Ogni discorso sul federalismo nel nostro paese, rischia spesso di essere un parlare tra sordi. Questo per una sorta di vizio originale dovuto al fatto che l’Italia dall’unità savoiarda in avanti è un’unica entità territoriale e che, dunque, il processo federalista deve risultare di fatto un processo di restaurazione in parte delle divisioni territoriali precedenti, almeno virtuale. È un processo, se volete, inverso al normale processo di federazione tra entità territoriali.
In generale, per federalismo si intende un'organizzazione di stati o di altri enti territoriali che si associano per conferire ad un'organizzazione sovranazionale, lo Stato federale, delle competenze e quindi dei poteri, rinunciando alla propria sovranità nazionale su di esse. Alcune organizzazioni autonome, cioè, si federano ritenendo più utile delegare alcuni dei propri compiti ad un'altra organizzazione, che se ne occupa per tutte le associate, nella convinzione che una struttura più grande possa svolgere meglio dei compiti, come la politica estera, la difesa o la gestione dell'economia. Per avere chiara la questione basti pensare all’Unione europea e al processo di integrazione degli stati europei.
Sostituire in Italia all’attuale organizzazione statuale centralista, seppure dopo la riforma del 2001 preveda una devoluzione regionalista, una organizzazione statuale federalista non è cosa semplice e dovrà necessariamente richiedere un intervento pesante di modifica costituzionale sull’organizzazione dello stato. Pertanto, in genere da noi il termine federalismo viene spesso usato impropriamente per rivendicare una maggiore autonomia delle Regioni, o di gruppi di Regioni, come potrebbe essere la Padania preconizzata dalla Lega Nord. Si tende a confondere cioè nei discorsi spesso un primo passo, quello della devoluzione, con l’obiettivo finale, e cioè lo smembramento territoriale in tre-cinque regioni ed la loro riaggregazione in una entità federale, non mancando di tenere d’occhio la possibilità di aggregazioni extranazionali, le euroregioni, previste dal processo di unificazione europea.
Per capire meglio, va sottolineato che la nostra repubblica finora è stata basata sul regionalismo, cioè su un sistema che prevede limitate autonomie delle Regioni, mentre allo Stato compete tutto quanto non è esplicitamente delegato alle Regioni. Il processo fondativo attualmente in atto è un processo di devoluzione, cioè un processo di riduzione delle competenze dello Stato e la loro contemporanea attribuzione alle Regioni e agli enti locali. La legge costituzionale 3/2001 è stato il primo provvedimento preso nella direzione della devoluzione. La legge ha ampliato i compiti delle Regioni, prevedendo un limitato ambito di competenze statali, quali, ad esempio, la politica estera, la difesa, la moneta, l’ordine pubblico, la previdenza. La riforma costituzionale bocciata esizialmente dal referendum, prevedeva ambiti esclusivi di competenza delle Regioni, come la scuola, la sanità, la polizia locale; e ridisegnava l'impostazione delle istituzioni statali, a cominciare dal Parlamento, nel cui ambito era previsto un Senato federale.
Il prossimo passo necessario, dunque, è quello di rimettere mano alla proposta di riforma bocciata strumentalmente con il referendum e portarla ad effetto e dare il via, contemporaneamente, al cosiddetto federalismo fiscale. Stiamo attenti, che anche l’uso del termine “federalismo” in quest’ultima etichetta è improprio. Federalismo fiscale è semplicemente la tendenza a spostare la tassazione dei cittadini dal centro alla periferia, cioè passare dai tributi pagati allo Stato, i tributi erariali, a quelli pagati alle Regioni, Province e Comuni, i tributi locali. Il vantaggio per i cittadini consiste semplicemente in un controllo più diretto sull'utilizzo dei tributi. Tuttavia resterebbe comunque il fatto che operando in un’ottica non federalista, ma centralista, l'intervento dello Stato resterebbe pesante per necessità vere o presunte di redistribuzione delle risorse in modo da superare troppo marcate differenze territoriali o settoriali indipendentemente dalla causa [spesso politica] scatenante la diversità o l’arretratezza, come già oggi avviene direttamente. Si pensi all’antico leit-motiv della questione meridionale o alla sanità del Lazio o al degrado attuale della Campania. Certo, è auspicabile che l’introduzione del cosiddetto “federalismo fiscale” sia accompagnato da una razionalizzazione del sistema impositivo con l’eliminazione o l’accorpamento di tutta una serie di balzelli in un’unica imposta da versare localmente. Un segno di intelligenza, ma anche di civiltà. Ma, al di là, dei reali benefici per le tasche dei cittadini, minimi se non si passa da una tassazione afinalizzata ad una tassazione di scopo, ciò che conta del provvedimento è che introdurrebbe un nuovo modo di considerare le cose, bottom-up, piuttosto che top-down, premessa necessaria nella nostra anomalia, per creare le condizioni “filosofiche” nel pensiero comune per il passaggio ad una realtà federale. Se si vuole uno slogan, ben venga ogni cosa che ci faccia avanzare di qualche metro in direzione del federalismo reale, perché come Catone il censore, quello del “Carthago delenda est” è utile continuare a ripetere che solo il federalismo salverà questo Paese.
In generale, per federalismo si intende un'organizzazione di stati o di altri enti territoriali che si associano per conferire ad un'organizzazione sovranazionale, lo Stato federale, delle competenze e quindi dei poteri, rinunciando alla propria sovranità nazionale su di esse. Alcune organizzazioni autonome, cioè, si federano ritenendo più utile delegare alcuni dei propri compiti ad un'altra organizzazione, che se ne occupa per tutte le associate, nella convinzione che una struttura più grande possa svolgere meglio dei compiti, come la politica estera, la difesa o la gestione dell'economia. Per avere chiara la questione basti pensare all’Unione europea e al processo di integrazione degli stati europei.
Sostituire in Italia all’attuale organizzazione statuale centralista, seppure dopo la riforma del 2001 preveda una devoluzione regionalista, una organizzazione statuale federalista non è cosa semplice e dovrà necessariamente richiedere un intervento pesante di modifica costituzionale sull’organizzazione dello stato. Pertanto, in genere da noi il termine federalismo viene spesso usato impropriamente per rivendicare una maggiore autonomia delle Regioni, o di gruppi di Regioni, come potrebbe essere la Padania preconizzata dalla Lega Nord. Si tende a confondere cioè nei discorsi spesso un primo passo, quello della devoluzione, con l’obiettivo finale, e cioè lo smembramento territoriale in tre-cinque regioni ed la loro riaggregazione in una entità federale, non mancando di tenere d’occhio la possibilità di aggregazioni extranazionali, le euroregioni, previste dal processo di unificazione europea.
Per capire meglio, va sottolineato che la nostra repubblica finora è stata basata sul regionalismo, cioè su un sistema che prevede limitate autonomie delle Regioni, mentre allo Stato compete tutto quanto non è esplicitamente delegato alle Regioni. Il processo fondativo attualmente in atto è un processo di devoluzione, cioè un processo di riduzione delle competenze dello Stato e la loro contemporanea attribuzione alle Regioni e agli enti locali. La legge costituzionale 3/2001 è stato il primo provvedimento preso nella direzione della devoluzione. La legge ha ampliato i compiti delle Regioni, prevedendo un limitato ambito di competenze statali, quali, ad esempio, la politica estera, la difesa, la moneta, l’ordine pubblico, la previdenza. La riforma costituzionale bocciata esizialmente dal referendum, prevedeva ambiti esclusivi di competenza delle Regioni, come la scuola, la sanità, la polizia locale; e ridisegnava l'impostazione delle istituzioni statali, a cominciare dal Parlamento, nel cui ambito era previsto un Senato federale.
Il prossimo passo necessario, dunque, è quello di rimettere mano alla proposta di riforma bocciata strumentalmente con il referendum e portarla ad effetto e dare il via, contemporaneamente, al cosiddetto federalismo fiscale. Stiamo attenti, che anche l’uso del termine “federalismo” in quest’ultima etichetta è improprio. Federalismo fiscale è semplicemente la tendenza a spostare la tassazione dei cittadini dal centro alla periferia, cioè passare dai tributi pagati allo Stato, i tributi erariali, a quelli pagati alle Regioni, Province e Comuni, i tributi locali. Il vantaggio per i cittadini consiste semplicemente in un controllo più diretto sull'utilizzo dei tributi. Tuttavia resterebbe comunque il fatto che operando in un’ottica non federalista, ma centralista, l'intervento dello Stato resterebbe pesante per necessità vere o presunte di redistribuzione delle risorse in modo da superare troppo marcate differenze territoriali o settoriali indipendentemente dalla causa [spesso politica] scatenante la diversità o l’arretratezza, come già oggi avviene direttamente. Si pensi all’antico leit-motiv della questione meridionale o alla sanità del Lazio o al degrado attuale della Campania. Certo, è auspicabile che l’introduzione del cosiddetto “federalismo fiscale” sia accompagnato da una razionalizzazione del sistema impositivo con l’eliminazione o l’accorpamento di tutta una serie di balzelli in un’unica imposta da versare localmente. Un segno di intelligenza, ma anche di civiltà. Ma, al di là, dei reali benefici per le tasche dei cittadini, minimi se non si passa da una tassazione afinalizzata ad una tassazione di scopo, ciò che conta del provvedimento è che introdurrebbe un nuovo modo di considerare le cose, bottom-up, piuttosto che top-down, premessa necessaria nella nostra anomalia, per creare le condizioni “filosofiche” nel pensiero comune per il passaggio ad una realtà federale. Se si vuole uno slogan, ben venga ogni cosa che ci faccia avanzare di qualche metro in direzione del federalismo reale, perché come Catone il censore, quello del “Carthago delenda est” è utile continuare a ripetere che solo il federalismo salverà questo Paese.
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