venerdì 18 giugno 2010

Quel vizio assurdo

Ripensando alle vicende descritte quest'oggi anche nel blog, vien da chiedersi a cosa serva oggi un giornale come l'Unità, così ricco della sua storia politica, se poi gli esponenti del partito di riferimento non lo leggono, o se lo scorrono sono attenti solo alle parole d'ordine e non alle istanze che possono arrivare dalla base o per allargare dai meno addetti ai lavori. E se pure talvolta ne colgano anche l'esistenza, non mostrino nella prassi personale d'aver minimamente riflettuto su quelle quattro parole in croce che pure sono costate tempo e volontà militante a chi le ha messe nero su bianco.
Dico questo perché domenica ho notato in «Cara Unità», pagina 19 del giornale, una lettera di tal Mario Sacchi che lamentava una situazione seppur meno pesante di quella riguardante la mia persona, e che tuttavia con essa fa il paio nel denunciare quel vizio assurdo cui cedono personaggi politici, ad ogni livello della politica, quando si reputano supportati nei loro ragionamenti e decisioni da un divino afflato, incontestabile nella sua sacralità. Altri definiranno questo con termini più forti e meno banali, io mi limito a dirla insipienza politica, soprattutto se uno è investito nel suo ruolo da consenso popolare. Anni luce lontano il vecchio slogan «servire il popolo», oggi la tendenza è «servirsi del popolo» e usarlo per contrabbandare un'autorevolezza che troppo spesso alle prime difficoltà mostra di fondarsi sulla sabbia. Ma veniamo alla lettera del Sacchi pubblicata con un titolo, «Il cittadino non dovrebbe "fare politica"?» che già di suo mostra tutta l'emblematicità di una situazione diffusa. Scrive il lettore de l'Unità:
«Quando un cittadino, un’organizzazione di cittadini esprime delle idee, dei concetti che contrastano e criticano quelle dei politici di professione o i provvedimenti del governo e del Parlamento, non viene contrastato con e nel confronto delle argomentazioni, bensì si cerca di delegittimarlo accusandolo di "far politica", come se ciò fosse prerogativa assoluta ed esclusiva di un’elite definita. Così assistiamo ad Enrico Letta del Pd che lancia "l’accusa" al magistrato Armando Spataro che come cittadino esperto di diritto e di giustizia ha criticato certe sue dichiarazioni ed idee. Assistiamo al segretario della Cisl Bonanni che accusa, in ottima compagnia di Sacconi e di Cicchitto, la Cgil d’indire uno sciopero politico, mentre invece lui "tratta", magari con "quattro amici al bar", per la manovra economica, e c’è da chiedersi se, quando era al bar, ha parlato di sport o ha "fatto politica".»
E per di più il bello è che a pagina 20, subito dietro, c'è l'«Agenda rossa» di Luigi De Magistris, che titola «L'Europa strappi il bavaglio». Vabbè, si sa che è uno dell'Idv, del partito di Di Pietro, e forse per questo si passa ad altro. Peccato, però, perché l'articolo in rubrica contiene una frase illuminante: «Del resto: non più “penso dunque sono”, bensì “meno penso più conto”». Frase che va perfettamente a braccetto con la filosofia del «potente» o presunto tale che ad ogni latitudine politica non ama i rompicoglioni.
Certamente, De Magistris non sta dicendo d'una bega senza importanza in un paesino sconosciuto ai più, sta parlando di Lui e di come stia crescendo l’insofferenza per tutto ciò che è diverso dal pensiero unico dominante ed in che maniera si stiano raffinando le tecniche di criminalizzazione del dissenso. Ma come un tempo fascista era Mussolini, fascista un podestà qualunque, fatto il debito rapporto di scala anche oggi l'attuale modello vincente tende a riprodursi ad ogni livello. Viviamo insomma, in un Paese senza speranza.

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