tener banco, seppure quel quasi sprezzante «Uno sbadiglio ci seppellirà» del giovane sindaco democrat di Firenze, Matteo Renzi, all'annuncio di Bersani del Nuovo Ulivo, l'Ulivo ogm senza i geni della sinistra radicale, di Rifondazione, dovrebbe inquietare un po', perché Renzi va dicendo che i dirigenti, D'Alema, Bindi, Veltroni, per dirne qualcuno, hanno fallito e, dunque, che se ne vadano a casa. Come il fatto che il cinema democratico abbia cominciato a diffondere il trailer d'un nuovo, per dire, film: Veltroni 2 la vendetta. Un Veltroni «preoccupato della situazione, di quello che viene fuori dai sondaggi», parole sue. Che si preoccupa di poter dire le sue opinioni all'interno del Pd: «Spero che sia possibile dirle perché nei giorni passati ho visto cose che corrono il rischio di mettere in discussione la forza del partito: comunicati, dichiarazioni, interviste». O Beppe Fioroni che non fa che ripetere: «Siamo entrati nel Pd perché credevamo in un partito innovatore. Io non ho cambiato idea, se altri l'hanno fatto, non ci faremo sfrattare». No. niente di tutto questo. A tenere banco sono i contrasti interni al Pd lodigiano scoppiati nei primi giorni di luglio per la vicenda di una nomina in un ente pubblico, la Sal, che gestisce l'acqua lodigiana.
Così Il Cittadino del 6 settembre ci informa già nell'incipit di un articolo siglato A.B. che «le polemiche interne sono ormai superate mentre ci si avvia a una riorganizzazione funzionale del gruppo consiliare in Provincia», per poi dirci alla fine che sull'unico, per una serie di motivi che saranno detti più in là, papabile a fare da capogruppo, il consigliere Luca Canova, «peserebbe il ruolo assunto nelle polemiche interne al Pd a proposito della nomina di Antonio Redondi alla guida della Sal». Ma nonostante questo il giornalista si affretta ad aggiungere: «E a proposito di quelle polemiche, è il segretario Mauro Soldati a mettere la parola fine su ogni ulteriore rilancio». Se lo dice lui possiamo crederci, o no? Perché sembrerebbe otto giorni dopo che dopo tutto il fuoco covi sotto la cenere se si titola l'articolo di Matteo Brunello «Il Partito democratico cerca l'unità». E che non stia cercando una copia del giornale diretto dalla Concita De Gregorio, ce lo dice, anche in questo caso, l'incipit dell'articolo: «Il Partito democratico prova a superare le divisioni interne». Ma naturalmente si minimizza, come nel titolo: «Dopo le polemiche arriva la chiarezza». Eppure nell'articolo si legge questa dichiarazione di Gianfranco Concordati, esponente di spicco, attualmente consigliere provinciale: «Abbiamo avuto una discussione franca e serena. Avevamo posto alcune questioni e sono state discusse. Le nostre posizioni critiche rimangono tutte, ma l'obiettivo è quello di fare un passo avanti dopo le discussioni degli ultimi mesi». Buona volontà, da entrambe le parti forse, niente di più. Tant'è che «la frangia interna, che aveva contestato la guida del Pd lodigiano, ha presentato anche un documento per definire un "codice etico" nella selezione della classe dirigente per le aziende pubbliche», scrive Brunello. «Un ordine del giorno proposto da circa una decina di firmatari (su 60 circa) e che verrà rimandato alla direzione per un'ulteriore valutazione nel merito».
Non è il caso qui di ripercorrere tutta la vicenda, anche perché ciò che interessa è la notizia data l'altra settimana, cioè che «senza dirlo apertamente, il Pd prepara l'addio dal consiglio provinciale dell'ex presidente Osvaldo Felissari e dell'ex vice Fabrizio Santantonio». L'addio del secondo è quasi del tutto scontato dopo la sua elezione a consigliere regionale. Al suo posto subentrerebbe il democrat Franco Pinchiroli.
Due sono invece i motivi che frenano l'uscita dell'ex presidente della Provincia, sconfitto alle scorse elezioni, Felissari. Le voci di un suo abbandono circolano da tempo, e se non intende continuare a svolgere il ruolo di capogruppo di minoranza, questo sarebbe il tempo più opportuno per sciogliere la riserva, si ipotizza sui giornali. Come si diceva, un primo freno alla sua uscita di scena in Provincia sarebbe il fatto che subentrerebbe al suo posto l'ex assessore Antonio Bagnaschi, ben visto per la «positiva collaborazione» nella ex giunta provinciale, ma con il piccolo «difetto» di essere di Rifondazione Comunista; e, dunque, il Pd dovrebbe cedere un posto in consiglio ad un partito alleato localmente, che però che intende tenere fuori dal Nuovo Ulivo di Bersani.
L'altro motivo di freno è il fatto che ci sarebbero dei problemi per la sua successione a capogruppo in quanto, se il ruolo è improponibile per Mauro Soldati che è non solo segretario lodigiano del Pd ma anche vicepresidente dello stesso consiglio, Gianfranco Concordati avrebbe secondo le fonti giornalistiche manifestato delle riserve e su Luca Canova, come in precedenza si è anticipato peserebbe il ruolo avuto nelle polemiche interne al Pd. Non viene nominata la consigliera Margherita Fusar Poli, forse per la sua giovane età e la ridotta esperienza politica. Potrebbe invece forse essere quest'ultima un'idea quanto a rinnovamento del partito e al tanto megafonato superamento delle differenze di genere.
Ampliando poi l'orizzonte dei rapporti politici, sarà interessante vedere quale finiranno per essere le relazioni tra Pd lodigiani e Rifondazione dopo che il segretario nazionale ha escluso tali possibili alleanze, perché vanno bene a far da stampella, come in ambito nazionale - ha detto a Torino Bersani - per «un'alleanza democratica su due paletti, nuova legge elettorale e difesa della Costituzione», ma «poi è ovvio che si presenteranno con le loro liste». Già, più democratici di così...

mercoledì 15 settembre 2010

Un sorriso

Maurizio Belpietro ha intervistato un Cavaliere sollevato per l'evolversi positivo della situazione politica nazionale, «Non penso si debba andare a votare. La situazione è sotto controllo, siamo sereni, ci sono le condizioni in Parlamento perché si vada avanti fino al 2013. Gli italiani vogliono che il governo continui a lavorare per riformare l'Italia». L'intervista è stata pubblicata su Libero martedì 14. Governo fino al 2013, dice Berlusconi, per fare le riforme previste nei cinque punti: fisco, federalismo fiscale per combattere l'evasione fiscale, giustizia, Mezzogiorno, sicurezza dei cittadini ed immigrazione.
L'ottimismo poggia su due certezze, l'amicizia con Bossi innanzitutto, di cui dice: «Quella con Bossi è un'amicizia vera, un rapporto maturato nel tempo, c'è fiducia reciproca. Da questo rapporto è nata un'alleanza politica solida e duratura». La seconda certezza è che «la maggioranza resta quella che gli italiani hanno votato, i cosiddetti finiani hanno dichiarato a più riprese che saranno leali con gli italiani e rispetteranno il voto e il programma. Sono assolutamente sicuro di questo».
Berlusconi chiederà la fiducia del Parlamento a fine settembre per rilanciare le riforme le cui priorità sono i cinque punti citati. Non vi sarà il processo breve: «Non rientra tra i cinque punti. È una legge però importante. In Italia ci sono nove milioni di processi pendenti, di cui cinque sono cause civili, e la Corte di giustizia europea ci ha più volte condannato a pagare i danni di questi ritardi». Non ci sarà la legge elettorale: «No, perché questa legge elettorale ha tolto il Paese dall'ingovernabilità, quel periodo in cui i governi duravano pochi mesi e fa sì che un governo duri cinque anni, secondo il mandato degli elettori e secondo le regole di un Paese democratico e moderno».
L'intervista di Belpietro, oltre ad essere un ottimo argomento di immagine per il suo giornale, punta a due obiettivi. Innanzitutto a mettere in luce l'azione positiva del governo. Già da subito, come antipasto, vengono riportate le parole del premier: «Molte riforme sono già state fatte: scuola, università, burocrazia, grandi opere, energia nucleare». Poi la situazione economica ed il modo di affrontarla: «Anzitutto Ue, Ocse, Fmi hanno osservato che il nostro governo ha gestito con efficacia la crisi più grave degli ultimi ottant'anni. Abbiamo tenuto sotto controllo i conti pubblici e se consideriamo il debito aggregato, l'Italia è addirittura tra i paesi Ue più forti, accanto alla Germania e davanti a Francia, Gran Bretagna e Svezia. Di questo dobbiamo ringraziare le imprese e gli italiani che risparmiano e che pagano regolarmente il mutuo e hanno i conti in banca in attivo. A questa solidità di fondo del Paese il nostro governo del fare ha saputo affiancare una politica di rigore nella spesa pubblica e poi nello sviluppo dell'economia, dando un sostegno adeguato alle banche, alle imprese e alle famiglie. Ora è iniziata la ripresa, sono ottimista per natura, non credo a una ricaduta. Anche perché abbiamo gestito una crisi grave facendo sì che l'Italia svolgesse un ruolo di leadership internazionale in alcune fasi», spiega Berlusconi.
Il secondo obiettivo è quello di mettere in luce la figura del premier, mostrando di lui un volto diverso da quello che viene dipinto sui giornali italiani. Così Belpietro chiede al Cavaliere quali siano i rapporti con gli altri leader internazionali, con quali abbia un rapporto forte come quello descritto recentemente da Tony Blair nella sua biografia. Berlusconi risponde così: «Con tutti. sono aperto all'amicizia. Blair ha scritto su di me ciò che pensano tutti i leader mondiali che mi hanno conosciuto e che hanno lavorato con me. Parafrasando uno spot sportivo, direi che ci sono due Berlusconi, diversi tra loro. Uno cattivo e impresentabile che si trova sui giornali italiani che sono in gran parte di sinistra. Un altro è il tycoon prestato alla politica che sa farsi apprezzare in tutti i vertici mondiali, per la sua esperienza politica, per la qualità delle sue proposte concrete».
Berlusconi, infine, «approfitta» dello spazio su Libero per portare altra acqua al suo mulino riguardo a due questioni che tra le molte altre animano il dibattito politico di questi tempi. Innanzitutto i motivi per cui ha «pregato» i suoi parlamentari a non includere il processo breve tra i cinque punti: «Al Senato abbiamo già approvato un nuovo testo sul processo breve che limita a sei anni e mezzo la durata dei processi per i reati meno gravi. Non mi sembrano pochi. Ma quando ci sono di mezzo io, che sono la persona più inquisita al mondo, la sinistra parla di legge ad personam perché questa legge potrebbe incidere anche sui procedimenti che mi riguardano». La seconda questione riguarda la mancata sostituzione del ministro dello sviluppo economico. Afferma Berlusconi: «Non c'è stato nessun vuoto in questo periodo sotto il mio interim, ma anzi un "pieno" di oltre trecento decisioni. Come la legge Berlusconi che rivoluziona il rapporto tra cittadini e pubblica amministrazione. Ora il cittadino può fare tutto ciò che non è espressamente vietato dalla legge. Ad esempio, chi prima voleva aprire un albergo aveva bisogno di una quindicina di autorizzazioni preventive. Ora apre l'albergo e il controllo dell'autorità avverrà solo a posteriori. È una vera rivoluzione liberale».
L'impressione è che basti il Cavaliere da solo - chi Bersani attacca dicendo di lui il «miliardario al quale l'ottimismo non costa nulla» - per svuotare di significato le grida di guerra lanciate dal palco di Torino. Ricordando la frase di Renzi, il sindaco Pd di Firenze, all'annuncio del Nuovo Ulivo, «Uno sbadiglio ci seppellirà», si può chiosare: uno sbadiglio ed un sorriso.

A Venezia

«Fratelli padani, so di quella stupidaggine detta da Fini, che la Padania non esiste: come se noi non esistessimo. Però ognuno è libero di suicidarsi come vuole...». Così Bossi a Venezia ha dato la stura al suo discorso, sottolineando con questa semplice frase l'inadeguatezza politica del presidente della Camera a cogliere la realtà politica d'oggi. Decisamente out uno che vuol far rinascere oggi l'Msi, la sua eredità, anche se sotto mentite spoglie. Ma le parole tradiscono l'abito. E per completare il messaggio che la Padania è molto più reale dell'Italia unitariamente «fascista» di Fini, non solo nella mente della gente del Nord, Bossi spiega nella parte centrale del suo intervento: «Sappiamo bene che l'Europa è molto attenta alla Padania: l'Europa è in crisi perché subisce la crisi di tutti gli Stati-nazione, e dovrà ricostituirsi basandosi non tanto sugli Stati-nazione, che sono falliti, ma sui popoli. E primo fra tutti il popolo padano, un grande popolo di grandi lavoratori, che ha anche forza economica costruita dalla gente. Noi non troviamo i soldi sulle piante, come pensa qualcuno, ma nascono da anni e anni di lavoro. Se non ci fossimo noi, lo sapete bene, all'Italia non aprirebbero la porta in nessun Paese del mondo. Invece aprono la porta ovunque perché ci sono la Lombardia, il Veneto, il Piemonte... Popoli laboriosi, conosciuti per la loro onestà, per la loro forza lavoratrice, per il mantenimento della parola data». E ancora: «Se ci pensate, a Londra esiste Lombard Street, non c'è «Roma Street», o «Italia street», giusto per chiarirci. Quindi i grandi popoli che oggi si uniscono nella Padania chiedono e otterranno la libertà davanti al mondo, anche nel nostro Paese, perché sono guidati nei loro bisogni da una forza politica che ci crede, che ci ha creduto ieri e che ci crederà domani. Caro Fini, i padani esistono e sono una volontà di fede del passato, di oggi e di domani. Grazie, fratelli padani e un abbraccio a tutti».
Quanto a sé, Bossi, dopo aver detto «Questa volta, per la prima volta, ho capito che un po' il tempo passa, anche per me. Ero su in montagna l'altro giorno e mi mancava il fiato: per fortuna che c'era mio figlio che mi accompagnava lungo quella stradina tutta ciottoli e dissestata. E poi si sa che in montagna manca l'ossigeno. Ma andremo avanti fino alla fine. E poi, fortunatamente, con mia moglie Manuela ho tirato su una fila di figli, tutti leghisti: se esce uno, entra l'altro. La mia è famiglia leghista: non che io li obblighi, ma sentono di portare avanti la battaglia della libertà della Padania. Dopo di noi verranno i nostri figli, la battaglia non si fermerà mai. La lotta di grandi popoli per la libertà: arriveranno a bersaglio», più avanti al termine del discorso rassicura tutti: «Io, personalmente, andrò in pensione soltanto quando la Padania sarà libera e unita: un abbraccio, fratelli padani».
Quanto all'attuale obiettivo prioritario del partito, il federalismo, Bossi assicura: «Il Federalismo è pronto, la va a giorni, la va a ore!». Un risultato che sarà ottenuto perché «questo Governo ha sostenuto con forza le riforme istituzionali». E, dunque, dice al suo popolo: «Quindi preparatevi: tocca a voi, tocca a tutti i paesi della Padania fare ciascuno una grande festa nella piazza principale, perché questa è una riforma fondamentale».
E Bossi spiega in poche parole la riforma del federalismo fiscale: «Durante tutta l'estate io e Calderoli abbiamo seguito Tremonti e alla fine abbiamo trovato l'accordo con lui. Alle Regioni, cosa importante, competerà una specie di miscela di Irpef e di Iva. Quest'ultima, dicevamo, è una tassa rigida che paga un po' tutto il Paese, anche il Sud, mentre l'Irpef è una tassa più flessibile. Faccio un esempio: se Cota avesse la disponibilità dell'Irpef, tutte le imprese che fino a ora hanno delocalizzato all'Est le farebbe tornare in Piemonte. Sulla diminuzione di imposte come l'Irpef il Federalismo è uno strumento di grande flessibilità se non è più nazionale, non dovendo più passare prima per Roma. L'Europa di certo non ci concederebbe di abbassare l'Iva, anzi, se la tocca è solo per aumentarla». E poi il federalismo demaniale: «Abbiamo portato a casa un buon Federalismo: i laghi, i fiumi almeno sono tornati alle Regioni. Adesso sappiamo di chi sono le competenze. Stavano scomparendo nel nulla quei beni, ma adesso sono tornati a casa e mai più finiranno a Roma, a Roma ladrona, come dice la Lega».
Ma a Bossi non mancano gli spunti polemici: «In giro per Roma si vede un manifesto che dice che è la Lega ladrona per Roma: certo che chi gli tocca le cose che hanno guadagnato grazie alla vecchia partitocrazia non è bene accetto. Ma noi non ci spaventiamo. Andremo avanti a cambiare il Paese, volenti o nolenti: la nostra gente è stanca di mantenere un carrozzone che comunque sarebbe destinato ad andare a fondo senza le riforme». Non solo, ma rilancia: «Ora che il Federalismo è stato portato a casa, grazie a noi, ma anche a voi, fratelli padani, e alla vostra fede», ora che «la premiata ditta Calderoli-Bossi ce l'ha fatta», «c'è subito un'altra battaglia da fare: portare a casa un po' di ministeri, che adesso sono concentrati tutti a Roma». E spiega: «In Inghilterra il decentramento è stato fatto anni fa: a Londra non c'è più nessun ministero perché sono stati tutti distribuiti alle altre città, anche i ministeri importanti come quello della scuola. Tutto è stato distribuito. Ne ha guadagnato finanziariamente, ma soprattutto ha guadagnato in libertà. E questa è la strada che vogliamo seguire noi. Da "Roma Street" alle grandi capitali della Padania, ma anche del Sud, dove ci sono grandi città». Il motivo è anche economico: «Milano, Torino, Venezia: possibile che i nostri giovani non possano avere anche loro accesso ai posti in ministero? I ministeri sono una fonte enorme di posti di lavoro e di soldi. So che siete d'accordo, e quindi noi batteremo la strada del decentramento dei ministeri». La risposta, insomma al sacco di Roma col sacco di Roma. Ed è interessante come Bossi spieghi l'iniziativa: «Sappiamo sempre prima quello che vuole la gente perché noi siamo sempre in mezzo a voi», e non ci stava male un "perché noi siamo la gente".
La prima parte dell'intervento di Bossi è dedicata all'agricoltura: «Vedo che fra di voi ci sono molti agricoltori. Abbiamo ricevuto un gruppo di Cobas del latte l'altro giorno a Milano, alla sede della Lega; ci hanno portato anche una ruota di formaggio: io e Calderoli ne abbiamo approfittato, e li ringraziamo. Devo dire che, dopo avere sentito sia Tremonti sia Berlusconi, ho chiesto al Governo di impegnarsi a trattare in Europa per ottenere quel che si può riguardo alle quote latte. Non vi abbandoneremo, fratelli agricoltori, non lasceremo che scompaia l'agricoltura padana». E ancora: «Non ci interessa quello che ha detto Fini, o quello che va in giro a dire Casini. Noi sappiamo che siete della brava gente, lavoratori sfruttati, e non lasceremo che si mettano le mani sulle vostre stalle, sui vostri beni conquistati in una vita di lavoro. Altro quello che diceva Casini in Aula, che voi siete degli imbroglioni... No, noi non ci facciamo incantare da quella gente, li conosciamo. Fini dice che abbiamo costretto gli italiani a pagare per voi, ma questo non è vero, anzi: da quando è arrivato Zaia, l'Italia non paga più nessuna multa. Grazie, Luca... So che voi lo amate in maniera particolare e pensate che abbiamo sbagliato a mandarlo a fare il governatore del Veneto: in effetti, abbiamo perso un ottimo ministro dell'Agricoltura e al suo posto ci siamo trovati Galan». Galan, che come dice Bossi, «è stato l'unico ministro che ha denunciato il proprio Governo presso l'Europa e ha invitato la Ue a penalizzare il suo Governo perché aiutava la categoria degli agricoltori».
Ed ecco il motivo del rinnovato sostegno: «Voi agricoltori l'altro giorno vi siete rivolti alla nostra premiata ditta per affrontare ancora il problema delle quote latte: lo affronteremo. Io voglio che voi veniate davanti a Berlusconi e a Tremonti a spiegare bene qual è la vostra situazione, impegnando il Governo ad andare in Europa a fare la battaglia, perché stanno succedendo cose vergognose: dalle indagini dei carabinieri sta uscendo che i numeri dati all'Europa sono tutti falsi. Quindi l'Europa deve fare il piacere di prendere atto della realtà drammatica di una categoria come quella degli agricoltori danneggiata da politici delinquenti, che erano gli antecedenti di quelli che adesso gridano contro di voi. Forse una volta, al tempo dei democristiani, le quote latte andavano bene, ma adesso dire che i delinquenti siete voi mi sembra troppo».
Sulla situazione della maggioranza era stato Roberto Maroni ad intervenire: «Se ci saranno i 316 voti di fiducia Berlusconi andrà avanti, altrimenti si deve dimettere», cui aveva fatto eco Calderoli: «A noi non serve un governicchio per mangiare il panettone. A noi serve un governo per portare a casa le riforme». Come pure il capogruppo alla Camera Reguzzoni: «Non possiamo farci fermare dal pantano romano. Si va avanti solo se si può governare». Un discorso chiaro.

lunedì 13 settembre 2010

Pantofole e scarponi

Un articolo di Repubblica riassumeva il comizio di chiusura di Bersani alla Festa nazionale democrat di Torino con una frase dello stesso segretario: «Siamo un partito di governo momentaneamente all'opposizione». Un «momentaneamente» certamente ottimista come il virgolettato nel titolo: «Guideremo il risveglio italiano». Chi? I democrat? Proponendo cosa oggi se non la richiesta di un governo di transizione che vari una nuova legge elettorale, il progetto della speranza, un meccanismo elettorale che, sopperendo all'assenza di un programma concreto di sviluppo del Paese, riporti il Pd al governo.
«Opposizione durissima a qualunque governicchio», grida Bersani ai militanti, chiamandoli «compagni» - «applaudono quando pronuncia la parola», annota il cronista di Repubblica. Cronista che aggiunge «A Bersani si capisce bene, non dispiacciono affatto i riti antichi come il comizio di chiusura, il palco con il gruppo dirigente schierato alle ali secondo uno stile che può ricordare il politburo. Una visione condivisa anche da Sallusti sul fronte del Giornale, che scrive: «Il leader dell'opposizione moderata e riformista torna alle sue origini comuniste, e lo fa con l'orgoglio di chi resta saldamente legato a quella ideologia, messa formalmente da parte non per convinzione ma per spirito di sopravvivenza. E del comunismo, il leader del Pd nel suo discorso rispolvera tutta la retorica, la tristezza, il grigiore, la noiosità, soprattutto l'utopia». E più avanti, quando polemizzando sul «governicchio» scrive annotando che le risorse non sono infinite, ma hanno un limite ben preciso oltre il quale c'è solo la bancarotta: «Il compagno Bersani questo lo dovrebbe sapere bene. Il Pci, infatti, ha co-governato con la Dc l'Italia per cinquant'anni, approvando (e votando) il settanta per cento delle decisioni, soprattutto quelle più sciagurate che hanno fatto esplodere il debito pubblico, elevato la tassazione, consegnato il mondo del lavoro nelle mani dei sindacalisti. Ma non solo. Negli ultimi 18 anni, cioè dalla nascita della cosiddetta Seconda Repubblica, la sinistra ha governato in prima persona 10 anni contro gli 8 di Berlusconi e alleati. Non si capisce bene, dati alla mano, perché Bersani non processi se stesso invece che Berlusconi, al quale tutto può essere rinfacciato meno che di aver portato i conti pubblici in zona a rischio».
All'antiberlusconismo si associa l'antileghismo: «Il premier e la Lega hanno tolto al Paese un'idea di futuro, gli hanno rubato l'orizzonte» e alla gioiosa macchina da guerra la possibilità di governare. E, dunque mettendosi a parlare col palazzo di fronte, quello della Regione Piemonte: «Può darsi che Cota mi senta. La Lega fa il sottovaso di Berlusconi, parla di Roma ladrona ma poi regge il sacco ai quattro ladroni di Roma. La loro è una commedia vergognosa». Che «opposizione durissima» ai «federalisti del week end», come li chiama, che a furia di stare accanto alle cricche e ai corrotti hanno perso la «tensione morale e popolare». E poi, vuoi mettere: «Il Carroccio non ha portato una cosa nuova all'Italia. Le ronde, forse. Niente di paragonabile agli asili nido, ai servizi per gli anziani, alle aree artigianali, all'urbanistica. Abbiamo inventato tutto noi. Loro niente». Perbacco, e questi pd non li si fa governare. E non manca la battuta: «Non siamo snob, parliamo chiaro. Attenzione: chi va troppo ad Arcore ci lascia la canottiera». E poi i dati drammatici della crisi sociale, l'apocalisse: «C'è una fibrillazione nel Paese. Se il governo continua a soffiare sul fuoco, a dividere il mondo del lavoro poi chi spegnerà i roghi?». Succede di tutto, un tripudio di bandiere, piovono applausi, fino a due malori in piazza provocati dal sole caldo e impietoso. E lo stesso Bersani si asciuga con un fazzoletto bianco il copioso sudore che inonda la fronte, ampia come sottolinea il cronista di Repubblica. Per fortuna non piove, se no apriti cielo, quanto altro avrebbe portato a casa il governo su cui rimuginare. Scrive Sallusti sul Giornale: «Crisi, disoccupazione, povertà, sacrifici: c'è da toccarsi ogni volta che parla. Soprattutto perché dall'altra parte, il leader del centrodestra, oltre che una visione liberale della vita e della società, ha anche il dono dell'ottimismo, e alle iatture di Bersani contrappone obiettivi difficili ma di altro genere. Tipo: vi abbasserò le tasse, sconfiggeremo il cancro e vivremo fino a 120 anni, tenete duro che grazie a voi la crisi passerà, viva le belle donne, chi si impegna ce la farà a fare carriera, sappiate sorridere e ridere che fa bene e porta buono e altre cose simili».
E Sallusti si chiede: «Ora, se escludiamo il pugno di intellettuali e qualche moralista pubblico, secondo voi, la nazione a chi si dovrebbe affidare? A un becchino o a un Cavaliere, mettiamo pure sognatore?». Scriveva il consigliere provinciale lodigiano Luca Canova del Pd nel suo blog qualche giorno fa: «All'italiano medio, sbaglierò ma non credo, non interessa il futuro della scuola, dell'università, del welfare; è più interessato a sapere se quello fra Fini e Tulliani fu vero amore, se Noemi era o meno vergine, se Silvio regalerà lo scudetto, se è possibile sgarrare senza danni, se è possibile convivere con la mafia. Insomma se si può rimanere italiani, un po' cialtroni e un po' furbastri, un po' mattoidi e un po' seri, un po' genialoidi e un po' delinquenti nel mondo che avanza, dove anche i più poveri sono diventati, con metodo e tenacia, seri e credibili e non fanno sconti a nessuno, figurarsi all'Italietta di Silvio Berlusconi». Insomma, la realtà per Canova è che «alla maggioranza del ceto medio italiano, inutile illudersi, piace quest'ominicchio che ne legittima la volgarità, l'arroganza, l'ignoranza di fondo». Un'Italia fatta «in gran parte di sudditi, non di protagonisti. Di Cicchitti, di Gasparri, di La Russa e di Brambille e non di Falcone, di Borsellino, di insegnanti che tirano avanti con i denti, di medici che sclerano nelle corsie d'ospedale. Fa male dirlo, ma noi siamo fatti in maggioranza così». Per Canova è sbagliata «la strategia di fondo del Pd», perché basata su un'equivoco su cui il partito rischia di schiantarsi.
«La gente ha bisogno di sogni, possibilmente di vittoria. Parola, quest'ultima, assente dal discorso di Bersani, che non osa pronunciarla neppure accostata al nome del suo partito», continua Sallusti. «Tanto che come soluzioni dei problemi non ha detto: dai ragazzi, facciamo cadere Berlusconi che andiamo a votare e vinciamo. No, ha detto (sintetizzo): speriamo che Fini riesca nella sua azione di mandare in crisi la maggioranza, così andiamo dal compagno Napolitano e ci facciamo fare un bel governo tecnico insieme a chiunque ci sta». Ecco, dice Sallusti: «Ma se non ci crede lui che la sinistra può essere una grande forza alternativa al centrodestra, chi diavolo vuole convincere?».

domenica 12 settembre 2010

Reloaded

«Nel 2001 sono stato eletto con la Margherita-Ulivo e non mi sono mosso; nel 2006 con la Margherita-Unione e non mi sono mosso; nel 2008 con il Pd e nemmeno da lì mi sono mosso. Semmai mi hanno cacciato, espulso. Altro che poltronista o corrotto. Io sono coerente e non ho mai avuto, mai ripeto, un avviso di garanzia». A parlare è Riccardo Villari intervistato da Fabrizio d'Esposito per il Riformista. Il senatore napoletano, oggi nel gruppo misto, ha incontrato nel bel mezzo dell'estate a Palazzo Grazioli Silvio Berlusconi e per questo viene considerato un potenziale esponente del gruppo di parlamentari «responsabili nazionali» pro Berlusconi.
Come si ricorderà, Villari tenne banco sulle cronache con la sua elezione alla presidenza della commissione di Vigilanza Rai con i voti del centrodestra in quanto il Pd di Walter Veltroni allora tentennava sul nome del presidente e non sapeva che pesci pigliare. Villari pressato dal suo stesso partito e da una vera e propria faida trasversale pilotata dai democrat, abbandonò all'inizio del 2009, dopo che la gran parte dei commissari «molto democraticamente» si dimisero per farlo decadere, lasciando la poltrona al fido grande vecchio della Rai Sergio Zavoli. Così Riccardo Villari racconta cosa gli successe dopo: «Quando fui cacciato dal Pd da un segretario capriccioso e incapace, sono stato vittima di una vergognosa epurazione staliniana. Il segretario era Veltroni e pretese anche di cancellare il mio nome dai costituenti del partito. Una vera damnatio memoriae». Poi, «ho continuato a fare politica. Io sono un parlamentare di territorio, non di salotto. Dopo la condanna a morte emessa da Veltroni ho avuto sostegno e il conforto di molti che mi hanno detto: "Riccardo tu ci devi essere". Sono andato avanti e nel frattempo il Pd ha avuto altri due segretari, Franceschini e Bersani. Nessuno di loro ha chiamato. Ci sono rimasto male, io sono una persona perbene».
E sulla sua storia personale di persona perbene ritorna più avanti ancora nell'intervista: «C'è una cosa che mi ha fatto davvero male nella vicenda. Fu quando Di Pietro mi chiamò «corrotto» senza nemmeno conoscermi e non uno dei miei amici moderati del Pd si alzò per difendermi. E da allora nessuno più mi ha chiamato. Eppure di amici moderati nel Pd ne avevo tanti». Come «Dario Franceschini ed Enrico Letta. Dario è anche venuto a Napoli parecchie volte, alle mie feste di compleanno. Ma lo dico senza recriminazioni. Adesso guardo avanti e sia chiaro che gioco all'attacco. Non mi devo difendere da nulla. E poi, diciamola tutta, il Pd se la passa davvero male». E spiega: «Ha una deriva giustizialista e ha dimenticato completamente il valore del garantismo. E oggi i volti del Pd che appaiono sono quelli che appartengono a quell'altra storia, quella comunista».
Come detto, a fine luglio Riccardo Villari ha incontrato Silvio Berlusconi. Dell'incontro dice: «Non lo conoscevo. L'ho incontrato per la prima volta in vita mia. Io sono un soggetto politico, epurato dal suo partito. In quanto tale ho un'agibilità che rivendico. Ma non faccio trattative. Non le ho mai fatte. E senza una trattativa mercantile sfido chiunque a dire che sto sbagliando. Quando nel 2000 venni eletto consigliere regionale in Campania con 15 mila voti, Bassolino mi offrì un posto da assessore. Rifiutai». Oltretutto, va detto, Villari è senatore e al Senato, come ricorda il giornalista i numeri non sono un problema per Berlusconi. Nascerà anche lì un gruppo di «responsabilità nazionale» anti-Fli? «Non lo so. Io so solo che Berlusconi è stato molto disponibile e che posso contare sulla sua disponibilità. Ma alla luce del sole. Eppoi ho già votato a favore della maggioranza. Oggi c'è ancora un sistema bipolare e io dialogo con chi mi cerca. Dico grazie a Berlusconi ma anche a Casini e Rutelli. Chi vivrà vedrà». E quanto alla sua collocazione, nel centrodestra?, risponde: «No, non sono organico. Sono un parlamentare senza vincolo di mandato». Quanto al governo, Villari dice: «Mi auguro che questo governo governi», un altro governo «non sarebbe una buona cosa. Berlusconi è stato eletto. Ma lo direi anche se fossi dall'altra parte». Su Fini, che firmò la sua revoca: «La cosa mi diverte e mi amareggia, allo stesso tempo. C'è stato qualcuno che ha fatto paragoni con il mio caso. In effetti la mia cacciata è stata un vulnus costituzionale causato da motivi politici non giuridici. Non era mai successo prima. In quel momento è stato azionato un meccanismo mortale che può colpire chiunque. Adesso è il turno di Fini».
Villari ritorna in gioco, un napoletano verace, moderato di sinistra, per cui «Napoli rappresenta il più grande fallimento del centrosinistra nazionale».

Flop

Stefania Craxi è stata intervistata sabato da QN. Senza peli sulla lingua: «Con certi personaggi se gratti la patina liberale, esce fuori il fascista». Ma con chi se la prende il sottosegretario agli Esteri? «Con chi si è permesso di dare del "cani da guardia bavosi" a quegli esponenti di An che hanno liberamente scelto di non seguire Fini». Certo, hanno voltato le spalle a Fini, «questo è sotto gli occhi di tutti. Ma non si può negare che chi ha preso le distanze da Fini è stato eletto sotto le insegne del Pdl».
«E poi c'è un altro punto», continua Stefania Craxi. «Nessuno di loro ha replicato in modo scomposto. Non hanno perso la testa neppure di fronte al fatto che Fini a Mirabello abbia detto "sono colonnelli alla ricerca di un generale". Hanno dato una lezione di stile». E quelli che gli sono rimasti fedeli? Pochi, non pochi, la Craxi non ha dubbi non pochi «ma neanche così tanti come si vuol far credere. Se guardiamo bene, con Fini sono rimasti proprio i nostalgici del saluto romano. A mio parere, la scissione di An si è rivelata un vero flop».
Un dato di fatto, però, che al momento quei pochi voti dei finiani possono mettere in crisi il governo. Dice la Craxi: «È vero, si vedrà con chiarezza se Fini vuol vivere di ricatti. Se lo farà posso solo dire che non mi sembra un bel mestiere». Il pericolo di elezioni anticipate scongiurato? per il sottosegretario sembrerebbe di sì, «a parte gli eventuali ricatti», e comunque «gli ultimi eventi dimostrano che il Pdl è in piedi, e non ha timore di affrontare né la prova di governo, né quella elettorale».
Nuccio Natoli, il giornalista che ha raccolto l'intervista, alla fine le chiede il suo pensiero circa il voto anticipato. Stefania Craxi risponde: «Lo ritengo un disvalore assoluto. Sia perché tradisce la volontà degli elettori, sia perché il Paese non ha bisogno di una tornata elettorale infuocata. Se qualcuno le vorrà a ogni costo se ne assumerà la responsabilità». Nessun dubbio in proposito come sul fatto che l'elettorato saprà ben giudicare l'evento, separando la realtà dei fatti da quella virtuale della propaganda.

sabato 11 settembre 2010

In sordina

Il monito del ministro della Semplificazione normativa Roberto Calderoli, come riporta sabato la Padania è fermo e netto: «Attenzione, se qualcuno dovesse pensare a Governi, diversi da quelli votati, in Parlamento allora stia attento, perché in questo caso il Nord se ne va». Nessun gioco di palazzo, dunque, nessun ribaltone, nessun oltraggio alla volontà popolare che si è espressa democraticamente con il voto alle ultime elezioni politiche. Messaggio chiaro, altrimenti il Nord, che economicamente mantiene l'intero Paese, non ci starebbe più.
A Pian del Re, alle sorgenti del Po sul Monviso dice spiegando: «Parlando di una possibile sfiducia, Umberto Bossi ha voluto dare una grossa mano a chi sta cercando di raccogliere consensi per la fiducia, perché la paura non fa solo 90, ma anche 320 e a volte 360. Quello che abbiamo voluto chiarire è che deve esistere una maggioranza, una maggioranza vera e convinta. Sappiamo che il Parlamento garantisce determinate maggioranze ma quello che noi abbiamo voluto chiarire è che deve esistere una maggioranza che non può essere messa in discussione il giorno dopo». E quanto alle elezioni anticipate scongiurabili o meno aggiunge: «Come si dice in questi casi? Mai dire mai. Le elezioni nei regimi democratici ci sono sempre, dipende dai momenti, ripeto se è possibile andare avanti e realizzare tutto il programma e le riforme previste, a condizione però che questo si faccia. Diversamente l'unica strada è restituire la parola al popolo».
Servono, dunque, numeri e coerenza: «A fine mese si va a vedere le carte e si conta e se ci sono i numeri si va avanti. Nuovi ingressi nella maggioranza? Solo se qualcuno è realmente convinto della bontà delle riforme che hanno trovato anche un consenso crescente, come il federalismo, credo che l'allargamento sia possibile, per convenzione, ma non lo può essere per una campagna acquisti».
Calderoli è netto anche su Fini e sulla sua esternazione a Mirabello: «Noi leghisti per il bene del Paese abbiamo fatto i pompieri per tutta l'estate, cercando di mediare tra le parti e di raffreddare gli animi. Ma dopo il discorso di Mirabello mi pare che tutti questi sforzi siano stati vanificati. Il discorso di Mirabello non è stata una mano tesa per la pace tra le parti. È stato un discorso da leader, ma da leader dell'opposizione». E il ministro non manca di elencare i torti fatti alla Lega e al popolo che la Lega rappresenta: «Il signor Fini ci ha detto che la Padania non esiste, che non esiste la terra in cui siamo nati e cresciuti, la terra che, con il suo lavoro, mantiene il resto del Paese e contribuisce a far pagare le buste paga di tutti, compresa quella del signor Fini. L'ho già detto: non possiamo accettare una maggioranza dei se, dei ma e però. E Fini dal palco di Mirabello ha pronunciato una sfilza di se, ma e però. Tipo il federalismo va bene, ma trattiamo, con i soliti se e però. Eh no, il Federalismo si fa se si è convinti, e ormai lo sono tutti, che è una cosa buona e serve a tutti, come oggi sostengono anche i sindaci di Roma e Reggio Calabria».
Ma ultimo aspetto raccolto da Fabrizio Carcano, di quanto Calderoli ha dichiarato ai giornalisti presenti sulla spianata erbosa e rocciosa dove nasce il più grande fiume della Padania è la corretta esposizione dei motivi d'una necessità di salire al Colle per conferire con il presidente della Repubblica: «Dal presidente della Repubblica si andrà a rappresentare non una questione di fiducia o non fiducia ma questioni rispetto ad aspetti costituzionali e regolamentari perché è evidente che qualche conflitto d'interesse in questo momento alla Camera c'è. Ricordo che nei prossimi giorni dovranno essere distribuiti i resti nelle commissioni parlamentari, alla luce della nascita del nuovo gruppo parlamentare del Fli, di cui Fini fa parte ed è proprio a lui che compete questa distribuzione di due o tre parlamentari per commissione. Se abbiamo fatto bene i conti c'è il rischio che alla fine l'attuale maggioranza si ritrovi in minoranza addirittura in nove delle quattordici commissioni parlamentari. E il prossimo 5 ottobre dovranno essere rinnovate le presidenze delle commissioni. È evidente che la funzionalità di uno dei due rami del Parlamento è a rischio e che il presidente della Repubblica, in base all'articolo 88 della Costituzione, è interessato al funzionamento di un ramo del Parlamento». Già, perché, ci dice Calderoli, i ribaltoni si possono fare in sordina, anche così.

venerdì 10 settembre 2010

Il nulla

Il Capanno, Lodi, festa democratica provinciale; dirigenti democrat lodigiani di peso fanno la voce grossa, mostrano i muscoli contro Foroni e la sua giunta. Davanti ai militanti yes, we can. Le frasi più pesanti contro l'amministrazione provinciale governata fino a poco più un anno fa dai Pd, così bene da metterla nelle condizioni di sforare il patto di stabilità, le raccoglie un articolo di Andrea Bagatta sul Cittadino di qualche giorno fa. Un evento «storico» par di capire. Lo «scoop» sul quotidiano lodigiano è aperto dal consigliere provinciale Luca Canova: «Difficile commentare il nulla». Incipit di gran effetto per scaldare i militanti. Seppure forse un tantino troppo filosofico. «Nessuna proposta concreta sulle attività produttive, nessuna prospettiva seria per lo sviluppo del territorio, un piano di opere pubbliche ridicolo». Più comprensibile, però tutto da dimostrare naturalmente, ma, si sa, i militanti sono di bocca buona purché si parli male dell'avversario; e soprattutto hanno scarsa memoria. «Il governo della provincia da parte del centrodestra è stato fatto finora solo con parole arroganti, accuse infondate, propositi e proclami. Per azioni incisive, progetti od opere stiamo ancora aspettando». Si sa, il Pd è esperto dell'argomento, a Lodi come a Roma. Ma poi questi poveri leghisti e pidiellini che hanno preso in mano il governo poco più di un anno fa, 15 mesi per essere precisi, mica hanno bacchette magiche, soprattutto dopo i guasti trovati e denunciati di cui si trovano a governare le conseguenze. Suvvia. Siamo ragionevoli. E giù invece una valanga di domande: «Cosa si sta facendo per il rilancio della produzione locale? E come si vuole gestire lo smaltimento dei rifiuti? Quale visione si ha dello sviluppo del Lodigiano?». Mancava solo la domanda se la provincia intenda o meno costruire un razzo per Marte. Certo c'è da mostrarsi zelanti davanti al segretario regionale Maurizio Martina, che partecipa alla festa, sancendo come dice Bagatta «l'inizio di una nuova e più incalzante azione politica della minoranza segnata "d'ora in poi da una costante e puntuale analisi critica degli atti adottati dalla nuova amministrazione"».
Ed ecco, a seguire, le dichiarazioni del consigliere provinciale Gianfranco Concordati, grande navigatore della politica lombarda: «Come opposizione seria abbiamo atteso dei provvedimenti prima di dare un giudizio, ma oggi il tempo delle accuse a chi veniva prima è finito e aspettiamo il centrodestra sui fatti concreti». Che si può anche interpretare come un "il tempo per mettere a posto i nostri guasti è finito, aspettiamo adesso la realizzazione del vostro programma". Giustissimo. Ma un po' di iperboli non guastano: «L'assessore alla viabilità sta facendo pochi metri di ciclabili e mette in discussione i 200 o 300 chilometri fatti dalle amministrazioni precedenti. Lo stesso assessore ci aveva assicurato che i rapporti con Trenitalia sarebbero cambiati e invece il trasporto su ferro va peggio di prima. Il presidente Foroni polemizza con Auchan su libere scelte commerciali senza preoccuparsi delle possibili conseguenze sulle centinaia di lavoratori dell'azienda». È evidente che gli argomenti sono non argomenti e che a batterci sopra le mani può essere solo un militante entusiasta quanto distratto. Ma saranno le parole di Foroni, il presidente provinciale, più avanti a dare l'adeguata risposta. Qui invece la ciliegina sulla torta politica di Concordati: «Con la sua inattività l'attuale amministrazione sembra fare di tutto per convincere i cittadini che le province sono enti inutili», il colmo per un leghista, insomma, insinua l'ex consigliere regionale. Il massimo dell'insulto politico. Chissà gli sghignazzi.
E poi, la neofita della politica locale e lodigiana ha il suo turno sul palcoscenico del Capanno. Dice la consigliera provinciale Margherita Fusar Poli: «Foroni nel suo discorso d'insediamento aveva detto che sarebbe stato il presidente di tutti, ma nei fatti non lo è, e le commissioni consiliari non lavorano più». Parole che le minoranze di Brembio, dal momento che è anche consigliera comunale di maggioranza e nell'ultimo consiglio comunale ha svolto il ruolo di capogruppo, dovrebbero annotare, come si dice, a futura memoria, visto quanto le stesse minoranze in quel consiglio hanno lamentato relativamente a commissioni non convocate. E poi la chiusa: «Al di là dei proclami sui risparmi della giunta perché si va a mangiare in pizzeria invece che al ristorante, l'amministrazione non spiega come vuole affrontare la crisi, quali sono le priorità del territorio e se davvero si lotta per eliminare gli sprechi». Temi che coerentemente dovrebbero essere oggetto da parte sua di utili interpellanze, scambiato cappello, in consiglio comunale a Brembio.
Ho detto della presenza del segretario regionale democrat Maurizio Martina. Paese che vai, parole di circostanza le trovi, talvolta inquietanti. Dopo aver affermato apoditticamente che «anche a livello regionale il tempo della propaganda leghista è finito», aggiunge: «Il Pd lombardo è pronto a fare la sua parte guardando anche al modello lodigiano, un mix di forte identità del partito e di apertura alla società civile», il mix che ha portato Guerini a riconfermarsi in comune a Lodi. Certo, dopo l'esperienza del bitrombato Penati qualunque cosa può andar bene. E poi, va riconosciuto, Guerini finora, come presidente della provincia prima e poi come sindaco, non ha mai perso. Che il Pd dovunque in Lombardia soffra la presenza della Lega, che al partito di Bersani porta giorno dopo giorno via voti da sinistra, e non è un paradosso, lo testimoniano anche le parole del consigliere regionale lodigiano Fabrizio Santantonio riportate dal cronista: «Prima di tutto c'è la sfida alla Lega sul terreno della concretezza, smascherando le sue affermazioni sempre senza seguito». Poi verrà tutto il resto. Quando verrà.
E veniamo alle risposte a stretto giro di giornale da parte del presidente della provincia Pietro Foroni e di alcuni membri della sua giunta. Cambia il giornalista, è la volta di Alberto Belloni. Dice Foroni: «Non mi stupiscono la critica, diritto sacrosanto della minoranza, e nemmeno il momento in cui è uscita, visto che proprio nei giorni scorsi erano stati i militanti stessi del Pd a suonare la sveglia ai loro rappresentanti. Resto perplesso invece di fronte ai "non contenuti". È sintomatico che ci accusino di non fare nulla, proponendo il nulla: troppo facile sparare a caso senza mettere sul piatto proposte concrete, suggerimenti. Del resto, alla scarsità di programmazione e concretezza, il centrosinistra ci aveva abituato nei cinque anni precedenti». Quanto all'accusa di mettere a rischio centinaia di posti di lavoro con la polemica sui prodotti dello «speciale Ramadan» all'Auchan, rivoltagli da Concordati, Foroni ricorda il proprio «coraggio di battermi per le mie idee e per i miei principi, difficilmente comprensibile a chi accetta che il mondo vada come qualcun'altro decide» e spiega al giornalista come proprio il suo impegno «per ottenere tempi record per il ponte provvisorio e per quello definitivo sul Po» sia stata una concreta risposta all'auspicio dell'Auchan «di salvare i posti di lavoro».
Quanto alle affermazioni del consigliere democrat Canova, Foroni afferma: «Credo che resterà con il cerino in mano leggendo i giornali e apprendendo di quattro opere pubbliche in partenza contemporaneamente». Sono come ricorda il cronista del Cittadino, la tangenziale di Livraga, le rotatorie di Bertonico e alla Malpensata e le manutenzioni sulle ciclabili. Foroni, poi, aggiunge: «Eppure solo qualche settimana fa l'assessore Devecchi aveva annunciato una pioggia di milioni per opere su strade ed edilizia scolastica, frutto di una saggia programmazione: con lo straordinario piano di opere pubbliche, infatti, non siamo che all'inizio». La stessa Nancy Capezzera, assessore alla viabilità, risponde nell'articolo, attaccando gli schemi viabilistici condivisi, che erano uno dei «simboli della passata amministrazione», «un metodo che incarnava il libro dei sogni, tanta condivisione di idee e zero progetti realizzati: anche i sindaci non vedevano l'ora che venisse modificato». Libro dei sogni di cui anche a Brembio si sa qualcosa quanto a mancate realizzazioni. E cita per contro l'imminente partenza dei lavori della tangenziale di Livraga.
Alle parole, quelle della «pizzeria», della consigliera Fusar Poli è l'assessore al bilancio Devecchi a rispondere: «Visto che banalizza l'argomento al fatto che noi si mangi in pizzeria e non al ristorante, le specifico che l'argomento è un altro: noi si mangia a spese nostre».

giovedì 9 settembre 2010

Malessere

Grillini e popolo viola prima, centri sociali poi, sinistra dell'antipolitica e sinistra radicale, irrompono a Torino alla Festa nazionale del Pd: cosa sta succedendo al partito di Bersani al punto da non incutere più al popolo della sinistra quel mitico rispetto che un tempo il Pci, comunque, riusciva a mantenere? Dopo le proteste verbali contro il presidente del Senato Renato Schifani, la volta del sindacalista Angelo Bonanni, accolto dai centri sociali prima con fischi, urla - «Il denaro è un buon servo e un cattivo padrone», «Marchionne comanda e Bonanni obbedisce» - e lanci di banconote finte, poi raggiunto da un fumogeno che gli ha bruciato il giubbotto senza però ferirlo. Ed Enrico Letta, così come Fassino, sbigottito a gridare: «Voi non avete niente a che fare con la democrazia. Siete il contrario di cui ha bisogno il Paese. Siete antidemocratici». E il commento successivo del segretario Pierluigi Bersani: «Si è trattato di un atto di intimidazione e di vera e propria violenza, un attacco squadrista. È inconcepibile che una festa popolare, che vive nel pieno centro della città, possa essere attaccata in questo modo. Attendiamo di conoscere dal ministero dell'Interno quali misure preventive e repressive siano state prese per impedire un episodio del genere». Certo, si tratta, come ha detto il presidente del Senato, di un intollerabile gesto che nega la democrazia e che deve essere assolutamente condannato, ma una riflessione il Pd dovrebbe farla alla fine.
C'è un evidente malessere diffuso in quel partito. Traspare dalle dichiarazioni dei leader, dei più autorevoli portaborse, dei tanti amministratori che infoltiscono le fila della dirigenza ad ogni livello. Traspare dalle numerose dichiarazioni di militanti che le televisioni hanno mandato in onda, come cronaca e come colore, dopo i fattacci, quel «alla festa dell'Unità non sarebbe successo» sentito più e più volte da compagni di sempre che vivono male, oggi, quel prefisso «ex» che all'epiteto si è soliti attaccare.
L'impressione è che la creazione del Pd con quel distacco netto dalla sinistra voluto da Veltroni come preciso calcolo politico per far scomparire definitivamente dalla politica parlamentare gli ex alleati scomodi dell'Unione, che avevano portato sì ad una vittoria ma anche al rapido tracollo, abbia avuto alla fine un costo importante per il partito, quello di metterlo in una sorta di «cassa integrazione» politica in attesa di una collocazione futura, non si sa quando, non si sa dove. Senza una leadership spendibile, tant'è che Vendola non a caso si propone come in Puglia a fare da Mosè verso la terra promessa d'un governo duraturo. Senza un progetto concreto innovativo. E non si dica il contrario. Basta leggere ogni dichiarazione dove si parla di mani vuote e d'una ricerca d'un qualcosa, che dia un minimo d'identità, d'avviare; sempre, dal livello alto della segreteria al livello più basso del piccolo insignificante dirigente di provincia. Ed un distacco, poi, sempre più crescente dai cittadini, dalla loro quotidianità, dai loro bisogni; da una società in continua frenetica evoluzione, accecati da un esiziale antiberlusconismo ed internamente da torbidi giochi di corrente.
Luca Canova è un consigliere della minoranza Pd nella Provincia di Lodi. Nel suo blog scrive sullo «stato dell'arte» del partito considerazioni particolarmente degne di attenzione. La sua analisi parte dal tema del giorno, l'ultimo coniglio dal cilindro sul tema della «distruzione» di Berlusconi, Futuro e Libertà, ma ritrovando analogie sul modo di interpretare l'attuale società italiana, o meglio sull'incapacità ad interpretarla, arriva inevitabilmente a parlare del suo partito. Scrive Canova: «"Il Pd è nato per unire due riformismi", si diceva qualche tempo fa, dimenticando generosamente che sia la sinistra sia i centristi hanno rappresentato oggettivamente anche un asse conservatore, in Italia. Le circonvoluzioni in cui si dibatte il Pd ne sono la miglior conferma: anziché unire il meglio del contenuto riformista dei partiti originari (che so: la vicinanza ai lavoratori dei Ds e la solidarietà sociale della Margherita) ci si confronta e contrasta sul peggio di antiche eredità (che so: una certa ingordigia democristiana per cariche pubbliche e un incomprensibile culto della personalità per l'area ex Ds). Risultato: un risottone sciapo che non piace nemmeno ai militanti più convinti». E prova a dare una risposta all'ovvia domanda del perché accada: «Perché anche nella sinistra prevale un conservatorismo e un conformismo di fondo che rende automaticamente eretica e degna di ostracismo qualsiasi proposta coraggiosa o che ponga con coraggio i problemi e le soluzioni. Si guardi alla questione dei DICO, oppure il caso Englaro, o le leggi sui diritti di coppia, sulla RU 486 ma si guardi soprattutto alle leggi approvate su questa scia ideologica sanfedista». E correttamente pone la domanda: «Come si può pensare, ragionevolmente, di essere "alternativa politica" se non si propongono soluzioni politicamente alternative?». Molto giusto.
E Canova si risponde: «Non si può, e infatti si perde. Risultato ovvio di una strategia che è in sé perdente, che insegue il mito di un ceto medio moderato che non esiste e che, se esiste, ha già scelto con convinzione la peggiore destra europea, come a suo tempo non storse bocca di fronte all'operetta mussoliniana, agli attentati di Cosa Nostra, al baratro dell'opera pubblica. Un ceto medio moderato che esiste solo nella testa di politologi da salotto; non esiste ceto medio in Italia, se per ceto medio si intende una borghesia laica, acculturata, liberale ed europea. E non esiste alcuna moderazione in quel grumo sociale che a tale classe sociale si avvicina, ma solo un feroce e rozzo estremismo». Ed inevitabilmente conclude: «Noi, inseguendo questo mito, abbiamo perso consenso e credibilità».
Uno dei miti oggetto del dibattito nel Pd è la cosiddetta «vocazione maggioritaria». Che cosa significhi il termine ce lo spiega Piero Fassino intervistato alcuni giorni fa da Europa: «La vocazione maggioritaria significa che il Pd deve avere un consenso largo ma che non è esclusivo e che ha la capacità di guidare una coalizione. Nessuno ha mai pensato di poter prendere il 51 per cento». Con una simile visione del «compito» è evidente che, come dice Fassino, «il nodo delle alleanze è ineludibile. In tutta Europa il modello bipolare è pluripartitico: in Italia non ci sono due partiti ma due coalizioni».
A smuovere di nuovo in tal senso le acque è stato recentemente Veltroni. «Note nostalgiche comprensibili, visto che ha legato la sua esperienza di leader a quella stagione. Ma la vocazione maggioritaria è una politica abbondantemente sperimentata e purtroppo abbondantemente sconfitta. Se l'interpretazione di Veltroni è questa, è un ritorno all'indietro», commenta Nicola Latorre, voce dalemiana e vicepresidente dei senatori del Pd, intervistato da Il Mattino. Latorre spiega: «La nostalgia per un sistema bipartitico è legittima, ma la pratica è stata archiviata dal congresso e dai fatti. E i congressi non si fanno per perder tempo. Lì si sono confrontate diverse ipotesi di legge elettorale e l'indicazione è stata chiara: serve un sistema che restituisca ai cittadini la scelta dell'eletto, non faccia arretrare dal sistema dell'alternanza, non istituzionalizzi un bipartitismo rifiutato dalla società italiana». Insomma non volendo vedere al proprio interno, nel vuoto di proposta, la causa della sconfitta, si «inventa» che la legge che ha eletto Prodi «interrompe il rapporto tra elettore ed eletto» - pareva a tutti allora che qualcosa non quadrasse - ma soprattutto quella legge «nasce come legge di una maggioranza imposta ad una minoranza». Vero, ma la «porcata» di Calderoli era tanto una porcata che ha fatto vincere alla sua prima applicazione l'avversario della sua coalizione.
C'è, poi, la questione della leadership. Figure come i sindaci di Torino e di Firenze, Chiamparino e Renzi fanno scuola e rilanciano velleità di altri. Anche dalle nostre parti dove sembra concretizzarsi il progetto all'interno del Pd di una corrente di sindaci e amministratori. Ambizioni di salita nel ranking del partito si attribuiscono a Guerini, sindaco di Lodi, che si schermisce: «Ho un impegno come sindaco di questa città e intendo portarlo avanti». E poi è uno che dice: «Ci vuole un grande progetto per l'Italia e un rinnovamento. Il partito non abbandoni la sua vocazione maggioritaria e non si perda in formule troppo tattiche che fanno perdere uno slancio di programma», che non pare proprio in linea con la segreteria Bersani. E ancora: «Certo il tema delle alleanze non si può eludere, ma io credo che sia necessario fare uno scatto in avanti. Proporre Fini come nostro possibile alleato credo non sia in linea con la missione che ci siamo posti quando abbiamo iniziato l'avventura del partito democratico. Il problema non è quindi mettere insieme tante forze, ma ragionare su un progetto riformista e maggioritario; in questa logica dovremo attrezzarci visto che potremmo non farcela, però ritengo che la direzione sia quella giusta». C'è chi, come Colizzi, presidente del consiglio comunale di Lodi, alla «corrente» dei sindaci ci crede, augurandosi che il Pd a livello nazionale «possa davvero valorizzare gli amministratori che valgono», come nel caso di Guerini. «Non essendoci più le scuole dei partiti, ora sono gli enti locali le vere palestre della nuova classe dirigente», sostiene Colizzi. Sperando che non sia un abbaglio estivo.

mercoledì 8 settembre 2010

Il balletto

«Non siamo inglesi. Ma ciò non giustifica il balletto - maggioranza, opposizione, Presidenza della Repubblica - che da noi, va in scena ogni volta che si profila una crisi di governo», scriveva Piero Ostellino qualche settimana fa sul Corriere della Sera. E aggiungeva: «Né assolve i media che fanno il tifo per le parti in conflitto e tirano il presidente della Repubblica per la giacca, fingendo di difenderne ovvero di discuterne le prerogative». Insomma, dice Ostellino, «le istituzioni fanno acqua da tutte le parti. Se non le si adegua allo "spirito del tempo" la macchina dello Stato va fuori giri».
Quale sia il nocciolo della questione, è presto detto: «L'articolo 1 della Costituzione recita: "La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione". Non spetta agli eletti dal popolo, che ne hanno solo l'esercizio, porre limiti alla sovranità popolare. Che non deve trovare nelle procedure un ostacolo, bensì la propria piena realizzazione. Il soggetto è la sovranità, non sono le forme e i limiti nei quali il popolo la esercita». Dice Ostellino: «È quanto aveva presente Costantino Mortati - il grande costituzionalista che aveva messo in bella calligrafia una Carta pasticciata - quando parlava di prassi (ciò che noi, oggi, chiamiamo impropriamente "Costituzione materiale"). Che egli non intendeva in contrapposizione alla "Costituzione formale", ma a sua integrazione».
Nella realtà delle cose, sottolinea il notista, i guai arrivano dal fatto che «il nostro sistema istituzionale è una parodia delle monarchie costituzionali dell'Ottocento, quando il re aveva l'ultima parola e la democrazia rappresentativa faceva i primi passi. La parte del re la fa il presidente della Repubblica in un contesto politico che non è lo stesso in cui operava la monarchia. Ma le sue "prerogative", in quanto tali, finiscono con avere persino un margine di discrezionalità più ampio dei "poteri" codificati del sovrano». Ostellino spiega: «Innanzi tutto, il re era ritenuto "sopra le parti", anche se, poi, non lo era affatto. Non è così per il presidente della Repubblica. Per il solo fatto di essere appartenuto a una parte politica, che lo ha indicato e votato, egli è inevitabilmente percepito come "uomo di parte". Del resto, di parte, e non di rado, lo sono stati - più o meno esplicitamente - tutti gli inquilini del Quirinale. In secondo luogo, la sua stessa funzione di "filtro" del processo legislativo - che esercita rimandando alle Camere i progetti di legge per vizio di costituzionalità - finisce con essere percepita, più che una garanzia, un'indebita interferenza nell'attività del governo e sull'indipendenza dello stesso Parlamento».
Il notista del Corriere confronta il nostro sistema con quello inglese, dove «nessuno potrebbe insinuare che la regina congiuri contro il primo ministra in carica». Tra le molte differenze che vengono elencate, vi è anche quella che in Inghilterra è il primo ministro che decide di verificare se nel Paese gode ancora del consenso che ha perso in Parlamento, di sciogliere le Camere e indire nuove elezioni. «Chi, da noi, ha proposto un siffatto sistema istituzionale è stato tacciato di fascismo dai custodi della (ben scarsa) sacralità istituzionale», è il netto commento di Ostellino, che aggiunge: «I giornali fiancheggiatori del centrosinistra - che teme di perderle - sono contro eventuali elezioni anticipate e a favore di una maggioranza parlamentare alternativa a quella uscita dalle urne. Peccato che dello stesso avviso non siano quando in gioco è un governo diverso, ad essi gradito. Dicono che il sistema parlamentare puro, senza vincolo di mandato, sarebbe una garanzia per l'indipendenza dei parlamentari rispetto alle oligarchie dei partiti. Peccato che la realtà sia opposta. L'articolo 67 della Costituzione - "Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato" - esautora il popolo della sua sovranità, in quanto ne affida l'esercizio alla discrezionalità dei suoi rappresentanti, conferendo istituzionalmente un carattere elitario, oligarchico, trasformista e autoritario alla democrazia rappresentativa così intesa». Verissimo.
Ma l'articolo di Ostellino contiene un passo illuminante sulle vicende di quest'ultimo mese e mezzo, che riguardano la condotta istituzionale dell'on. Fini. Scrive Ostellino: «Nei sistemi istituzionali anglosassoni, chi presiede i lavori di un ramo del Parlamento è lo Speaker. Il suo è un "lavoro" - his o her job, si dice della sua funzione - che consiste nel dare la parola a chi la chiede. È del tutto impensabile che si metta in concorrenza con il primo ministro, costruisca un proprio gruppo parlamentare distinto e promuova "politiche" diverse da quelle del governo. Se lo Speaker della Camera dei Comuni inglese lo facesse, nessuno ne chiederebbe le dimissioni. Finirebbe in manicomio».
Secondo il notista del Corriere, «a difendere il sistema istituzionale vigente sono rimasti gli epigoni di oligarchie politiche e sociali fondamentalmente ostili alla democrazia liberale. Gente convinta che la democrazia non debba essere "il governo del popolo" - ancorché esercitato dai suoi rappresentanti - ma la Repubblica dei filosofi di Platone, lo Stato etico di Hegel, la "volontà generale" di Rousseau, la "avanguardia del proletariato" marxista-leninista. È la Reazione, malattia senile del progressismo».
Ancora un brano dell'articolo di Piero Ostellino va raccolto per evidenziare l'assurdità nel centrosinistra di un atteggiamento politico propagandato dall'alto e accettato dalla base militante acriticamente. Dice Ostellino: «Avevo sempre pensato che il (solo) modo di cambiare i governanti senza spargimento di sangue fossero, in democrazia, le libere elezioni. Ma pare che molti non la pensino così. I miei lettori di sinistra (...) vogliono cacciare Berlusconi, ma aggiungono anche di non voler votare. Contano, se cade il governo, che il presidente della Repubblica non indica nuove elezioni e confidano nelle "manovre" parlamentari dell'opposizione. Un singolare caso di abdicazione alla propria sovranità!». Davvero! Ma Ostellino va giù ancora a ragione più duro: «Mi chiedo se, di questo passo, non arriveranno a volere l'abolizione delle elezioni quando ci fosse la prospettiva che a vincerle siano "gli altri"». Basta girare un po' per le piazze dei piccoli borghi, dove si presidia per il partito, per capire che una tale volontà non ci metterebbe due minuti a concretizzarsi, magari anche per le comunali.

martedì 7 settembre 2010

Padania e Terronia

Parlando dell'on. Gianfranco Fini e delle ultime vicende che scuotono la politica italiana, non si può far finta che la vicenda della casa di Montecarlo non esista, forse non tanto per il fatto in sé, che se confermato non sarebbe altro che un malaffare dei tanti della politica nostrana, quanto per il modo con cui è stata ed è, ancora martedì nell'intervista rilasciata a Mentana, gestita. Sprezzante soprattutto verso quella sovranità popolare di cui ci si erge a baluardo, che ha tutto il diritto di avere da chi ha votato una parola chiara subito e non alle calende greche della magistratura. Non si può far finta che non esista, ma chiudiamola lì con le parole di Luciano Sardelli, deputato di Noi Sud che in un'intervista di quasi un mese fa, rilasciata a Il Giornale, lapidariamente sintetizzava: «No. Non ha chiarito un bel nulla. La storia fa acqua dall'inizio alla fine. Viene venduto un appartamento a Montecarlo, ma viene venduto a una società offshore. chi c'è dietro questa società? E come mai il prezzo è così basso? E perché An rifiuta offerte ben più allettanti? E poi non credo proprio che Fini non sapesse nulla della destinazione finale della casa. Ci abita il cognato e lui casca dalle nuvole. Imbarazzante». Una situazione «più grave di quella che ha portato Scajola alle dimissioni per la casa al Colosseo. Qui c'è un'operazione ben più complessa», aggiunge Sardelli, che nel 1996 fu schierato da Pinuccio Tatarella per contrastare Massimo D'Alema nell'inespugnabile Gallipoli e ci andò vicino con il 45 per cento dei voti.
L'evocazione del deputato di Noi Sud non è a caso, soprattutto per una frase dell'intervista, «Fini non ci rappresenta più», che se ha nel contesto un riferimento al suo ruolo istituzionale, può, vista la connotazione politica dell'onorevole Sardelli, offrire lo spunto per una sua estensione più ampia, per così dire, territoriale. Nel discorso di Mirabello, a leggerlo attentamente, risulta evidente che Fini si propone come leader di una sorta di Lega Sud contrapposta a Bossi. Del resto già, per così dire, in tempi non sospetti, ai primi di agosto, Gaetano Quagliarello, vicepresidente dei senatori Pdl, in un'intervista al Sole 24 Ore, evidenziava l'evidente: «È chiaro che un centro autonomo cercherà di configurarsi come partito del Sud. Perché lì l'elettorato è più mobile, dunque, è un terreno di sfida che vale molto. E loro cercheranno di schiacciarci sulle posizioni della Lega per accreditarsi come i nuovi interlocutori, in nome dell'unità nazionale». Quagliarello dichiarava quindi la volontà del Pdl di non essere la vittima sacrificale di tutta la vicenda, «Ma non ci faremo scippare questa battaglia. Solo il Pdl ha una connotazione nazionale», ed elencava le difficoltà della battaglia: «Certo, dovremo calibrare la giusta richiesta di una parte dell'opinione pubblica del Nord, insofferente a un abuso di spesa pubblica, con un cambiamento del Sud. Ma non si può fare con un colpo di bacchetta magica: la spesa usata come ammortizzatore sociale, spesso si è trasformata in diritti che è difficile eliminare. Dovremo lavorare su politiche contrattuali territoriali, fiscalità di vantaggio».
Un disegno, quello paventato, ormai alla luce del sole. Sud contro Nord, la troica Fini-Rutelli-Casini contro Bossi sul cadavere di Berlusconi? Fantapolitica, anche se ha il fascino di uno sviluppo possibile. Si andrà al voto. Quando parla di patto di legislatura, Fini non è credibile, lo stesso tono della voce lo tradisce, a Mirabello, da Mentana al Tg de La7. Si sente che è finto, recitato, per far credere alla gente, che lo ha votato come cofondatore del Pdl, un «non vi manco di rispetto, non sono io il primo che ha tirato il sasso». Ma se dal voto, che con molta probabilità ci sarà, uscisse un Senato come quello che ha affondato Prodi? Il Partito della Libertà è l'unico partito dello Stivale realmente nazionale ed unificante. Morto, che succederà? Si festeggeranno i centocinquanta anni di unità ritornando ai confini del dopo 1943, cancellati dalla vittoria alleata? Spaccando definitivamente l'Italia in due? Padania e Terronia? Così come la sta mettendo Fini, il campione senza valore dell'unità nazionale, è una prospettiva che si sta materializzando all'orizzonte, una nebbiolina impalpabile che può all'improvviso diventare consistente. Ma certamente, diciamolo per tranquillizzare, se si ha fiducia nella gente italica, che mostra di sapersi «governare» molto meglio di quanto sanno fare i suoi politici, si possono dormire sonni tranquilli, e classificare simili ipotesi come mere fantasie.

lunedì 6 settembre 2010

Piccole patrie

Qualche settimana fa Luca Zaia spiegava su La Padania la nuova Carta fondamentale del Veneto, uno statuto incentrato su due parole d'ordine: federalismo e identità. Nell'intervista di Alvise Schiavon, il governatore veneto rispondeva alle polemiche suscitate dalla bozza del documento preparata da Pdl-Lega Nord, particolarmente legate a indicazioni che avvantaggerebbero chi dimostra un particolare legame con il territorio. A tali critiche, Zaia rispondeva: «Ci siamo presentati in campagna elettorale con un programma ben preciso. Anzi, lo slogan che ci rendeva riconoscibili dagli altri candidati era, appunto, "Prima il Veneto". Perché avremmo dovuto deludere le aspettative dei cittadini che ci hanno votato - oltre il sessanta per cento degli elettori veneti - cambiando le carte in tavola? Poi, mi sembra che l'indicazione di principio contenuta in quella frase sia di assoluto buon senso. Sfido chiunque a non voler portare avanti gli interessi del proprio territorio e di chi lo abita e contribuisce al suo sviluppo. Questo vale per la Campania di Caldoro o l'Emilia Romagna di Errani. La Puglia, tanto per citare, aveva previsto il finanziamento di master all'estero per i giovani, a patto però che questi tornassero per mettere a frutto le competenze acquisite a vantaggio della propria terra. Non è una posizione egoistica, ma il riconoscimento che non può esistere un territorio senza una comunità che lo animi e lo faccia crescere. E infatti nella bozza c'è scritto: "Il Veneto è costituito dal popolo veneto e dal suo territorio". Quindi quella comunità va aiutata e sostenuta».
A chi accusa lo statuto di razzismo e discriminazione, Zaia ricorda la terza parte dell'articolo 4: «La Regione, in conformità con la tradizione storico-culturale cristiana del suo popolo, con le proprie tradizioni di libertà di scienza e di pensiero e di laicità ispira la propria azione ai principi di eguaglianza e di solidarietà nei confronti di ogni persona di qualunque provenienza, cultura e religione. Promuove processi di partecipazione e di integrazione nei diritti e nei doveri, rifiutando pregiudizi e discriminazioni e considerando come valore fondamentale la pacifica convivenza dei popoli».
Ma c'è un'altra parte dell'intervista pubblicata da La Padania, che risulta interessante da annotare e riguarda il progetto delle «piccole patrie». Dice Zaia: «Ricordo una battuta dello studioso di autonomismo Gilberto Oneto, chiarissima e molto efficace: "Quando si vuole costruire una matrioska si deve per forza partire dal pezzo più piccolo". Questo significa avere il coraggio della visione, immaginando un progetto europeo alternativo a quello perseguito fino ad oggi. Un progetto che si fondi, appunto, sul principio delle piccole patrie ridefinendo in modo graduale gli assetti internazionali che hanno prevalso finora. È in questo modo che potremo costruire una alternativa allo sradicamento e alla mondializzazione in atto a livello globale, ed anche a livello europeo, evitando al contempo quei fenomeni di nazionalismo che hanno portato in passato a conflitti sanguinosi. Credo che un percorso diverso dal centralismo degli Stati-nazione sia non solo possibile ma necessario. Ecco il perché del mio riferimento [ampio nell'intervista] alla Catalogna e a tutte le autonomie che, nei diversi paesi europei, hanno ormai una storia antica e solida e che contribuiscono, con la loro identità, allo sviluppo di tutta la nazione. Il Veneto può diventare veramente, ed è questo lo spirito della bozza di Statuto, l'avamposto di modernità dell'Italia intera». E, dunque, un occhio di riguardo va riservato al Veneto, regione che vuole essere l'avanguardia di quell'Europa dei popoli che è il nostro futuro.

domenica 5 settembre 2010

Di male in peggio

Il tamtam insistente di questi tempi sulla necessità della modifica della legge elettorale in realtà nasconde altre necessità, diverse per i diversi sostenitori della riforma. Se ne discute oggi, perché nel 1993, sull'onda di tangentopoli una battaglia referendaria, sostenuta particolarmente da chi vedeva in essa, allora come oggi, una possibilità di stabilirsi saldamente al potere, affossò la vecchia legge elettorale, che se non aveva garantito la certezza di un governo per tutta la legislatura, permetteva almeno al Parlamento un ruolo centrale nell'attività legislativa e di controllo dell'esecutivo. I sostenitori del maggioritario dicono che quello sciagurato referendum «tracciava la giusta direzione per un nuovo sistema elettorale che attribuiva agli elettori il potere di scegliere i loro parlamentari». Ma non dicono che esso ha portato ad un regime bipolare tanto esiziale per il nostro paese, che allontanando i cittadini dalla politica, o meglio allontanando la politica dai reali bisogni dei cittadini, alla fine ne causerà la dissoluzione.
Modificata una volta la legge secondo i propri bisogni, la strada per i partiti di adattamento dello strumento alle proprie esigenze è stata spalancata.
Secondo i sostenitori della modifica il fattaccio non sarebbe avvenuto già nel 1993, ma nel 2005 quando la coalizione Berlusconi-Bossi l'affossò e la rimpiazzò con una nuova legge. Dicono: «La legge elettorale varata da Berlusconi toglie ai cittadini il diritto di scegliere i parlamentari e lo trasferisce alle oligarchie dei partiti, attraverso lo strumento delle liste bloccate. Il risultato è un Parlamento composto da signorsì, la cui rielezione dipende non dalla volontà dei cittadini, bensì da interessi organizzati che hanno il potere di alterare le regole democratiche a proprio beneficio. Non sorprende che la legge sia stata definita una "porcata" subito dopo che era stata varata dal suo stesso ideatore, il ministro Calderoli».
Poiché per lo più il tamtam proviene da sinistra, si dimentica, va evidenziato, di dire che proprio quella legge iniqua, quella «porcata» così definita anche dal suo ideatore, il leghista Calderoli, che favorirebbe sfacciatamente la sopravvivenza di Berlusconi, perché questo è il motivo di fondo, ebbe alla sua prima applicazione la «sventura» di far vincere Romano Prodi e la sua esiziale armata Brancaleone dell'Unione. Veltroni successivamente ha dimostrato che senza l'impossibile Unione non si può conquistare il potere, né con né senza gioiose macchine da guerra, in un'Italia che ha scelto il centrodestra a guidarla e dà fiducia all'odiato nemico, l'«ottavo nano», l'uomo di Arcore, il Cavaliere Nero, Berlusconi insomma. E, dunque, se lo strumento non permette al momento Prodi di sorta, va sostituito con altro, che almeno offra una chance tarpando le ali all'avversario e alle sue televisioni. Insomma il referendum del 1993 ha aperto la strada a leggi truffa nel nome del diritto del cittadino di scegliersi, giustamente, chi lo rappresenta.
Ma è proprio l'ultimo «parvenu» del cambiamento che a Mirabello ha evidenziato la cifra dell'ipocrisia della questione dicendo: «La sovranità popolare significa che le elettrici e gli elettori devono avere il diritto di scegliere i propri parlamentari, perché è vergognoso che ci sia una lista prendere o lasciare». Davvero? Ma mi dica l'on. presidente Fini dove sta l'oltraggio? Se il partito, cui tendenzialmente darei il voto, mi presenta una lista di impresentabili, mica mi ritrovo una pistola alla tempia in cabina elettorale che mi obbliga a votarla; posso non votarla e votare un'altra lista che mi dà maggiore affidamento quanto a candidati, oppure posso non votare affatto, o se voglio mandare istericamente a fare in culo tutti quanti annullando la scheda. Perché nel caso che si sponsorizza di questi tempi così animatamente, non è che io possa votare il mio vicino di casa; posso solo scegliere, se non sono fan di qualcuno, al più il meno peggio in una lista comunque fabbricata dal partito, e se si andasse all'uninominale non mi si dica che la pagliacciata delle primarie risolverebbe. La lista «prendere o lasciare», quanto a Fini, non sta bene perché non ha ancora deciso se tagliare o no il cordone ombelicale con i suoi ex colonnelli. Perché ritrovarsi, poi, fuori lista per ritorsione postuma, non è cosa furba da accettare.
La verità è che chi ha un progetto serio ed una reale volontà di mettersi al servizio del paese, non ha il problema di nascondersi dietro una falsa priorità qual è quella, contrabbandata tale, della legge elettorale, che oltretutto serve a nascondere la propria nullità politica. E lo dicono anche, che l'obiettivo è un altro: «Mobilitiamoci ora che è stata formata una forte coalizione per cambiare la legge elettorale, altrimenti il rischio è di andare nuovamente alle elezioni con la "legge porcata" e di ritrovarci altri 5 anni di governo Berlusconi, mettendo così definitivamente in pericolo la nostra democrazia». Già, l'obiettivo è solo uno, impedire a Berlusconi di vincere ancora. E, così come è stato fatto per il referendum costituzionale, mobilitare la gente su falsi obiettivi - è stato allora dimostrato - è estremamente vantaggioso.
L'aver modificato nel 1993 l'allora legge elettorale è stato un fallimento. Questa è la realtà delle cose, l'unica verità che può essere propagandata. Un ritorno al proporzionale è però impossibile, perché proprio chi oggi maggiormente fa la voce grossa sulla modifica della legge elettorale sa che, se quella fosse la legge, come partito si dissolverebbe in un batter d'occhio. Non scherziamo, dunque, sulla democrazia, quella vera e se si vuole sconfiggere Berlusconi si dia veramente mano ad un progetto che metta realmente il cittadino al centro e lo Stato al suo servizio.

Per la sua strada

Nella politica italiana c'è un «convitato di pietra». Indubbiamente, la Lega. L'uso che i media fanno del partito di Bossi va dallo sbeffeggio a Berlusconi al babau agitato per intimorire l'elettorato sullo sfascio di questo paese massonico che celebra i suoi centocinquanta anni. Il problema è che la Lega non dà cibo ghiotto per il gossip. Le parolacce e le uscite demenziali di Borghezio o di Salvini durano al più lo spazio della colazione di primo mattino, il linguaggio da bar non fa più notizia perché ormai è di uso comune. Anche il Trota non richiama più gli appassionati della presa in giro. Insomma, quel partito, un partito che continua a crescere quanto a consenso della gente, non interessa più di tanto alla carta stampata. Non una escort, non una casa in posti chic, niente fashion né pulp. E poi è gente che non molla una lira alla provocazione. Se a Cota chiedeste chi sarebbe il nemico, il primo avversario nel caso di un voto anticipato, il Pd, i finiani o chi altro, vi risponderebbe: «Ma la Lega va sempre per la sua strada. Questa è la sua forza. Non è mai contro qualcosa o qualcuno, ma per costruire qualcosa. E noi abbiamo la coscienza a posto, perché lavoriamo nell'interesse della gente». O magari, sull'affair Fini gli ricordereste il detto "dai nemici mi guardo io, dagli amici mi guardi Iddio", vi direbbe: «Diciamo che in politica c'è la politica con la "P" maiuscola, fatta di ideali, e c'è una politica con la "p" minuscola che è fatta di cose un po' meschine. Ma questo non è il punto. Il punto è che in questo momento chi ha i voti sono solo due persone: Bossi e Berlusconi. Sono loro i due leader».
Lo stesso Bossi, di questi tempi, è di poche parole. Così ad esempio chiamato a commentare Famiglia Cristiana che bolla la riforma federale come secessionista: «Chi lo dice è uno scemo e ignorante». O del governo: «Non può tirare a campare. Deve fare le riforme. Non può restare nella palude». O su Fini: «Per quanto stupido uno possa essere non andrà mai con la sinistra»; e su Casini: «Per l'amor di Dio, abbiamo già altri casini...». E Calderoli, ormai, qualche battuta sì, per non perdere il vizio, tipo: «Il Nord se ne andrebbe in caso di colpo di Stato e il governo tecnico, nel caso, lo sarebbe». Ma preferisce parlare del federalismo: «Se a settembre chiudiamo con il decreto sui costi standard della sanità e quello sull'autonomia impositiva di Regioni e Province, avremo portato a casa il 90% della riforma», o ancora: «La riforma andrà avanti anche con un governo dimissionario». Per molti media «centralisti» spiegare che le dimissioni del governo non influiranno sul cammino del federalismo non è facile, e questo per la legge delega sul Federalismo e per la direttiva Prodi varata nel 2008, che permette di approvare i decreti legislativi legati alla legge delega , come i decreti urgenti, anche in caso di governo dimissionario o sfiduciato. E, dunque, meglio sorvolare.
Ma il problema del gossip è un grosso problema. È proprio Calderoli a sottolinearlo ad Alzano Lombardo: «Mi pare incredibile che certi argomenti si leggano non solo sulle riviste di gossip come Chi o Novella 2000 ma anche su Corriere, Repubblica e Stampa. Questo è un problema». E ancora, «Alla gente che non riesce ad arrivare a fine mese non interessa nulla delle case a Montecarlo o delle escort. E non è possibile far sembrare che tutta la vita ruoti attorno a Montecarlo. Questo è un brutto modo di far politica. Gli schiaffi sono volati, da entrambe le parti, ma adesso mi auguro che gli scontri, da una e dall'altra parte, siano messi nel cassetto. Ora torniamo a parlare di politica. Il peggior errore è stato quello di spostare sul piano personale il contrasto. E pensare poi di buttare tutto all'aria per questo. Il problema è che questi sono soltanto discorsi da Palazzo, ma se vai in un mercato e parli con la gente i cittadini ti dicono: ma sono matti a voler buttare all'aria tutto per dei contrasti personali? Per questo, dico, torniamo a parlare dei contenuti, di quanto stabilito nel programma sottoscritto con gli elettori. E chi non intende rispettarlo si assumerebbe la responsabilità di un tradimento davanti al popolo».
Niente gossip dalla Lega, dunque, ma contenuti e programmi. E serietà politica, nessuna maggioranza dalle porte aperte: no agli ondivaghi centristi dell'Udc «intanto perché non può esserci nessuna maggioranza al di fuori di quella che è venuta dal voto. La maggioranza se c'è si trova nella maggioranza. Diversamente si va al voto. E comunque no a qualunque ingresso dei democristiani, che possono chiamarsi Cesa o Casini. No, inoltre, perché non sono stati eletti dai cittadini che nel 2008 li hanno mandati all'opposizione scegliendo un'altra maggioranza. E no, infine, perché sono loro, i democristiani, i primi a voler fare la pelle a Berlusconi in prima battuta e alla Lega a seguire».
E poi, diciamocelo, come può interessare ai giornali della borghesia un movimento che irride l'ultima trovata anti-berlusconi e il suo miglior campione? Così Calderoli senza mezzi termini: «Il terzo polo? Con questa legge elettorale che ho scritto il terzo polo è fatto per fare il terzo pollo. Il manuale di trucchi di questa legge non l'ho tirato fuori, ma ce l'ho. Montezemolo? Se uno che è stato scacciato da Confindustria, scacciato da Fiat, che non riesce a far vincere la Ferrari, vuole venire a darci lezioni, siamo a posto...».
Basta gossip e basta fantapolitica. L'invito, insomma, che arriva dalla Lega è netto: «Ora torniamo a parlare di politica, torniamo a parlare di contenuti che interessano realmente alla gente».