Mario Palossi (Roma, 1956), autore di libri di poesia e racconti, ha pubblicato con le Edizioni Tracce di Pescara nel 1992 il racconto lungo “Lo sceicco e gli zingari”. Scrive Ubaldo Giacomucci nella postfazione: «… il racconto è … proiettato in una dimensione filosofico-esistenziale, l’allegoria è serrata per cui il protagonista è schermo/significante di un “oltre” che è “altro” del testo. D’altronde tutto il racconto è anche allegoria del nomadismo culturale (e – perché no? – ideologico e sociale) di questi anni, testimonianza felice di una vocazione della realtà all’incredibile, all’imprevisto, all’estasi. Come scrisse Picabia: “bisogna essere nomadi, attraversare le idee come si attraversa un paese o una città”.»
Può risultare intrigante per una lettura quanto l’autore stesso annota, datato 24 ottobre 1990, dopo il racconto: «Questo scritto è il risultato di un viaggio, anche se non proprio a tutti è dato (né a me per primo) conoscerne i termini reali. Mentre stilo queste ultime righe mi trovo a casa mia, ovvero nella mia italianissima tana. Purtuttavia, durante la stesura del racconto ho imparato a mie spese che esistono disagi più impegnativi del mio personale quotidiano.»
Ecco di seguito l’incipit e poco più del racconto.
Verona, Venezia, Trieste. A quest’ora dovrei trovarmi in Jugoslavia; non ho mai visto la notte scendere tanto in fretta; i divani e i pavimenti, le reti portabagaglio e i corridoi sono pieni di passeggeri semisdraiati. Russano profondamente. Se non fosse per la brezza settembrina che entra docile dai finestrini accostati e a tratti gonfia le tende parasole giurerei di trovarmi in Turchia.
Ma tant’è, il vecchio Maresciallo Tito è ormai morto, però, per quanto si sia adoperato non è proprio riuscito a dare al suo paese un aspetto occidentale.
Le lampade degli scompartimenti, vecchio tipo, oscillano paurosamente man mano che ci allontaniamo dall’ovest, e, affacciandomi nella corsia, noto che alcune di esse sono cadute, infrangendosi. Fortunatamente il treno cammina spedito, e all’alba dovrei già essere a destinazione. Ho scelto un luogo sconosciuto, non lontano dall’Italia per prudenza, o per paura, e non ho prenotato alberghi…
Se uno dei miei lettori volesse leggere il racconto trova una copia del libro su Unilibro.
Può risultare intrigante per una lettura quanto l’autore stesso annota, datato 24 ottobre 1990, dopo il racconto: «Questo scritto è il risultato di un viaggio, anche se non proprio a tutti è dato (né a me per primo) conoscerne i termini reali. Mentre stilo queste ultime righe mi trovo a casa mia, ovvero nella mia italianissima tana. Purtuttavia, durante la stesura del racconto ho imparato a mie spese che esistono disagi più impegnativi del mio personale quotidiano.»
Ecco di seguito l’incipit e poco più del racconto.
Verona, Venezia, Trieste. A quest’ora dovrei trovarmi in Jugoslavia; non ho mai visto la notte scendere tanto in fretta; i divani e i pavimenti, le reti portabagaglio e i corridoi sono pieni di passeggeri semisdraiati. Russano profondamente. Se non fosse per la brezza settembrina che entra docile dai finestrini accostati e a tratti gonfia le tende parasole giurerei di trovarmi in Turchia.
Ma tant’è, il vecchio Maresciallo Tito è ormai morto, però, per quanto si sia adoperato non è proprio riuscito a dare al suo paese un aspetto occidentale.
Le lampade degli scompartimenti, vecchio tipo, oscillano paurosamente man mano che ci allontaniamo dall’ovest, e, affacciandomi nella corsia, noto che alcune di esse sono cadute, infrangendosi. Fortunatamente il treno cammina spedito, e all’alba dovrei già essere a destinazione. Ho scelto un luogo sconosciuto, non lontano dall’Italia per prudenza, o per paura, e non ho prenotato alberghi…
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