mercoledì 30 giugno 2010

Ofek 9

Haaretz ha dato notizia il 22 giugno scorso del lancio israeliano di un nuovo satellite spia, denominato Ofek 9. Il satellite va ad unirsi ad altri due in attività. Il lancio è stato effettuato dalla base aerea di Palmachim sulla costa israeliana a sud di Tel Aviv. Il satellite è dotato di una macchina fotografica ad alta risoluzione. I tre satelliti dovrebbero dare a Israele una copertura considerevole delle aree sensibili. In particolare, si sa, Israele dirige i suoi satelliti sull'Iran per avere informazioni sugli sviluppi dei suoi programmi nucleari.
Non sono segnali distensivi.

Carroccioni

Il crocefisso difeso da Borghezio è il polso di quanto rappresenti oggi quel pezzo di legno dimenticato sui muri delle aule di questo stato laico e bigotto, a parole e nei fatti rispettivamente. Personalmente sarei felice che in quelle aule, non solo scolastiche, ma di tribunale o giù giù di consiglio comunale, dove fa il paio in genere con una fotografia di Napolitano ed una copia della Costituzione, avesse una funzione di richiamo, di monito a quanti stanno operando per il bene dei cittadini, di stimolo ad una ricerca del bene comune che non lasci spazio a prevaricazioni di gruppi di potere, lobbies, o ad interessi particolari.
La Chiesa sta già facendo molto da sola per screditarsi agli occhi dei più - ed i recenti avvenimenti belgi e americano ne sono il segnale; particolarmente in quest'ultimo caso che la ridimensiona a ruolo di banale azienda - e, dunque non ha particolarmente bisogno di «volontari» che la spingano nel precipizio. Ieri un articolo de La Padania titolava «Crocifisso a scuola una battaglia laica» e l'occhiello assicurava: «L'impegno del Carroccio non è un favore alla Chiesa». Su quest'ultima affermazione non si può che essere d'accordo. E spero che dalle parole traspaia l'ironia.
Motivo dell'articolo il fatto noto che oggi la Grande Chambre della Corte europea dei diritto dell'uomo si riuniva per esaminare il ricorso presentato dal governo italiano avverso alla sentenza emessa dall'assise di Strasburgo che vieta l'esposizione del crocifisso nei luoghi pubblici. Prima di tutto nel pezzo la Lega reclama il primato: «sul fronte laico è stata senza dubbio la forza politica più attiva e propositiva nel difendere il simbolo della cristianità». E parafrasando uno slogan che non ha più copyright: «Un impegno che viene da lontano». Grazie ovviamente al profeta celtico che guida con sagacia il suo manipolo di eroici «crociati» padani: «Non è stata questa la prima volta nella quale il movimento di Umberto Bossi si è schierato a sua difesa». E se gli scettici bofonchiano, si ricredano: «Basta fare una veloce ricerca su Internet per scovare migliaia di articoli che raccontano di raccolte di firme, mozioni, atti parlamentari, incontri pubblici, manifestazioni, tutte con la stessa finalità». Altro che secessione! Altro che federalismo! La lotta della Lega è altro e si vede.
Tralascio l'elenco dei paragoni (crociati, templari) fatti dai giornali di tale iniziativa dei «simpatizzanti padani», che nell'articolo segue, per fermarmi su una frase che ha semplicemente del curioso: «spesso i "nemici" della croce con Maometto hanno nulla a che fare». Tant'è che «la stessa questione arrivata sul tavolo della Corte europea, non è partita da un gruppo o da un'associazione musulmana». E si cita il fatto che la cittadina italiana di origine finlandese fosse socia dell'Uaar, Unione atei e agnostici razionalisti.
Sfugge però il significato di quell'appartenenza «criminosa», colpevole, l'associazione, di aver «promosso, sostenuto, curato tecnicamente l'iter giuridico, che era già passato dal Tar del Veneto (toh!), dalla Corte costituzionale e dal Consiglio di Stato». Ateo, agnostico dovrebbero suggerire degli «alleati» almeno sul piano intellettuale in ciò che i leghisti intendono come «scontro di civiltà». Già, ma l'intento è altro e quando si sta cavalcando una tigre non c'è molto spazio per le riflessioni. «Insomma, come dire, i "nemici" della croce non arrivano solo dal mondo arabo, ma spesso ce li ritroviamo in casa».
Qualcuno suggerisce che vista la predisposizione a riti pagani come il matrimonio celtico o quella carciofata dell'ampolla d'acqua del dio Po, tra i «nemici della croce» i «simpatizzanti padani» dovrebbero avere un posto d'onore. E invece no, i nemici sono quelli che al passo con i tempi cercano la convivenza e l'integrazione con i migranti. Quelli della Uaar non sono altro che «alleati più o meno inconsapevoli di quelli che sognano di riempire le nostre città di minareti». E siamo al delirio in crescendo che apre con un «Il rischio, infatti, è la spersonalizzazione dell'Europa». Mi viene il dubbio non solo che la Lega sia un partito laico (bazzica troppo con le religioni, cattolica o celtica che sia), ma non erano anche anti-europeisti? Ma attenzione a quanto segue. «Un continente senza più radici e identità, privo di quella "volontà di potenza" che per molti secoli ne ha garantito e preservato l'esistenza salvaguardandone i tratti essenziali nonostante le difficoltà, le guerre, le invasioni, sarebbe una terra di conquista facile per chi, a torto o ragione, non ha dubbi su chi è e su dove vuole arrivare». Parole che evocano prospesttive indigeste e legate a filosofie del secolo lasciato alle spalle. Una battaglia di retroguardia.
Ma il crocefisso tolto da un'aula scolastica che c'entra? C'entra sì: «È in questo scenario che si inserisce la difesa leghista del Crocifisso. Non una barricata religiosa, ma un'azione laica e civile a tutela di un patrimonio comune». Un simbolo di pace per tutti gli uomini di buona volontà che diventa un simbolo di «volontà di potenza». Magnifico! E il tutto si basa su un'affermazione apodittica smentita dalla storia europea: «In quel simbolo infatti, si sintetizzano tutta una serie di valori che sono il minimo comune denominatore della nostra società. Un fattore unificante e aggregante condiviso da tutti, credenti o meno che siano». Ma tutto questo serve per dire che: «Solo il Carroccio ha avuto e ha il coraggio di rimanere su queste posizioni con convinzione e senza sbandamenti o ipocrisie». E anche martirizzati: «Patendo certo attacchi più o meno virulenti e ingiustificati, ma venendo premiata da un sempre maggiore seguito anche in ambienti non tradizionalmente "vicini"».
Certo, l'articolista, Paolo Bassi, riconosce che non è «che altre formazioni politiche non si siano fatte sentire», ma sempre con «molti "ma" e tanti "però"», per un motivo o per l'altro. Ma: «Sul territorio, in mezzo alla gente, come sempre si è vista solo la Lega». E non così banalmente, come pensano i più, con le sue quattro chiacchiere da bar. No, ma «Forte di portare nel gazebo non solo la politica, ma anche la metapolitica». Perbacco, anche il crocefisso? fisicamente inteso, distribuito con i volantini? No, solo metapolitica, cioè «il dibattito sulle questioni che magari non si traducono immediatamente in leggi e provvedimenti, ma che hanno la forza di orientare e dare un senso profondo a molti dei provvedimenti che incidono sulla nostra vita di tutti i giorni». Che forza!
Ma attenzione: «Difendere oggi il crocifisso non è dunque un favore alla Chiesa. Non è una strizzata d'occhio al Vaticano». Non è neppure questione di fede. No. «È piuttosto un modo per ribadire che non vogliamo cambiare il nostro modo di vivere e soprattutto che non vogliamo abdicare nei confronti di chi vorrebbe imporci di farlo». Chiarissimo. Signori, questa è la Lega.

martedì 29 giugno 2010

La spartizione

Entro fine marzo del prossimo anno, l'iter del federalismo demaniale dovrebbe essere completato. A fine luglio di quest'anno l'Agenzia del demanio dovrebbe fornire un elenco dettagliato ufficiale dei beni che potranno essere trasferiti agli enti locali, pubblicato sul suo sito. Finora, da quel che si sa, sono stati inventariati beni che valgono oltre 3 miliardi di euro. Sono 9.000 immobili, chilometri di spiagge, centinaia di miniere, fiumi e laghi (però in concessione). E sui giornali si fa anche l'elenco dei pezzi più pregiati. Tra le curiosità si sa da ieri che ci sono anche pezzi delle Dolomiti, come le Tofane, il Sorapis, il Monte Cristallo, la Croda Rossa e altri monti. Anche se più clamore suscita la facoltà di Ingegneria della Sapienza o il Nuovo Cinema Sacher di Nanni Moretti, che vale da solo quattro milioni e mezzo di euro, o l'intera area dell'Idroscalo di Ostia, luogo dell'assassinio di Pier Paolo Pasolini, valore circa 7 milioni di euro.
Lo step successivo sarà il 20 agosto, quando le amministrazioni centrali dovranno indicare i beni in uso che intendono conservare. altri tre mesi e il governo pubblicherà l'elenco dei beni che saranno effettivamente cedibili agli enti locali. Siamo al 20 novembre: le Regioni e i Comuni avranno 60 giorni di tempo per dichiarare le loro intenzioni.
Il passaggio di mano, da demanio statale a demanio locale, dovrebbe contribuire ad una valorizzazione dei beni, o addirittura ad una cessione a privati, il cui ricavato andrà in gran parte alla riduzione del debito locale e per il restante 25% di quello pubblico. Sul «federalismo demaniale», definito da Luca Zaia «una cosa giusta», l'opposizione non ha mancato di sollevare critiche. Per il portavoce dei Verdi Angelo Bonelli, ad esempio, «dietro questa alienazione di beni si nasconde la più grande operazione edilizia ed immobiliare della storia della Repubblica italiana». Ed è un timore alimentato da ciò che quotidianamente si registra quotidianamente nella politica e nell'amministrazione del paese a tutti i livelli.
Curiosa, mi si permetta l'aggettivo, l'esternazione in merito dell'on. Francesco Boccia del Partito democratico: «Il federalismo non deve diventare un suk, ma una nuova stagione di doveri», cui ha aggiunto l'annuncio che il Pd intende battersi perché siano introdotte «forme di compensazione dei territori meno fortunati». Non si capisce bene il perché.

Critiche e malaffare

En passant, trascrivo da un articolo di Francesca Schianchi su La Stampa questo passo riguardante le dichiarazioni in propria difesa del neoministro Aldo Brancher: «Mi ritengo una persona equilibrata e onesta, di buon senso, che ha sempre lavorato e continua a lavorare». Ora si definisce «sereno», impegnato a «proteggere la mia famiglia, i miei bambini», in particolare «dal riflesso che queste cose vergognose hanno dal punto di vista degli affetti personali». Voglio, qui, solo osservare che questa sorta di «tattica», ricordarsi della famiglia e degli innocenti pargoli dopo aver fatto la frittata, è un leit-motiv che si ritrova spesso, ad ogni latitudine e longitudine del mondo politico. Se ne hanno esempi a bizzeffe, sia tra i big che tra gli ultimi portaborse di provincia. Insomma, le critiche fanno male alla famiglia, la mala politica, il malaffare no.

Bossi Nord

L'intervista di ieri del ministro Roberto Calderoli pubblicata dal Corriere della Sera è ormai storia. Ma al di là della querelle Brancher «Bossi sì, Bossi no» su cui è stato messo un macigno: «La sera prima del giuramento festeggiamo insieme io, Bossi, Tremonti e Brancher», Calderoli è prodigo di informazioni.
Apprendiamo ad esempio che «la Lega è un partito leninista, come dice Maroni». Tranquilli! «Ma c'è un ampio confronto interno. Tutte le cose importanti non sono mai condivise solo da me e Bossi ma da tante altre persone». Tante persone, non un organismo elettivo, un'assemblea, qualcosa di simile. Non il popolo bue, insomma. La Lega è un partito con un'organizzazione bolscevica, un'avanguardia «necessaria» perché la seccessione è pur sempre una rivoluzione.
Ma cambiando argomento, anzi vocale, «È partita la lotta di successione?» chiede il giornalista. «Chi parla di queste cose è un cretino», Calderoli doc, non c'è dubbio! «Bossi è la Lega e la Lega è Bossi». Bossi Nord, dunque. Ma augurandogli di cuore lunga vita, Bossi trapassato è Lega morta? E l'Italia? Perché Calderoli aggiunge: «E poi il capo ormai è il punto di equilibrio tra maggioranza e opposizione. Quando c'è un problema tanti dicono: andiamo da Bossi che ci pensa lui». Taumaturgico risolutore, indefesso salvatore della patria!
Però, quel «E poi il capo», «capo»? Boss? Strano linguaggio. Ma come diceva il ritornello: ma per fortuna che c'è il Maroni... possiamo dormire sereni.

lunedì 28 giugno 2010

Anomali

Come spiega Giorgio Holzmann, deputato del Pdl, riportato oggi dal Corriere della Sera, l'istituto dei senatori a vita previsto dall'art. 59 della Costituzione, che ne disciplina nomina e prerogative, «è un retaggio dello Statuto albertino che prevedeva, al fianco di una Camera elettiva, un Senato composto dai principi della famiglia reale, i quali ne entravano a far parte di diritto al compimento del ventunesimo anno di età, e dai membri nominati a vita dal re, che li sceglieva tra categorie di dignitari individuate dall'articolo 33 dello stesso Statuto». Il motivo per cui oggi se ne parla è perché due proposte di legge, una alla Camera e una al Senato, presentate dal Pdl e dal presidente emerito della Repubblica Francesco Cossiga chiedono l'abolizione dell'articolo 59.
Come spiega Cossiga, nella nostra Costituzione «ci sono due istituti anomali per un regime rappresentativo e parlamentare basato sulla sovranità popolare espressa in libere e periodiche elezioni ed in contrasto con i suoi principi: quello dei senatori a vita e di diritto, e cioè degli ex presidenti della Repubblica che non rinuncino a tale ufficio, e quello dei senatori a vita nominati dal presidente della Repubblica». La loro presenza, secondo Cossiga, è un'anomalia «che può creare gravi distorsioni politico-istituzionali, quando i risultati elettorali portino a situazioni marginali, in cui per la formazione delle maggioranze i senatori a vita possono giocare un ruolo determinante». Come più di una volta è successo al tempo dell'ultimo governo Prodi.
L'articolo del Corriere porta anche un'osservazione del senatore Raffaele Lauro che sottolinea come «nelle democrazie i presidenti della Repubblica, una volta terminato il loro mandato, tornano ad essere privati cittadini senza godere di alcun privilegio né di alcun status particolare».
Per chiudere una «speranza»: per estensione, come sarebbe bello se i politici non fossero mantenuti a vita dai partiti nelle istituzioni, ed il cittadino avesse realmente la possibilità di scegliere il proprio rappresentante in liste non blindate dalle segreterie.

Cribbio!

Sembrerà un paradosso, ma l'affondo di Berlusconi contro le Regioni non è poi così da buttar via. Altrimenti mal si comprenderebbe tutto quanto è stato detto pochi mesi fa in campagna elettorale, ad esempio in Lombardia. Che il «randello sulla testa di Formigoni» roteato dal premier trovi sostenitori anche insospettati e insospettabili è quantomeno qualcosa di, diciamo, ambiguo.
Berlusconi dice: «Dovremo rassegnarci a diminuire le spese». L'impegno sottoscritto al G20 «impone» di dimezzare i deficit entro il 2013, stabilizzare o ridurre il rapporto debito/Pil entro il 2016. E, nonostante l'ottimismo di Bonaiuti riassunto in un «Non ci spaventa il dimezzamento del deficit, è alla nostra portata; è ampiamente raggiungibile, del resto in questi anni ci siamo comportati meglio di altri nel contenimento del rapporto con il prodotto interno lordo, abbiamo ricevuto negli ultimi mesi i complimenti delle maggiori istituzioni finanziarie, compreso il Fondo monetario e la Commissione europea», qualcosa di incisivo va fatto. «Rispetto a Francia, Gran Bretagna e Germania saremo costretti a fare sacrifici minori, partiamo da una situazione migliore», sempre il portavoce del premier. E le Regioni secondo il governo devono fare la loro parte. Scelte dolorose, come riconosce il premier alla conferenza stampa: «Chi ha la responsabilità delle Regioni difende lo status quo, perché molto spesso si tratta di abolire enti e quindi di persone che dovranno trovarsi un altro lavoro». Ma: «Non si può andare avanti così, a sprecare i soldi dei cittadini». E i cronisti annotano: un'esclamazione fatta con aria scandalizzata.

Ladri di voti

Nei 170 gazebo allestiti nei mercati piemontesi, sabato e domenica, sono state raccolte 20 mila firme a sostegno del governatore leghista Roberto Cota, la cui elezione è in pericolo a causa di un ricorso al Tar. E questa sera, secondo le speranze dei leghisti piemontesi, seimila persone a Torino sfileranno in una fiaccolata per dirla chiara: «Non si torna al voto».
Il governo leghista del Piemonte è nella bufera elettorale-giudiziaria che si è sviluppata attorno alla lista «Pensionati per Cota» che con i suoi 28 mila voti ha dato un sostegno fondamentale alla vittoria di Cota alle regionali. Se la lista dovesse essere invalidata, il rischio per i piemontesi è di dover ritornare alle urne. D'obbligo, dunque, la presenza del governatore, che sabato, in visita ai mercati rionali ha detto: «Giovine? [Michele Giovine è il leader della lista sotto inchiesta] Se ha commesso irregolarità va punito, il primo a essere danneggiato sono io, ma non per questo devono pagare i piemontesi». Una sorta di già sentito, con Formigoni in Lombardia e con la Polverini nel Lazio: un richiamo al fatto che il «popolo» paghi per gli errori e le idiozie dei presentatori delle liste elettorali. La verità è che chi paga alla fine è chi è stato alle regole. Perché questo è l'assioma fondante del berlusconismo.
Alla fiaccolata i Radicali rispondono a modo loro, con una assemblea pubblica presso la sede dell'Associazione Adelaide Aglietta con l'obiettivo di «Ripercorrere dieci anni di lotte per l'affermazione della legalità in Consiglio regionale attraverso i ricorsi in Tribunale e la denuncia, avvenuta cinque anni fa, delle illegalità commesse da Giovine».
Ma torniamo a Cota. Venerdì scorso la Padania riportava una sua intervista sul tema, in cui tra l'altro esterna: «Se il Tribunale amministrativo regionale annullasse le elezioni per il ricorso sulle presunte liste irregolari sarebbe come un golpe. Vorrebbe dire rubare il voto ai Piemontesi. Ma scusi...» e spiega: «Le liste le valuta il tribunale prima del voto e se non vanno bene le esclude. E non mi sembra siano state escluse. Anzi».
Come è stato ricordato, la querelle giudiziaria riguarda una lista i cui voti sono stati fondamentali per superare la presidente uscente Bresso, ma per Cota questa è una questione marginale: «Se qualcuno ha qualcosa da ridire fa ricorso subito, prima delle elezioni, come ho fatto io contro alcune liste patacca, altrimenti dopo è troppo comodo. Ora invece ci dicono che una lista, ammessa dal tribunale e poi votata dalla gente, presenterebbe delle irregolarità. E bisogna rifare tutto. Dopo che i Piemontesi si sono espressi a favore del centrodestra». E già! Dunque? Cota prosegue: «E lo ripeto: il ricorso non riguarda il risultato finale del voto, ma presunti cavilli legati all'accettazione di candidature di una delle tante liste di appoggio», e sottolinea: «Il ricorso è inammissibile giuridicamente e politicamente, lo capirebbe anche un bambino».
Bene, aspettiamo che il bambino invocato dal governatore nasca, e intanto vediamo i perché di tanta mobilitazione leghista. Ce lo dice lo stesso Cota nell'intervista: «C'è in atto una forte campagna mediatica per cercare di condizionare le decisioni della magistratura. È questo che preoccupa». E la preoccupazione ha un aspetto preciso: «Da presidente dico che viviamo in un momento economicamente delicato e ci vorrebbe una stabilità delle istituzioni, non certo creare confusione». Ah, il casinismo, malattia infantile dell'anti-leghismo. E perché questo complottismo? Spiega Cota: «Stiamo portando avanti un piano per l'occupazione da 390 milioni di euro. Stiamo lavorando bene e seriamente». Da non credere. «E se sono preoccupato, lo sono soltanto per i Piemontesi a cui qualcuno vuole rubare il voto». Da non credere veramente.
A questo punto il giornalista, Simone Girardin, propone un «non è che si cerca di spezzare le gambe al Federalismo?». Proprio con la «F». Ma sì, è così: «Siamo davanti a una manovra politica contro la Lega, contro il Federalismo. E fatta in maniera subdola, non a viso aperto», e Cota aggiunge a commento un «Sono robe che si vedono solo nelle dittature quando il "padrone" non vince». Da non crederci. E chiude - perché repetita iuvant - «Ma annullare le elezioni significa solo una cosa: rubare il voto ai Piemontesi», e se qualcuno che ancora non lo ha capito, faccia il piacere, lo dica o alzi la mano.

Calcioni

Le cronache ci dicono che Angela Merkel e David Cameron hanno guardato insieme ieri il secondo tempo di Inghilterra-Germania. Calcio stellare, nulla a che vedere con il calcio lillipuziano, o abbreviando lip[p]iano, di casa nostra. E annotano sempre le cronache che la cancelliera tedesca si è «commossa» della prestazione della Germania. Naturalmente il premier inglese, seppur bastonato, non ha perso il suo aplomb britannico.
Paese che vai... curiosa l'interpretazione data dal «ministro dello scandalo» Aldo Brancher sulle polemiche che lo hanno investito come un impetuoso nubifragio estivo: «L'Italia perde i Mondiali e la gente se la prende con me». Fantastico.

Il fascino del nucleare

Il decommissioning, lo smantellamento e la decontaminazione delle centrali nucleari non più operative, rappresenta un business dai costi sconosciuti. Semplicemente perché è un segreto. Ancora oggi seguitiamo a pagare sulle bollette dell'Enel una quota per il vecchio nucleare, le centrali chiuse col pretesto dell'esito del referendum anti-nucleare del 1987. E sì, perché in base ai quesiti referendari non si sarebbe più potuto costruire nuove centrali, ma non vi era obbligo di smantellare quelle allora operative, ma già erano pronti i mega-appalti per il loro decommissioning. E, dunque, parola d'ordine smantellare in fretta.
Come è stato osservato, il fascino del nucleare sta nel fatto che produce mega-appalti prima, durante e dopo la sua esistenza, anche nel caso che non abbia mai prodotto sul serio energia elettrica. Val la pena aggiungere al riguardo un'altra osservazione. Il governo ha affermato che non saranno stanziati fondi pubblici per la costruzione delle centrali. Ma a carico della spesa pubblica sono gli oneri per le infrastrutture di supporto e gli oneri per la sicurezza, e sono queste le spese maggiori. Non la costruzione delle centrali come manufatto. Poco importerebbe, insomma, che in futuro le risorse finanziarie per completare il progetto nucleare possano venire a mancare lasciando «cattedrali» incompiute. Le ditte private avrebbero comunque «fatto cassa» e poi, appunto, ci sarebbe il decommissioning, la necessità di smantellare quanto fino ad allora costruito. Non male come «pensata».

domenica 27 giugno 2010

Una falsa bandiera

Antonio D'Amato è stato presidente di Confindustria dal 2000 al 2004 e fu protagonista dello scontro sull'articolo 18 con Sergio Cofferati. Qualche giorno fa il Riformista ha pubblicato una sua intervista presentandola in occhiello con un «il federalismo è una schiocchezza inutile» e con titolo «La Lega fuori dall'arco costituzionale». In realtà come si rileva da gran parte dell'articolo il tema rilevante è la vicenda di Pomigliano. Le affermazioni sulla Lega escono fuori come effetto collaterale della questione Nord Sud: «Sono vent'anni che la Lega detta l'agenda e che destra e sinistra la inseguono senza mai provare a rilanciare, senza davvero un'idea politica competitiva. E il federalismo non servirà a niente se non ad aumentare i costi».
Ma come, dice il giornalista, «non dovrebbe essere virtuoso?». E D'Amato: «Non mi pare. In Italia l'autonomia delle regioni ha portato solo aumenti di spesa dagli anni Settanta in avanti. E poi che federalismo è questo? Se fosse la strada giusta perché non procedere contestualmente all'eliminazione delle province, all'abolizione delle regioni a statuto speciale e procedere con la liberalizzazione dei servizi pubblici locali? La verità è che la Lega punta a una secessione di fatto e che le forze politiche credono che l'ibrido federalista sia un modo per trovare un compromesso e scongiurare il ricatto leghista». E qualche riga più in là: «La verità è che la Lega sarebbe tecnicamente fuori da quello che un tempo si chiamava arco costituzionale: non riconosce la Costituzione, le prefetture, l'inno, tifa persino contro la nazionale». Insomma, «il federalismo è una falsa bandiera. Bisogna dire che è una assoluta inutile scemenza».

Legittimo stordimento

Sul Corriere della Sera di venerdì scorso, Pierluigi Battista aveva inquadrato egregiamente la vicenda Brancher: «Deve organizzare un ministero. Non si sa quale, con quale denominazione esatta, con quali specifiche competenze, ma Aldo Brancher deve pur organizzarlo». L'articolo da cui è tratta la citazione è ricco di spunti di riflessione e di ironica denuncia d'un «ministro legittimamente impedito». Ieri, come si sa, la svolta all'insegna del basso profilo: annullata un'intervista tv, manco si fa vedere a Roma dove i fotografi invano facevano la spola tra ministero e Palazzo Chigi. Tant'è che arriva il rimprovero del senatore dell'Idv Stefano Pedica: «Siamo, insieme alla stampa ed ai Tg, davanti alla Presidenza del Consiglio e aspettiamo che il ministro Brancher si rechi al lavoro, visto che oggi era legittimamente impedito a presentarsi di fronte al Pm». L'Idv, certo, sempre pronta al guizzo nell'area avversaria, eccola a confezionare una mozione di sfiducia. Non come il Pd perennemente groggy che punta a «iniziative comuni» in Parlamento non ben specificando con chi e su che cosa. Non a caso del venerdì di Brancher articoli di stampa evidenziano la differenza riportando il commento di Luigi De Magistris: «uno schiaffo al paese», e del piddino Enrico Letta la sentenza «con questa storia la Lega ingoia un'altra umiliazione». Insomma, se da una parte lo sguardo è attento al danno per il paese, dall'altra ci si preoccupa di ungere un po' di discredito sull'avversario politico più scomodo. Perché, come ormai si è capito, la parola d'ordine non è «risolvere» ma «sostituire».
E altra cosa curiosa ma non troppo, se nella maggioranza c'è stato chi, come Bocchino, si è preoccupato di più ancora proprio in vista della richiesta di sfiducia dell'Idv, paventando il fatto che il governo rischi di avere «problemi» anche sul fronte «dell'agibilità parlamentare e politica», all'opposizione il solito pompiere Pier Ferdinando Casini coglie l'ennesima occasione per remare contro, spiegando che la proposta di Di Pietro e soci potrebbe avere l'effetto paradossale di ricomporre il «dissidio durissimo fra Pdl e Lega e quello interno al Pdl». Tranquilli, in fondo è solo un occhio di riguardo per vecchi amici.

Il badante

Leggo su un'Ansa riguardante Brancher: «Il fatto di fare il ministro è una cosa, sottoporsi agli adempimenti della giustizia un'altra», dice Roberto Calderoli che il 18 giugno ha accompagnato Brancher al colle per il giuramento. E allora le dimissioni? «Giudichi lui cosa fare», risponde il ministro leghista.
A richiamare la mia attenzione sul passo non sono le banali parole di Calderoli, ma quel «Calderoli che il 18 giugno ha accompagnato Brancher al colle per il giuramento». E mi sovvien d'un altro accompagnamento che Giampiero Fiorani così racconta: «Nel febbraio [2005] Brancher mi disse che lui e Calderoli avevano bisogno di 200 mila euro per la campagna elettorale. Una ventina di giorni dopo i due arrivarono nel mio ufficio. Calderoli rimase seduto fuori, Brancher invece entrò e gli consegnai in una busta gialla i 200 mila euro. Io non ho assistito alla divisione dei soldi, ma notai che Calderoli era visibilmente entusiasta». Va detto che proprio che per quella mancanza di riscontro nelle parole di Fiorani, d'una possibile divisione di soldi, il caso Calderoli è stato archiviato. La curiosa coincidenza del Calderoli «badante», però, resta.

Eroi moderni

Aldo Brancher ha, dunque, fatto ieri il «grande sacrificio»: in serata tramite i suoi legali ha fatto sapere di aver rinunciato al legittimo impedimento e di essere pronto a presentarsi in udienza il 5 luglio. Che eroe! Alla prima udienza del processo - che lo vede imputato per appropriazione indebita insieme alla moglie Luana Maniezzo e riciclaggio, per un totale di circa 1 milione di euro ricevuti tra il 2001 e il 2005 da Giampiero Fiorani - il 19 aprile era impegnato alla fiera di Hannover. Il 5 maggio, seconda udienza, trattenuto da una Commissione sul federalismo. I primi di giugno, terza udienza, impossibilitato ad essere presente per un viaggio in Cina. Lui, che come ricordano i giornali, nel 2008, quando venne rinviato a giudizio nell'ambito di un'inchiesta stralcio sulla scalata Antonveneta e «furbetti del quartierino», si dichiarò «quasi contento perché sono 4 anni che va avanti questa storia e almeno adesso spero che si possa chiarire».
Silvio, il Cavaliere, ha insomma risolto con la sua «moral suasion» via etere negli spazi di tempo libero tra una riunione e l'altra del G8 la «piccola questione interna», venuta a turbare i suoi amplissimi sorrisi (a Obama) e l'atmosfera gioiosa creata delle sue barzellette raccontate agli altri grandi del pianeta. Il 5 luglio, quindi, Aldo Brancher sarà presente all'udienza, dove è prevista l'audizione di alcuni testimoni, tra cui Fiorani e, forse, alcuni militari della Guardia di Finanza che parteciparono alle indagini. Potrà così «chiarire» il motivo e l'origine di tutti i soldi ricevuti in contanti da Fiorani. Come ha ricordato Paolo Colonnello su La Stampa, «i primi 420 mila (appropriazione indebita) insieme alla moglie Luana tra il dicembre e il novembre del 2003 grazie a delle plusvalenze su azioni Tim e Autostrade che secondo le accuse vennero manovrate dai vertici della banca per favorire la coppia. Altri 600 mila euro (ricettazione) suddivisi in versamenti distinti: i primi 100 mila consegnati in contanti da un collaboratore di Fiorani, Donato Patrini, presso l'autogril di San Donato milanese nel 2001; 100 mila euro in contanti consegnati nel 2004 a Lodi nell'ufficio di Fiorani; altri 100 mila ricevuti a roma nel gennaio del 2005 dopo la bocciatura del Decreto sul Risparmio presso l'ufficio di Brancher, al ministero del Welfare; e infine altri 200 mila euro consegnati ancora nell'ufficio di Fiorani a Lodi, nel marzo dello stesso anno».

Il paradosso del nucleare

È un incredibile paradosso, quello rappresentato dal nucleare. E consiste nel fatto che sono proprio gli argomenti avanzati dagli ambientalisti contro l'ipotesi del nucleare in Italia a costituire le motivazioni vere, fondanti di quanti sostengono la necessità di imbarcare di nuovo il paese in una costosissima e insidiosissima avventura. Da una parte i costi enormi, denunciati come fattore insostenibile, a fare del nucleare proprio un business irrinunciabile per gli appetiti personali di industriali e manager d'impresa. Dall'altra lo smaltimento delle scorie radioattive che rappresenta una miniera di appalti, la più ricca e la più esente da rischi giudiziari che esista, in quanto è coperta in ogni sua fase dal segreto di stato e/o dal segreto militare. Affari giganteschi, con in più la possibilità di nascondere ogni illegalità sotto la copertura legale del segreto. Le gestioni truffaldine scoperte nelle emergenze affidate alla Protezione civile qualcosa dovrebbero insegnare.

venerdì 25 giugno 2010

Stupefacenti

Il sottosegretario Carlo Giovanardi, martedì scorso 22 giugno, ha presentato a Palazzo Chigi la relazione annuale sull'uso delle droghe, che sarebbe calato del 26%. Avete letto bene. Ed il rapporto riporta - mirabile visu, incredibile dictu - le cifre esatte del numero dei consumatori: da 3.934.450 nel 2008 a 2.924.500 nel 2009! Giovanardi tronfio: «Oggi per noi è una bella giornata, perché per la prima volta dopo anni di peggioramento i dati segnalano, sorprendentemente, un crollo dei consumi e dei consumatori». E giù a sperticare lodi al governo che «sta facendo un buon lavoro e ora rispetto all'uso delle droghe c'è un clima diverso e una maggiore consapevolezza dei rischi, sia per la salute che per le conseguenze legali e giudiziarie, e questo si vede anche dalle trasmissioni televisive». Proprio così! La «sua» televisione, quella delle tante notizie scomode che non arrivano per continue interferenze del partito dell'amore.
Non fa meraviglia che fosse proprio Giovanardi lo scorso novembre a dire che le fotografie di Stefano Cucchi, che mostravano un corpo con evidenti lesioni, traumi e fratture, erano quelle di un «anoressico, drogato e sieropositivo» e che erano la prova che la causa della sua morte era la droga.
Secondo la relazione i motivi del sorprendente calo sarebbero in relazione con la crisi economica. Già, meno denaro si ha meno si spende.
Riprendetevi dallo stupore. La ricerca non viene da l'Istat ma sono state usate «diverse ed indipendenti fonti informative al fine di poter stimare il più correttamente possibile il fenomeno da vari punti di vista». Cioè? Beh, per capire il metodo nella sintesi si dice d'aver usato un campione generale di 12.323 soggetti di età compresa tra 15 e 64 anni, e a questo si è chiesto se hanno usato almeno una volta nella vita stupefacenti. E le risposte danno per i diversi tipi di droga rispetto al 2008 valori stupefacenti, appunto. E per quanto riguarda gli studenti - un campione di 34.738 soggetti di età compresa tra i 15 e i 19 anni - i risultati rispetto le percentuali precedenti variano, mantenendo però sempre rispetto al 2008 la loro caratteristica stupefacente.
Una piccola aggiunta, nel novembre del 2009 l'Osservatorio europeo delle droghe e delle tossicodipendente divulgò per l'Italia un risultato rovesciato rispetto a quello propagandato da Giovanardi a nome del governo, e che droghe come cocaina ed eroina erano in considerevole aumento e che il nostro paese si confermava tra i paesi a maggior consumo. A chi credere? Già, proprio una domanda retorica.

Come la Corea del Nord

Flavio Suardi, oggi, su Il Sole 24 Ore, evidenziava che la disfatta della rappresentativa di Abete costerà alle casse federali dai 5 ai 21 milioni di dollari solo di premi Fifa e una trentina di milioni di minori introiti tra sponsor e fornitori.
Ad ogni squadra partecipante al Mondiale, la Fifa ha infatti garantito un milione di dollari a titolo di rimborso degli oneri di preparazione. Al termine delle tre partite della prima fase, ogni team incassa 8 milioni di dollari aggiuntivi, a prescindere dal passaggio del turno. L'Italia torna dunque a casa con 9 milioni di dollari in tasca nonostante la pessima prova nel girone eliminatorio: la stessa consolazione della Corea del Nord, eliminata dopo lo 0-7 subito dal Portogallo. Per chi, invece, continua l'avventura Mondiale, il montepremi della Fifa prevede altri scaglioni, fino al massimo di 30 milioni totali di dollari in caso di vittoria finale.
Il mondiale del 2006 aveva aiutato di molto la raccolta pubblicitaria: i marchi a sostegno degli azzurri nella spedizione sudafricana erano 27 e in totale hanno portato nelle casse federali 56 milioni di curo contro i circa 42 del quadriennio precedente. Lo sponsor Puma ha investito nell'avventura azzurra 15 milioni di curo all'anno per quattro anni, contro gli 11,5 annui del quadriennio precedente il mondiale in Germania nel 2006. Ci si può aspettare che la figuraccia sudafricana rallenti il desiderio di legare i propri marchi alla rappresentativa azzurra.
La morte di una squadra che forse si è stretta troppo poco a coorte significa anche questo o soprattutto questo. Già.

Ancora sul «decreto» Marchionne

Chiusa la parentesi della rappresentativa della Figc ai Mondiali in Sudafrica, si può tornare ancora per qualche momento sul referendum operaio di Pomigliano. Scriveva Pietro Ancona (medioevosociale-pietro.blogspot.com) il 23 giugno 2010: «La Fiat e la confindustria sono molto inquieti e temono [come poi è avvenuto] di non fare il pieno, di non avere una sottomissione plebiscitaria nel rito di potere che con molta teatralità e tante minacce è stato messo in piedi. Vuole a tutti i costi l'adesione di tutti. La democrazia del cinquantuno per cento non gli basta. Vuole che la Fiom venga radicalmente delegittimata della sua rappresentatività e che non ci siano voti difformi corrispondenti alla sua forza nella RSU. La posta in gioco non è il consenso al decreto già sottoscritto da quattro "sindacati" ma la sconfitta del sindacalismo autonomo e quando necessario conflittuale che oggi incerna la Fiom. Si deve sconfiggere la Fiom! Delenda Fiom! Si vuole fare del referendum un evento epocale, uno spartiacqua tra ieri e domani. Da domani tutti i contratti nazionali di lavoro diventeranno carta straccia e si aprirà la stagione della Grande Deregulation. Ogni azienda presenterà il suo conto e pretenderà nuovi sacrifici ai suoi dipendenti».
Referendum anomalo quello che si è votato nello stabilimento di Pomigliano d'Arco. In pratica la fiducia sul «decreto Marchionne», alla moda fascista o sovietica. «Cinquemila operai sono stati precettati ed obbligati al voto dal momento che la Fiat considera quella di oggi giornata lavorativa ed ogni assenza dovrà essere giustificata da certificato medico», sottolineava Ancona, che ricordava anche alcuni aspetti del teatrino mediatico messo in piedi: «Ieri sono intervenuti grossi calibri nazionali a sparare le loro munizioni a volte fatte di volgari contumelie contro la Fiom e la resistenza operaia diffusa in tutta la Fiat». Vediamole.
«La signora Marcegaglia si distingue per particolare ed aggressiva volgarità. Nelle fabbriche del suo gruppo qualcuno dei suoi dipendenti ci lascia le penne ma questo non la induce ad avvicinarsi alla categoria dei lavoratori che non hanno la fortuna che lei ha avuto di nascere ricca in ricca famiglia con il rispetto che si usa tra le persone civili nei paesi civili».
Sacconi: «Si dichiara convinto della sconfitta della Fiom ed anche questa è una stranezza, una anomalia di un paese che ha un Ministro del Lavoro di parte, embedded del padronato che impiega il suo tempo a studiare con i suoi collaboratori come impedire l'accesso alle garanzie costituzionali agli operai, come rendere loro le leggi un groviglio inestricabile costoso ed inavvicinabile. Basti vedere l'allegato lavoro che è tutto un assedio leguleio all'art. 18 disseminato di trappole per scoraggiare il ricorso alla Magistratura ed anche per impedire a questa di intervenire se lo volesse».
Non manca la citazione del «meridionalista» Maroni, intervenuto «per spiegare che è importante garantire alla Fiat di restare in loco e quindi che bisogna oggi votare sì se si vuole "sicurezza nel territorio". Insomma chi non vota o vota a dispetto di Marchionne il no se proprio non è camorrista favorisce la camorra». E Ancona non manca di osservare che a Maroni «il fatto che il suo collega di governo, il sottosegretario Cosentino, inseguito da un mandato di cattura proprio per questioni di camorra, raccomandi come lui di non far dispiacere Marchionne, non lo disturba».
C'è poi la Regione Campania, che si è mobilitata «con in testa il Presidente Caldoro, figlio d'arte, approdato dal craxismo alla destra berlusconiana e l'intero consiglio regionale. Gli oligarchi della regione, tra i politici più pagati del mondo con stipendi di senatori ed annesse prebende e privilegi vogliono che gli operai isolino la cattivissima Fiom, approvino il programma Fiat, si facciano carico della concorrenza estera che dobbiamo sconfiggere per piazzare le nostre belle Panda». E non sta male la sottolineatura che «la Regione Campania ha alle spalle venti anni di sperperi bassoliniani e bipartisan, ha creato tanti amministratori di società miste del tutto inutili da fondare una vera e propria nuova classe di redditieri, non si sa quanti consulenti di consulenze che nessuno vede o legge siano a suo carico, non ha uno straccio di progetto di risanamento e sviluppo del territorio ma ritiene di appoggiare una dura scelta di impoverimento e sfruttamento dei suoi lavoratori e magari di fare del territorio campano una sorta di zona franca per investitori allergici al rispetto dei contratti e delle leggi».

Il prezzo

L'Italia agli Europei 2008 uscì a testa alta dopo aver perso 4 a 2 ai rigori con la Spagna. Eppure questo non bastò per mantenere Donadoni al suo posto. C'è sempre gran desiderio nella dirigenza calcistica di figure di merda galattiche, e così nacque la pensata di Lippi, come scrisse a quel tempo Franco Ordine: "La mossa di Abete ha anche risvolti politici interni. Alla rielezione del 2009 si presenta con un Ct saldo in sella e un eventuale rivale (Matarrese) «azzoppato» oltre che dalla contestazione interna alla Lega di Milano (la serie B in rivolta) da un episodio verificatosi a Berna. Dopo lo 0 a 3 dall’Olanda, incrociando Materazzi, don Tonino si lasciò scappare un «che figura di m... avete fatto» che l’interista corresse al volo («avete? No, abbiamo fatto») trasmettendo al gruppo dello spogliatoio la collera per quel giudizio feroce".
Figure di merda contrattate a caro prezzo. Sempre Ordine: "Definito il costo dell’esonero del Ct triste y solitario, circa 550 mila euro la penale fissata sul contratto per la rescissione unilaterale dell’intesa biennale. Da negoziare, invece, il contratto per il Ct campione del mondo e il suo staff. E qui emergono le prime difficoltà. Lippi si dimise al ritorno dal trionfo di Berlino contando su uno stipendio annuo di 1 milione e 100 mila euro al netto delle trattenute fiscali, poco più di 2 milioni per il bilancio federale. Due anni dopo, con la stella sul petto e la casacca di salvatore della patria, chiede un sostanzioso ritocco: 2 milioni netti l’anno, oltre che l’assunzione di uno staff numeroso che parte dal vice Pezzotti e dall’assistente Peruzzi e si espande fino al medico Castellacci. Sul punto Abete intende resistere per due motivi: 1) per riaffermare il primato della federcalcio nella trattativa e nel rapporto; 2) per far pesare a Lippi la scelta di abbandonare il club Italia senza un giustificato motivo. Chi conosce il temperamento mite di Abete e il carattere impulsivo di Lippi ipotizza un accordo economico, e sull’allestimento dello staff, entro una settimana (1,5 milioni la cifra intorno alla quale può maturare la firma)."
La figuraccia di ieri è stata decisa allora in «tre giorni per chiudere la parentesi Donadoni, una settimana per riaprire l’era Lippi, parte seconda». È evidente che Giancarlo Abete, il cui messaggio alla nazionale è già sui libri di storia («Un grosso in bocca al lupo a tutti; abbiamo una grande storia da difendere e cercheremo di farlo con orgoglio. C'è consapevolezza della forza del gruppo ma anche di quella dei nostri avversari»), non solo dovrebbe dimettersi ma proprio sparire dal calcio italiano. Non prima però di aver fatto fede alle sue parole di giorni fa: «Il dibattito che si è aperto sui premi degli azzurri mi sembra un dibattito più di politica in senso stretto che non di politica sportiva. Noi siamo in linea con la politica che fa il Coni: il presidente Petrucci ha ricordato di essere attenti ai costi e su questa linea vogliamo andare avanti. Tutte le risorse che arriveranno ai giocatori arriveranno dai risultati sul campo». Non un euro, dunque.

giovedì 24 giugno 2010

Titanic

Il Corriere dello Sport il 14 giugno in una corrispondenza di Luigi Ferrajolo da Città del Capo diceva parlando della rappresentativa della Figc: «Qualcuno ancora in gamba, altri sfioriti, poi i giovani da mettere alla prova e comunque non dotati di straordinario talento. Lippi cerca una magica fusione tra i suoi affezionati vecchietti e i nuovi arrivati, ma siamo ormai all'esordio e nessuno può dire quale sarà il risultato finale. Anche le scelte del ct sono state sinora sofferte, a volte contraddittorie. Non si è ancora intravista una squadra vera, compatta, con una sua identità definita. Abbiamo assistito a tentativi, a squarci di gioco (pochi) e a qualche brutta figura. La nazionale con cui Lippi si è qualificato più o meno agevolmente è stata messa in discussione, con ritocchi e modifiche sostanziali. Lippi garantisce sul suo gruppo e c'è da credergli, se non altro per quanto è riuscito a fare quattro anni fa. Proprio il gruppo dovrebbe essere la risorsa segreta, la forza collettiva di questa Italia». Insomma ridotti a propaganda come, per dire, le armi segrete di Hitler e del Duce di memoria storica.
Siamo finiti ultimi: è null'altro, per buttarla lì, che una sorta di legge del contrappasso che si richiama a principi etici ed economici. Parliamo di ingaggi. Nel nostro girone c'erano il Paraguay, guidato da Martino, ingaggio da 245 mila euro, agli ottavi; la Slovacchia, guidata da Weiss, ingaggio 215 mila euro, agli ottavi. In entrambi i casi un bilancio costo/risultato positivo. Poi Nuova Zelanda, guidata da Herbert, ingaggio 800 mila euro, terzo posto nel girone, non un grande affare. E poi noi, Italia, Marcello Lippi, 3 milioni di euro, il secondo c.t. dopo Capello (8,8 milioni di euro) tra i più pagati al mondo. Risultato estremamente deludente per degli ex campioni del mondo: ultimo posto del girone, due punticini raggranellati con due più o meno fortunosi pareggi. Peggio di noi, qualcuno dirà, ha fatto la Francia, ex vicecampione. Certo, ma il buon Domenech portava a casa solo, si fa per dire, 560 mila euro. Le cifre degli ingaggi, per chi si ponga il problema, sono tratte da La Gazzetta dello Sport.

Stile Fiat

DirittiDistorti.it la scorsa settimana aveva divulgato una lettera inviata ai lavoratori di Pomigliano dagli operai della Fiat Polonia dello stabilimento di Tychy. Mi sembra cosa utile trascrivere qui il testo, anche se a giochi fatti, in modo da contribuire a che anche questa testimonianza trovi una minima ulteriore possibilità di divulgazione.
«La FIAT gioca molto sporco coi lavoratori. Quando trasferirono la produzione qui in Polonia ci dissero che se avessimo lavorato durissimo e superato tutti i limiti di produzione avremmo mantenuto il nostro posto di lavoro e ne avrebbero creati degli altri. E a Tychy lo abbiamo fatto. La fabbrica oggi è la più grande e produttiva d’Europa e non sono ammesse rimostranze all’amministrazione (fatta eccezione per quando i sindacati chiedono qualche bonus per i lavoratori più produttivi, o contrattano i turni del weekend).
A un certo punto verso la fine dell’anno scorso è iniziata a girare la voce che la FIAT aveva intenzione di spostare la produzione di nuovo in Italia. Da quel momento su Tychy è calato il terrore. Fiat Polonia pensa di poter fare di noi quello che vuole. L’anno scorso per esempio ha pagato solo il 40% dei bonus, benché noi avessimo superato ogni record di produzione. Loro pensano che la gente non lotterà per la paura di perdere il lavoro. Ma noi siamo davvero arrabbiati. Il terzo “Giorno di Protesta” dei lavoratori di Tychy in programma per il 17 giugno non sarà educato come l’anno scorso. Che cosa abbiamo ormai da perdere?
Adesso stanno chiedendo ai lavoratori italiani di accettare condizioni peggiori, come fanno ogni volta. A chi lavora per loro fanno capire che se non accettano di lavorare come schiavi qualcun altro è disposto a farlo al posto loro. Danno per scontate le schiene spezzate dei nostri colleghi italiani, proprio come facevano con le nostre.
In questi giorni noi abbiamo sperato che i sindacati in Italia lottassero. Non per mantenere noi il nostro lavoro a Tychy, ma per mostrare alla FIAT che ci sono lavoratori disposti a resistere alle loro condizioni. I nostri sindacati, i nostri lavoratori, sono stati deboli. Avevamo la sensazione di non essere in condizione di lottare, di essere troppo poveri. Abbiamo implorato per ogni posto di lavoro. Abbiamo lasciato soli i lavoratori italiani prendendoci i loro posti di lavoro e adesso ci troviamo nella loro stessa situazione.
E’ chiaro però che tutto questo non può durare a lungo. Non possiamo continuare a contenderci tra di noi i posti di lavoro. Dobbiamo unirci e lottare per i nostri interessi internazionalmente. Per noi non c’è altro da fare a Tychy che smettere di inginocchiarci e iniziare a combattere. Lavoratori, è ora di cambiare».
Tychy, June 13, 2010

Pomigliano, the day after

Nel day after del voto di Pomigliano svolgere qualche considerazione, qui e magari in seguito, è cosa utile. Soprattutto evidenziando della vicenda alcuni aspetti taciuti dai media dell'arco parlamentare.
Ricordo l'esito: altissima affluenza ma non è stato un voto bulgaro, oltre un terzo dei lavoratori ha detto no all'intesa. I numeri: votanti 4.642 (95%), favorevoli all'accordo 2.888, contrari 1.673, 20 le schede bianche e 59 le nulle. Insomma, i sì si sono fermati al 62,2%, i no al 37,8%. Per fare un parallelo in termini percentuali, e per meglio far capire i numeri, i no hanno totalizzato molto di più di quello che il Pd ha portato a casa di volta in volta nelle ultime tornate elettorali. Un voto contrario che non può che lasciare un segno profondo e lacerante, tenendo poi conto che il sì era sponsorizzato da tutto l'apparato mediatico (tv e giornali) dell'arco parlamentare e dai minculpop della triplice e di Confindustria. Una risposta che preannuncia segni di una nuova «resistenza». E che Fiat sia andata nelle prime considerazioni del risultato con i piedi di piombo ha la sua valenza.
Ieri la confederazione dei Cobas aveva equiparato il referendum di Pomigliano al voto al tempo del fascismo. «La Fiat ha pagato la giornata a tutti i lavoratori facendoli ritornare dalla cassa integrazione, impedendo ai delegati Fiom e Cobas di entrare nello stabilimento ma lasciando libertà di propaganda ai sindacati di regime», e quindi la denuncia: «Il referendum di Pomigliano è una truffa in aperto contrasto con lo Statuto dei diritti dei lavoratori (legge 20 maggio 1970, n. 300), ai seggi si trovano rappresentanti dell'azienda con continue intimidazioni ai danni dei lavoratori». E quindi il commento: «È questa la democrazia della Fiat e dei suoi protettori politici che vanno dal Pdl al Pd!».
Secondo i Cobas il quesito del referendum è privo di ogni fondamento «poiché ai lavoratori viene posta una domanda ambigua, ossia se sono d'accordo o contrari a far venire la Panda nello stabilimento. È evidente che i lavoratori vogliano lavorare, il quesito è stato posto in termini ambigui e contradditori per strappare il voto favorevole occultando la vera natura di questo accordo».
I Cobas, infine, ne sono convinti: «le dichiarazioni di Epifani e Camusso hanno indebolito la posizione della Fiom e del sindacato di base contrario alla intesa di schiavitù». E bollano le dichiarazioni dei massimi dirigenti sindacali nell'ultimo Congresso Cgil come «dichiarazioni irresponsabili e nostalgiche dei tempi della concertazione, subalterne alla Confindustria e ad una politica che dal Pd al Pdl ha sposato le ragioni di Confindustria».
Lo Slai cobas Fiat Alfa romeo e terziarizzate, sempre ieri, annunciava l'esito dicendo che il referendum aveva sconfitto «l'asse Marchionne-Bersani-Berlusconi che di concerto con CGIL-CISL-UIL, cercava di imporre la controriforma eversiva degli art. 40 e 41 della Costituzione - quella "reale e di fatto" perché all'interno dei rapporti di produzione e di quelli sociali». Aggiungendo e sottolineando: «L'ultima volta ci provarono in Italia Valletta e Mussolini».
Nel comunicato si sottolinea che «gli operai dell'Alfasud con lo Slai cobas hanno sconfitto il tentativo di porre in moderna schiavitù i lavoratori dell'industria e del settore pubblico: la sconfitta della Fiat a Pomigliano è la vittoria di tutti i lavoratori delle fabbriche Fiat in Italia e nel mondo perché da oggi siamo tutti più forti».
Per lo Slai cobas «la sconfitta della Fiat è data dal suo silenzio!». E rincara: «Altro che "chiusura della fabbrica e delocalizzazione": Marchionne ha fatto la figura del "quaqquaraqquà" e la Fiat si è dovuta "piegare e arrendere" di fronte alla determinazione dei lavoratori di Pomigliano che, non accettando alcun ricatto, non solo hanno dato a "tutti" una grande lezione di democrazia, ma sono diventati anche la prova visibile della "possibilità" di ricostruzione di un nuovo e "pulito" Movimento Operaio».

mercoledì 23 giugno 2010

Il vulnus democratico dei CIE

Sinistra Critica e Attac, a fianco dei migranti e dei lavoratori per i diritti di cittadinanza, per la dignità e la tutela del lavoro e contro ogni razzismo, denunciano su «Il Pane e le Rose» la situazione dei CIE, i centri di identificazione ed espulsione, «centri di detenzione» che «costituiscono una drammatica lesione dei diritti e della dignità dei migranti e sono indegni di un paese civile e di uno stato di diritto». «Detenzione amministrativa fino a 6 mesi, condizioni di costante e terribile sovraffollamento, soventi abusi da parte delle guardie o atti di autolesionismo», questo il vulnus evidenziato. Ma Sinistra Critica e Attac puntato il dito anche su un altro aspetto di queste «istituzioni razziste», lo sperpero di denaro pubblico da esse costituito: «circa 50/60 euro al giorno per detenuto è la spesa che lo Stato deve sostenere sotto forma di rimborso ai gestori privati di queste "prigioni etniche", senza considerare le spese per polizia e carabinieri addetti alla sorveglianza». «Pensiamo - dicono - che sarebbe certamente più degno e intelligente che il governo usasse queste risorse per estendere gli ammortizzatori sociali a tutti i lavoratori e a tutte le lavoratrici e per evitare la chiusura delle aziende in crisi. Anche perché - aggiungono - molti lavoratori migranti, proprio per la perdita del posto di lavoro rischiano di finire rinchiusi nei CIE».
Motivo dell'intervento è la notizia della progettata costruzione di un CIE a Verona, che sarà uno dei più grandi d'Italia. In proposito Sinistra Critica e Attac si pongono la domanda: «Da chi sarà gestito? Qualche pia opera cattolica o qualche cooperativa rossa?». E aggiungono: «Certo è che chiunque si apprestasse a gestirlo sarebbe complice di quel razzismo istituzionale portato avanti dal governo Berlusconi così come dal sindaco Tosi (non a caso condannato per propaganda razzista) che legittima, di fatto, la violenza xenofoba e lo sfruttamento selvaggio della forza lavoro migrante».
Sinistra critica e Attac ricordano come tali «centri di detenzione» siano stati concepiti dalla legge Turco Napolitano. E rivolgono una pesante critica al PD: «Riteniamo ipocrita la presa di posizione espressa dal Partito Democratico che nelle amministrazioni locali, in diverse città (Parma o Padova, ad esempio) in nome della sicurezza, applica politiche repressive e razziste. Ed infatti - riferendosi a Verona - la contrarietà del PD si è espressa a partire dal "disagio che il CIE arrecherebbe ai cittadini", dai "problemi di sicurezza" e non dal vulnus democratico che esso effettivamente costituisce».

Bossi mondiale

Vien voglia di dire: piano, ragazzi! di fare il tifo per la nazionale non ce lo ha imposto il medico! E poi la nazionale non è un'istituzione stabilita dalla Costituzione. È una rappresentativa di una associazione di squadre multimilionarie che danno da vivere e profumatamente a degli strapagati professionisti. L'«amor di patria» non c'entra nulla, non è lì a difendere i confini del «sacro suolo» o l'integrità fisica di noi cittadini. E non ci rappresenta minimamente, non rappresenta minimamente il popolo perché altrimenti ruoli come quello del citti Lippi o lo stesso organico della squadra dovrebbero essere sottoposti al suffragio popolare o quanto meno a deliberazione del Parlamento. E, dunque, dove sta lo scandalo se un ministro della Repubblica, Bossi, esprime i suoi dubbi facendo mente a precedenti storici? Questa volta non ha offeso la Repubblica o la sua bandiera. E poi, zelanti nostalgici, avete di che consolarvi: Miss Padania ha dichiarato «Io tifo per gli azzurri, mi sento italiana».

martedì 22 giugno 2010

Per un nuovo modello di pubblico

I tre quesiti referendari proposti dal Forum italiano dei movimenti per l'acqua per l'abrogazione del decreto Ronchi sulla privatizzazione dell'acqua, hanno raccolto in meno di due mesi un milione di firme. La gestione dell'acqua non può essere regolata dal mercato. È un bene troppo prezioso e necessario perché siano le logiche industriali a regolarne la distribuzione. Il messaggio è chiaro ed è passato visto il successo della raccolta. Centinaia le sigle di movimenti che hanno reso possibile il risultato straordinario, dai cattolici progressisti ai centri sociali, interi pezzi di sindacato, soprattutto Cgil e Cobas insieme alle associazioni di consumatori, tutto il mondo ambientalista e non sono mancati gli stessi lavoratori delle società che gestiscono l'acqua. E poi, come scriveva Andrea Palladino su il manifesto due giorni fa, i cittadini comuni, quell'onda che progressivamente cresce attorno al popolo viola, le piazze per la difesa del diritto all'informazione, pezzi di quell'Italia che vuole capire perché siamo il paese più autoritario, più liberista e meno libero d'Europa.
I partiti della sinistra hanno accolto l'invito del forum a dare una mano senza protagonismi: Federazione della sinistra, Sel, Verdi, Sinistra critica e PCdL. Fanno parte del comitato di sostegno al referendum, dando un sostegno deciso ma autonomo. L'ostacolo è venuto dai partiti parlamentari, anche dell'opposizione: l'Idv prima a chiedere un posto in prima fila nel comitato, dopo a presentare un quesito referendario alternativo, che mantiene il modello privato come una delle possibili scelte di gestione, con una raccolta autonoma di firme. E il Pd che vorrebbe discutere una nuova legge in Parlamento. Il segretario Bersani in aprile in una conferenza stampa si è espresso ufficialmente sull'inefficacia del referendum e seppure con diverse sfumature contro la totale gestione pubblica. Come evidenziava Palladino, «l'impressione è che nell'alta dirigenza conti probabilmente molto il Pd "di governo", quella parte del partito che è storicamente vicina alle gestioni miste pubblico private - vedi il modello Toscana, o il colosso Acea - oggi in forte difficoltà rispetto ad un referendum chiaro e radicale». Secondo Cittadinanzattiva c'è un business di dieci miliardi di euro in dieci anni.
Quello che emerge dall'evento del milione di firme raccolte è ciò che Marco Bersani e Corrado Oddi del Forum indicano come «una nuova narrazione sull'acqua e dei beni comuni, frutto di un decennio di sensibilizzazione e mobilitazione sociale», che dimostra come su questo tema si sia già vinto culturalmente. E a testimoniarlo sono «le scomposte reazioni dei fautori delle privatizzazioni - Governo, confindustria e Federutility in primis - i quali, se solo pochi anni addietro potevano rivendicare apertamente il dogma del "privato è bello", sono oggi costretti a giocare in difesa, a negare di voler privatizzare, a diffondere cortine fumogene sul pericolo referendario», consapevoli di aver perso il consenso.
Naturalmente si è solo al primo passo. A luglio le firme verranno depositate in Cassazione e poi in primavera il voto: «perché dalla vittoria culturale si passi alla vittoria politica, occorrerà trasformare questo milione di firmatari in almeno 25 milioni di votanti».
I tre quesiti si spiegano perché si vogliono eliminare tutte le norme che in questi anni hanno spinto verso la privatizzazione dell’acqua, perché si vuole togliere l’acqua dal mercato e i profitti dall’acqua. Dal punto di vista normativo, il combinato disposto dei tre quesiti, comporterebbe, per l’affidamento del servizio idrico integrato, la possibilità del ricorso al vigente art. 114 del Decreto Legislativo n. 267/2000. L'articolo prevede il ricorso ad enti di diritto pubblico (azienda speciale, azienda speciale consortile, consorzio fra i Comuni), ovvero a forme societarie che qualificherebbero il servizio idrico come strutturalmente e funzionalmente «privo di rilevanza economica», servizio di interesse generale e scevro da profitti nella sua erogazione. Verrebbero di conseguenza poste le premesse migliori per l’approvazione della legge d’iniziativa popolare, già consegnata al Parlamento nel 2007 dal Forum italiano dei movimenti per l’acqua, corredata da oltre 400.000 firme di cittadini. E si riaprirebbe sui territori la discussione e il confronto sulla rifondazione di un nuovo modello di pubblico, che può definirsi tale solo se costruito sulla democrazia partecipativa, il controllo democratico e la partecipazione diretta dei lavoratori, dei cittadini e delle comunità locali.

Vamos a la playa e dintorni

Su «Liberazione», quotidiano del Partito della Rifondazione Comunista, mercoledì 16 giugno si poteva leggere in prima pagina una lettera di Vittorio Rieser, presentata col titolo «Mameli, il tricolore e la Padania», che, per molti versi gustosa, trascrivo qui per chi dei miei lettori l'avesse persa.
«Caro direttore, ti scrivo su un tema lontano dai miei argomenti abituali, cioè a proposito del dibattito che sta imperversando sull'inno e sulla bandiera nazionali. Inno e bandiera che vangono contestati dalla Lega e difesi a spada tratta sia dalla "destra patriottica" che dalla "sinistra moderata".
Mi sembra che ambedue le parti presentino varie contraddizioni. Cominciamo dalla bandiera. Il tricolore nacque come bandiera, derivata dal tricolore della rivoluzione francese, a fine 700 nella Repubblica Cispadana (a Reggio Emilia): perché la Lega ce l'ha con un simbolo "padano"? Va bene che c'è il "cis", ma vuol solo indicare la riva sud del Po, sempre Padania è. In quanto alla destra patriottica, probabilmente crede che l'abbiano inventato i Savoia. Tutto sommato, anche se (come spero alcuni altri) preferirei la bandiera rossa, mi sento provvisoriamente di difenderlo, in nome delle sue origini rivoluzionarie.
Più contraddittoria ancora è la situazione sull'inno nazionale. L'Inno di Mameli ha parole che - se non si sapesse che è dell'Ottocento, e composto da una degnissima persona - uno lo prenderebbe per uno degli "inni del regime": Non parliamo poi della musica, orrenda e perfino comica nel suo "rapporto metrico" con le parole.
Il coro del Nabucco, sostenuto dalla Lega, è un coro degli ebrei prigionieri dei babilonesi; è curioso che non piaccia alla "sinistra-bene" e alla "destra-bene": si vede che gli ebrei piacciono quando (travestiti da Stato d'Israele) sono carcerieri ed oppressori; quando sono prigionieri ed oppressi, invece, li si lascia tranquillamente alla loro condizione.
Un'interessante alternativa è offerta da "la gatta" di Gino Paoli, proposta al posto dell'inno di Mameli in qualche zona del Veneto: bella canzone, però forse un po' lontana dalle funzioni di inno nazionale. Mi è venuta in mente una proposta innovativa: "vamos a la playa" degli indimenticabili Righeira. È vero che non è in italiano, ma è composta da padani doc, e poi le parole potrebbero passare per uno dei tanti dialetti padani che si vuole giustamente rivalutare. Inoltre, essa esprime almeno in parte l'attuale "Volksgeist", cioè uno spirito (ahimè) abbastanza diffuso in questi tempi.
Scusa la "digressione frivola", e buon lavoro.
Vittorio Rieser»

lunedì 21 giugno 2010

Il re di Ch'in

Il libro di Fung Yu-Lan, Storia della filosofia cinese, è stato uno dei libri letti in prima liceo. Mi è ritornato tra le mani risistemando uno scaffale della libreria del mio studio. E così sono ritornato a leggiucchiarlo qua e là. Ecco un'altra citazione tra le tante interessanti: «Si dice che "la storia non si ripete" ma si dice anche che "non c'è nulla di nuovo sotto il sole"; forse la verità sta nel mezzo.»
O ancora questo dialogo riportato dal Mencio: «Re Hi di Liang domandò al Maestro: "Come il mondo potrà essere in pace?". Mencio rispose: "Quando ci sarà unità ci sarà pace". "Ma chi può unificare il mondo?" chiese il re: "Colui che non gode nell'uccidere gli uomini, quegli può unificarlo" rispose Mencio (1 a, 6).»
I cinesi nel 221 a. C. trovarono nel re di Ch'in l'unificatore di «tutto ciò che è sotto il Cielo», t'ien-hsia, il termine che Fung Yu-Lan traduce con mondo. E per duemila anni vissero sotto un solo governo che reggeva tutto il «mondo».
Scrive Fung Yu-Lan: «L'unificazione della Cina da parte di Ch'in fu accolta dai Cinesi del tempo con lo stesso animo con cui noi accoglieremmo oggi l'unificazione del mondo. C'è da chiedersi se mai il mondo intero troverà il suo re di Ch'in.

domenica 20 giugno 2010

Notturno

«La religione e la poesia sono entrambe espressioni della fantasia, mescolano immaginazione e realtà, ma la religione, a differenza della poesia, considera vere le proprie creazioni.
Quanto la poesia presenta non è realtà; la poesia lo sa e se inganna se stessa è consapevole dell'inganno. La poesia non è scientifica, eppure non contraddice la scienza, appaga i nostri affetti senza ostacolare il progresso dell'intelletto». (da Fung Yu-Lan, Storia della filosofia cinese).

Addio compagni

Per molti versi è la notizia politica del giorno. Cinque giovani dirigenti romani e pugliesi del Partito democratico hanno preso carta e penna e scritto al segretario Pier Luigi Bersani perché indichi «una strada nuova». I loro nomi, Luca Candiano, Veronica Chirra, Matteo Cinalli, Sante Calefati e Mariano Ceci. Motore dell'iniziativa una semplice esigenza: «Abbiamo l'età del Pd e vorremmo che anche la nostra tradizione politica fosse quella del Pd». Cioè, basta con quei nostalgici «compagno» e «compagna» ormai d'altri tempi, buoni soltanto per tenere legato a filo doppio lo zoccolo duro della militanza che non rappresenta il futuro del partito, ma ne condiziona le scelte portandolo all'immobilismo: un convitato di pietra al tavolo del panorama politico italiano.
Così i cinque giovani: «Ti scriviamo perché vorremmo renderti cosciente del nostro disagio di fronte a parole e comportamenti che guardano in maniera ingiustificatamente romantica al passato, vogliamo parlarti di come questo nostro disagio, di fronte a una nostalgia che acceca la nostra prospettiva del partito e del paese, si stia trasformando in delusione e di come questa delusione ci stia colpendo ai fianchi».
E ancora: «Le parole compagni o compagne, la festa dell'Unità, sono parole e concetti che noi rispettiamo per la tradizione che hanno avuto ma che non rientrano nel nostro pensare politico e che quindi facciamo fatica ad accettare. Quando ieri al Palalottomatica alcuni relatori hanno iniziato il loro discorso con il trapassato cari compagni e care compagne noi non ci siamo sentiti destinatari del loro messaggio, per noi i compagni sono quelli di scuola e se qualcuno ha da dirci qualcosa preferiamo che ci chiamino col nostro nome: democratici. È così che dobbiamo essere chiamati. È così che bisogna chiamare il popolo del Pd».
E proseguono: «Noi riconosciamo che il Pci ha in qualche modo contribuito alla nascita del Pd. Ma la sua funzione si è esaurita, questo modo di fare e di intendere la dialettica all'interno del Pd deve essere abbandonato, altrimenti si rischia di tenere fuori e lasciare disorientati chi come noi con le tradizioni passate non ha niente in comune, chi pensa al Pd come al proprio e unico partito». E adesso, dichiarano, «è tempo di costruirci una tradizione tutta nostra e chiediamo a te, segretario del nostro partito di indicarci la strada giusta, che non sia una strada già percorsa, ma che sia una strada nuova. Non vogliamo insegnarti il tuo mestiere, e né minacciare di andarcene perché abbiamo creduto nel Pd e vogliamo ancora crederci. Vogliamo soltanto che ci venga data una tradizione nuova, plurale, riformista e democratica. Una tradizione che in quanto nativi del Pd abbiamo il diritto di avere. Una tradizione che in quanto segretario del Pd tu hai il dovere di darci».
C'è, dunque, un'inquietudine che serpeggia all'interno del Pd. E la domanda sorge spontanea: fino a quando la dirigenza, ad ogni livello, continuerà a nascondere ai militanti di base «duri e puri» che sono iscritti oggi a qualcosa di diverso che non li rappresenta più?

Lavorare come cinesi

Operaio del gruppo Fiat a Villar Perosa negli anni Settanta, Paolo Ferrero, segretario di Rifondazione comunista, conosce bene i suoi polli, anzi gli Agnelli. Parlando venerdì a Brembio, alla Festa di Liberazione, ha detto ai giornalisti riferendosi a quanto sta accadendo allo stabilimento di Pomigliano d'Arco: «È un ricatto di tipo mafioso con cui si vuole obbligare i lavoratori italiani a lavorare come i cinesi». E sulla crisi e come venirne fuori: «È necessario bastonare pesantemente la speculazione, tassare le rendite finanziarie e le transazioni speculative, far pagare di più i ricchi e aumentare gli stipendi».
È intervenuto anche su una questione, quella delle bollette rincarate, invitando quanti si sono finora mobilitati ad andare avanti perché così «costringeranno quei “signori” a prendere i soldi da un’altra parte. Negli ultimi anni le tariffe di energia e acqua, sono aumentate molto più dell’inflazione e non è tollerabile».
Duro anche il giudizio sul sostegno anche operaio alla Lega nord: «La Lega ha vinto in tutto il nord e difatti non si è mai stati male come adesso», e ancora: «La Lega [gli operai] li sta prendendo in giro dicendo che la causa dei loro disagi sono gli immigrati, invece sono i ricchi troppo ricchi».
Paolo Ferrero era a Brembio per presentare il suo ultimo libro «Quel che il futuro dirà di noi».

Un sorriso non guasta

Ricevere la newsletter Para-news di Paolo Dune, scrittore, satiro, aforista è sempre motivo quantomeno di un rasserenante sorriso. È di ieri l'arrivo dell'ultima (n. 47). Ne traggo e rilancio alcune delle «news» più «riuscite».
1. Creata la prima cellula vivente artificiale. Al suo prima vagito si è subito divisa in due. Chiaro segno che è del PD. La Chiesa, in fondo, è soddisfatta. Si aprono nuovi orizzonti di evangelizzazione.
Secondo alcuni è la prova che Dio esiste. Secondo altri, è la prova che un giorno esisterà.
2. Secondo il Vaticano i preti pedoflili andranno all'Inferno. È un notevole progresso. Fino a qualche anno fa li lasciavano andare nel Limbo...
3. Cominciano i mondiali. Il Pd punta su Renzo Bossi per dividere il governo.
4. Il disegno di legge sulle intercettazioni impedirà ai giornalisti di pubblicare ciò che i magistrati non potranno più intercettare.
Finalmente il premier potrà andare a mignotte senza farlo sapere a mezzo mondo.
5. La Mafia ce l'ha con Spatuzza perché ha parlato coi magistrati. Per ritorsione, gli ha tolto la scorta.
Aggiungo di mio una «para-riflessione» alla quarta sulle intercettazioni. In definitiva è «sensato» che la legge sulle intercettazioni se la prenda con i giornalisti: intercettazioni soppresse, pubblicare il nulla non è gran segno di professionalità. Agli ideatori della legge dovrebbero dare la presidenza onoraria dell'Ordine dei giornalisti.

Buonanotte

«Il saggio si tiene indietro ed è sempre davanti. Resta fuori, ed è sempre dentro. Non è forse perché non si agita per fini personali che realizza fini personali?» (Lao-tse, cap. 7).
«Egli non si mette in mostra e tutti lo vedono. Non si fa valere e riesce. Non vanta il proprio lavoro e persiste. Non scende a contesa e nessuno può litigare con lui» (Lao-tse, cap. 22).
Ottime parole per una notte serena.

sabato 19 giugno 2010

Ringrazio di cuore

Mi sento di ringraziare quanti ieri direttamente o indirettamente mi hanno espresso la loro solidarietà per l'ingiustificata «caccia» attuata nei miei riguardi attraverso la stampa. Ritengo comunque, che al di là degli scambi dialettici tra cittadino e rappresentanza politica, la vicenda non vada enfatizzata. Il nostro, è notorio, sta vivendo un difficile momento sul piano lavorativo, una sorta di mobbing politico, rispetto al quale, come vittima, ha tutta la mia solidarietà. Mi è noto che sia sul procinto di cambiare datore di lavoro, pur rimanendo sempre nel pubblico. Gli auguro di cuore di ritrovare nella nuova collocazione tutta la serenità necessaria di cui ciascuno di noi ha diritto sul piano personale.
Nei giorni scorsi ho inviato una replica al quotidiano Il Cittadino che, avendo promesso a chi legge queste note di pubblicare pure nel mio blog, faccio seguire a queste poche parole. Ecco il testo:
«Mi scuso se sono costretto ad intervenire ancora, ma da ex giornalista collaboratore del Cittadino ho rispetto per i lettori del giornale e, dunque, ritengo doverose alcune precisazioni in merito allo sfogo del sindaco di Brembio. Non intendo intervenire sulle ragioni che pone a giustificazione del suo sfogo, non solo perché interessano poco i lodigiani, ma anche perché come ben sanno i brembiesi sono esagerazioni dettate da malcelata intolleranza verso le voci fuori dal coro. Solo per inciso la sua lettera, questa sì, sfiora e calunnia e diffamazione e contiene qualcosa che si potrebbe identificare con la parola «minaccia». Intervengo, dunque, soltanto per precisare alcuni punti della mia biografia che il sindaco mostra di non conoscere nonostante io sia stato capogruppo di minoranza in comune negli ultimi due mandati - o forse più semplicemente mi confonde con altra persona. Perché trovo difficile riconoscermi in quel «cose queste che nella mente del Fumich giustificano la costante sconfitta elettorale che da ormai trent'anni (io ancora non ero in politica e già lui perdeva) caratterizzano le sue performance politiche brembiesi».
Come ben sa, direttore, negli anni settanta ero stato iscritto al Pci e fino al 1978 sono stato vicesegretario di sezione a Brembio. Poi, uscito dal partito a motivo di forti divergenze sul progetto di localizzare la discarica comprensoriale a Brembio, sono stato accolto da don Mario Ferrari tra i cronisti del suo giornale e sostanzialmente ho smesso la politica attiva fino a quando nel 1999 l'allora minoranza non mi ha tirato dentro in una lista civica che si chiamava «Brembio democratica». Guardi un po' l'ironia delle denominazioni. Aggiungo ancora, come curiosità, che nel lasso di tempo per così dire sabbatico, nel periodo di Cappelletti sindaco, ho anche gestito la redazione della «Gazzetta», il periodico comunale. Dopo i due mandati consecutivi in cui ho retto le sorti della minoranza, o di parte della minoranza per essere più precisi, e siamo alle elezioni del 2009, ho rinunciato a ripropormi in lista come consigliere, ritenendo che dieci anni in comune fossero un tempo giusto per dare spazio al rinnovamento, anche se l'esito finale non ha soddisfatto le aspettative.
Ritengo che non occorra aggiungere altro se non invitare quanti leggono questa lettera di visitare il sito http://www.fattieparole.info/, che non è il mio sito personale, o il mio blog o il mio sito personale facilmente rintracciabili quest'ultimi attraverso Google, per verificare la bontà o meno delle affermazioni del sindaco Sozzi.»

venerdì 18 giugno 2010

Mani dietro la schiena!

So che ogni volta che apriva bocca in Tv gli amici piddini si toccavano. Poi ha detto addio e sicuramente, e non solo Zoro, in molti hanno tirato un sospiro di sollievo. Questa mattina, ai microfoni di Sky Tg24 di nuovo lui, il belloccio oggi leader di Alleanza per l'Italia, a lanciare come Nostradamus una profezia. Francesco Rutelli ha detto: «Credo che la Lega farà cadere il governo Berlusconi da qui a un anno». Non ci sono state feste nelle strade, ma dicono i più di una catena di Sant'Antonio di mani che sparivano sotto i tavoli.
Ma da dove viene la convinzione del bel Francesco. Presto detto: «Questo perché avremo un federalismo che non corrisponderà al mito che se ne fa: il Nord ci guadagna, il Sud si risana, i conti tornano in equilibrio, e si compensa per le regioni più povere. È una cosa - ha sentenziato Rutelli - impossibile di fronte a manovre restrittive».
E dunque? Così tira le somme il leader di Api (che non è una benzina): «A mio avviso la Lega, da qui ad alcuni mesi, non ce la farà più a reggere un assetto politico in cui il federalismo costa, in cui il federalismo dimostra di non ridurre i centri di spesa e la questione bicolore Berlusconi-Lega in cui non c'è più Fini, non c'è più Casini, non starà più in piedi».
Nessuna notizia sulle mani di Fini e Casini.
Ma al di là dell'aspetto «mistico» che può far suonare come profonde le asserzioni del nostro, c'è da dire che il federalismo non c'è ancora e difficilmente vagirà nel lasso di tempo indicato al punto tale da voler buttare il bimbo con l'acqua sporca e, dunque, ciò di cui si disquisisce è il sesso degli angeli.
Più che fantasticare su una rottura dell'asse Arcore-Via Bellerio, l'opposizione parlamentare dovrebbe smetterla di fare il saggio sulla riva del fiume, rimboccarsi le maniche ed operare, non solo a parole, perché si affrontino i problemi vitali, ci si occupi del Paese e non delle fisime del Cavaliere.

La festa della sinistra

Da questa sera e fino a lunedì 28 giugno, a Brembio, presso il «Magazzino Comunale» in Piazza Europa, organizzata dal Circolo G.B. Maiocchi, si tiene la «Festa di Liberazione», la tradizionale festa del giornale del partito della Rifondazione Comunista. Tutto è pronto per la serata d'apertura, dal ristorante «Chez Charle», alla pizzeria, allo spazio giovani birreria e paninoteca, ai bar interno ed all'aperto dove si può consumare caffè, gelati, sangria e patatine fritte.




Tutte le sere ballo liscio con orchestre di nome. Si alternerano da stasera Alida, Viola e i Babos, Orchestra cinquanta, Toni e Pietro, Pierin e i Tobaris, Mario Ginelli, Cerri Band, Cardinali, Anna Rizzi e Di Maio Band. Non mancherà la tradizionale ruota a premi. Tutte le sere inoltre il GAP, il Gruppo di Acquisto Popolare lodigiano, col suo «carrello sociale» distribuirà prodotti di prima necessità. La festa sarà chiusa lunedì 28 con la «Tombola a Premi» curata dal GAP, con inizio alle ore 21.

Quel vizio assurdo

Ripensando alle vicende descritte quest'oggi anche nel blog, vien da chiedersi a cosa serva oggi un giornale come l'Unità, così ricco della sua storia politica, se poi gli esponenti del partito di riferimento non lo leggono, o se lo scorrono sono attenti solo alle parole d'ordine e non alle istanze che possono arrivare dalla base o per allargare dai meno addetti ai lavori. E se pure talvolta ne colgano anche l'esistenza, non mostrino nella prassi personale d'aver minimamente riflettuto su quelle quattro parole in croce che pure sono costate tempo e volontà militante a chi le ha messe nero su bianco.
Dico questo perché domenica ho notato in «Cara Unità», pagina 19 del giornale, una lettera di tal Mario Sacchi che lamentava una situazione seppur meno pesante di quella riguardante la mia persona, e che tuttavia con essa fa il paio nel denunciare quel vizio assurdo cui cedono personaggi politici, ad ogni livello della politica, quando si reputano supportati nei loro ragionamenti e decisioni da un divino afflato, incontestabile nella sua sacralità. Altri definiranno questo con termini più forti e meno banali, io mi limito a dirla insipienza politica, soprattutto se uno è investito nel suo ruolo da consenso popolare. Anni luce lontano il vecchio slogan «servire il popolo», oggi la tendenza è «servirsi del popolo» e usarlo per contrabbandare un'autorevolezza che troppo spesso alle prime difficoltà mostra di fondarsi sulla sabbia. Ma veniamo alla lettera del Sacchi pubblicata con un titolo, «Il cittadino non dovrebbe "fare politica"?» che già di suo mostra tutta l'emblematicità di una situazione diffusa. Scrive il lettore de l'Unità:
«Quando un cittadino, un’organizzazione di cittadini esprime delle idee, dei concetti che contrastano e criticano quelle dei politici di professione o i provvedimenti del governo e del Parlamento, non viene contrastato con e nel confronto delle argomentazioni, bensì si cerca di delegittimarlo accusandolo di "far politica", come se ciò fosse prerogativa assoluta ed esclusiva di un’elite definita. Così assistiamo ad Enrico Letta del Pd che lancia "l’accusa" al magistrato Armando Spataro che come cittadino esperto di diritto e di giustizia ha criticato certe sue dichiarazioni ed idee. Assistiamo al segretario della Cisl Bonanni che accusa, in ottima compagnia di Sacconi e di Cicchitto, la Cgil d’indire uno sciopero politico, mentre invece lui "tratta", magari con "quattro amici al bar", per la manovra economica, e c’è da chiedersi se, quando era al bar, ha parlato di sport o ha "fatto politica".»
E per di più il bello è che a pagina 20, subito dietro, c'è l'«Agenda rossa» di Luigi De Magistris, che titola «L'Europa strappi il bavaglio». Vabbè, si sa che è uno dell'Idv, del partito di Di Pietro, e forse per questo si passa ad altro. Peccato, però, perché l'articolo in rubrica contiene una frase illuminante: «Del resto: non più “penso dunque sono”, bensì “meno penso più conto”». Frase che va perfettamente a braccetto con la filosofia del «potente» o presunto tale che ad ogni latitudine politica non ama i rompicoglioni.
Certamente, De Magistris non sta dicendo d'una bega senza importanza in un paesino sconosciuto ai più, sta parlando di Lui e di come stia crescendo l’insofferenza per tutto ciò che è diverso dal pensiero unico dominante ed in che maniera si stiano raffinando le tecniche di criminalizzazione del dissenso. Ma come un tempo fascista era Mussolini, fascista un podestà qualunque, fatto il debito rapporto di scala anche oggi l'attuale modello vincente tende a riprodursi ad ogni livello. Viviamo insomma, in un Paese senza speranza.

giovedì 17 giugno 2010

Non sono Dan Brown

«Sono pronto a portare Fumich in tribunale», così il titolino messo dalla redazione del quotidiano Il Cittadino di Lodi a sintesi della lettera del sindaco di Brembio pubblicata oggi. Chi ha seguito tutta la questione su Fatti e Parole ne ha chiari i termini, e, dunque, è inutile un dilungarsi in spiegazioni. La lettera stessa replica, per così dire, tra le righe a se stessa. Se fossi un Dan Brown e il sindaco di Brembio un argomento da successo letterario, forse avrei io i mezzi per chiamarlo in giudizio per calunnia, diffamazione e anche minacce. Ma così non è al momento. E, dunque, poiché non è masochismo, mi accontento di riportare di seguito la sua lettera che si commenta da sé. Naturalmente per rispetto dei lettori del quotidiano lodigiano due righe saranno inviate al giornale, anche per precisare alcune cose riguardanti la mia biografia, che il sindaco evidentemente non conosce - o mi confonde con altra persona -; e una volta pubblicate, per completezza d'informazione saranno anche qui riportate.
«Caro Direttore, le rubo poche righe per commentare alcune affermazioni del Signor Fumich fatte nella rubrica delle lettere del suo giornale, aventi ad oggetto, alcune mie affermazioni rilasciate nell’ambito di un commento sulla nuova stagione di contenimento della Nutria, partita a Brembio nei giorni scorsi.
Parto dall’affermazione del Signor Fumich sul fatto che la Nutria non è un problema da affrontare ma un’animale da compagnia da valorizzare. Probabilmente chi davvero capisce di flora e fauna lodigiani e in questi anni si è posto il problema del suo contenimento non ha capitonulla. Ovviamente nulla hanno anche capito gli agricoltori che potrebbero, secondo Fumich, risolvere le cose con una semplice assicurazione. Che dire poi dei cattivissimi ed insensibili cacciatori che si sono in questi mesi prestati alle ambizioni elettorali del malvagio Sindaco di Brembio a caccia di voti grondanti del sangue delle Nutrie? Ma, mi verrebbe da consigliare al concittadino Fumich di adottare nel suo giardino alcune Nutrie, contribuendo così alla soluzione del problema (che per lui non esiste), in modo non cruento e non “propagandistico”, dimostrando al mondo la possibile e pacifica convivenza tra l’uomo ed il roditore.
Sul rispetto per le opinioni e le persone altrui, credo proprio che il Signor Fumich non possa dare lezioni a nessuno, tantomeno al sottoscritto, puntualmente da lui bersagliato nei suoi scritti pubblici e sul suo sito personale, scritti non certo carini non solo nei miei confronti ma anche verso coloro che sono «rei» di sostenermi.
Il Signor Fumich non lo dice mai esplicitamente, però in fondo non riesce a capire come mai tanti brembiesi possano sostenere e votare persone come me, e probabilmente questa cosa gli avvelena la vecchiaia. Allora ecco che nei suoi scritti compaiono calunniosi intrecci tra il Sindaco e questo o quell’altro potente del Paese, nei quali si concretizzano scambi inconfessabili di favori ecc. ecc., cose queste che nella mente del Fumich giustificano la costante sconfitta elettorale che da ormai trent’anni (io ancora non ero in politica e già lui perdeva) caratterizzano le sue performance politiche Brembiesi.
Al Signor Fumich in questi anni non è mai venuto il dubbio che gli altri abbiano qualche capacità, o che il proprio programma sia deficitario, mai; la colpa è sempre degli elettori ingenui e degli interessi inconfessabili.
Vede Direttore, forse il fatto che per troppo tempo ci siamo limitati a derubricare per la pochezza politica e per l’assurda cattiveria umana i suoi innumerevoli scritti post elettorali, non degnandoli quasi mai di una risposta, ha fatto pensare al Signor Fumich di poter scrivere qualsiasi cosa senza risponderne mai; sappia che in futuro non sarà più cosi, da oggi le calunnie e le affermazioni fatte senza prove documentali saranno contestate in tutte le sedi legittimamente concesse dal nostro ordinamento giuridico.
In sintesi la critica amministrativa in democrazia è sempre la benvenuta anche se non gradita o condivisa, la calunnia, la diffamazione e peggio ancora la cultura del sospetto no.
Cordialmente
Giuseppe Sozzi, Sindaco di Brembio»

La coda delle nutrie

Un amico, giorni fa, diceva che quella delle nutrie è solo questione di coda. Se avessero una coda, che ne so, come uno scoiattolo, invece di quella che si ritrovano, troverebbero più facilmente un maggior numero di sostenitori della loro causa. Infelice storia di migranti involontari. Portati qui dal Sudamerica per arricchire le tasche di allevatori incantati dal possibile guadagno della vendita delle pellicce, tant'è che una volta questi roditori portavano il nomignolo vezzoso di castorini, abbandonati una volta che l'eldorado si dimostrò una bufala - per risparmiare le spese della loro soppressione, bisogna ricordarlo - oggi vengono «sparati» per molte ragioni che spaziano dalla politica alle motivazioni economiche che tengono in vita lo sport della caccia. Che dire, forse bisognerebbe consigliare loro di rifarsi la coda, magari una bella coda di paglia come quella ostentata molte volte dai loro nemici.

Il passo che non si vuol fare

Sabato 19 a Drizzona, in provincia di Cremona, presso l'«Agriturismo L'Airone» si terrà la prima assemblea regionale dei piccoli comuni lombardi. La parola d'ordine con cui viene presentata la riunione è «Piccoli comuni, grandi risultati», e chi come me vive ha Brembio sa benissimo la sua valenza. Chi si loda di imbroda, ma in un piccolo comune - proprio perché piccolo - dove i clan prevaricano il buon senso, e dove anche piccoli insignificanti favori fanno chiudere tutte e due gli occhi, re nudi appaiono sontuosamente vestiti.
Dopo i saluti portati dal sindaco di Piadena, vicepresidente dell'Unione di Piadena e Drizzona, dal presidente della Provincia di Cremona e dal presidente dell'Anci Lombardia, il leghista Attilio Fontana, sindaco di Varese, svolgerà la relazione introduttiva Ivana Cavazzini, sindaco di Drizzona e presidente del Dipartimento Piccoli Comuni e Gestioni Associate dell'Anci Lombardia. Dopo una mezz'ora di chiacchiere e sogni sono previsti gli interventi dei sindaci e dei presidenti di Unioni. Annunciati quelli di Dimitri Tasso coordinatore nazionale Anci Unione dei Comuni, di rappresentanti della Regione e del presidente Uncem Lombardia Ermanno Pasini. Prima del buffet d'ordinanza l'intervento conclusivo di Mauro Guerra, coordinatore nazionale Anci Piccoli Comuni.Il tema dell'incontro è «Concretezza e innovazione per affrontare il futuro». Concretezza ed innovazione - vera - vorrebbe che là, come qui nel Lodigiano, dove non vi sono motivi topografici a sconsigliare l'opportunità di un aggregamento, si passasse rapidamente ad un accorpamento di comuni in entità più cospicue di almeno, diciamo, quindicimila abitanti. Questo garantirebbe non solo economie di scala e gestioni unificate e razionalizzate di servizi al cittadino, ma - dato non trascurabile - aiuterebbe a migliorare la qualità degli amministratori (anche se ogni regola ha la sua eccezione, vedi ad esempio Casalpusterlengo), oggi particolarmente bassa e poco incline a liberarsi dai lacciuoli del proprio clan di appartenenza e facilmente inclini a lusinghe lobbistiche.
Stante quanto ha scritto in un articolo al quotidiano Il Cittadino il sindaco di Brembio, che assieme all'avv. Salvalaglio, sindaco di Secugnago, è membro del dipartimento organizzatore dell'incontro, «per continuare ad esistere» ed a garantire agli amministrati servizi e identità territoriale, la via suggerita è quella della «specializzazione», cioè un sistema di offerte e deleghe nella gestione dei servizi tra i diversi piccoli comuni limitrofi.
Sorvolo sul fra-parentesi: «concetto [l'identità territoriale] cari amici leghisti ben più radicato e antico della vostra breve storia politica», da queste parti tutto da verificare, che oltretutto detto da chi oggi nel Pd disconosce l'origine comunista - il «veniamo da lontano» - del proprio partito, suscita null'altro che un compassionevole sorriso, per notare la ritrosia nel fare il passo un po' più lungo, quello di proporre il superamento della divisione territoriale in piccoli e piccolissimi comuni col razionalizzare e l'organizzare il territorio e la popolazione in entità più cospicue seppure omogenee per storia e tradizioni. Del resto il comune Brembio è il risultato dell'aggregazione di due comuni avvenuta ai tempi di Napoleone. Insomma il discorso è questo: non ce la facciamo più, siamo o siamo quasi alla bancarotta; se vogliamo continuare ad offrire ai nostri amministrati i servizi minimi attuali dobbiamo fare qualcosa, qualunque cosa purché mollare la cadrega, per quel poco che vale, per giocarsela con altri colleghi sindaci. Già, perché a Brembio come a Roma la solfa è la stessa. E quello del governo «cattivo» con i comuni (i piccoli comuni) è solo un alibi, oltretutto, almeno a Brembio, smentito dai fatti, visto l'ultimo consuntivo.

mercoledì 16 giugno 2010

Bounty hunter

Le autorità pakistane hanno riferito martedì 15 che hanno fermato un cacciatore americano nella zona senza legge lungo il confine afgano. La polizia ha trovato Gary Faulkner, l'americano, un cinquantunenne californiano, in una remota foresta dopo che era stato dato per scomparso dal gestore dell'albergo in cui aveva preso alloggio in una valle panoramica proprio di fronte al confine della provincia afgana del Nurestan orientale.
L'americano era equipaggiato con una spada di quaranta pollici, una pistola di fabbricazione cinese, un pugnale e occhiali per la visione notturna. Ai funzionari che lo hanno interrogato ha detto di essere in missione per uccidere e che la sua preda era Osama bin Laden. E ha aggiunto che era lì anche per incoraggiare le truppe Nato sotto il comando americano nel loro conflitto contro i miliziani di al Qaeda.
L'uomo, identificato per un edile, avrebbe inoltre giustificato il suo gesto dicendo che voleva vendicare quanti erano morti negli attacchi terroristici dell'11 settembre 2001. La polizia ha aggiunto che portava con sé un libro di preghiere cristiane e una modica quantità di hashish.
La provincia di Nurestan, abbandonata dalle forze americane lo scorso anno è il più accreditato tra i luoghi dove si dice che bin Laden possa nascondersi. Gli Stati Uniti hanno offerto una taglia di 25 milioni di dollari per informazioni che permettano la cattura di bin Laden.
Insomma, il mito del selvaggio West che non tramonta.

Incubo Gaza

Il quotidiano Haaretz ha pubblicato ieri un articolo in cui riporta alcune dichiarazioni al Comitato Affari esteri e Difesa della Knesset del direttore del servizio di sicurezza israeliano Shin Bet, Yuval Diskin. Diskin tra l'altro ha affermato che Hamas e la Jihad islamica sono in possesso nella Striscia di Gaza di 5.000 razzi con una gittata di 40 km. La gran parte di essi, 4.000, apparterrebbe ad Hamas, che possiederebbe anche parecchi missili capaci di colpire la regione centrale di Israele. E ha aggiunto che le organizzazioni terroristiche a Gaza continuano ad armarsi e a rinforzarsi, sia con la propria produzione di armi che col contrabbando.
Sull'embargo di Gaza il direttore dello Shin Bet ha detto, riferendosi alla volontà israeliana di allentare il blocco, che «non c'è nessuna crisi umanitaria nella Striscia di Gaza» e che personalmente non avrebbe alcun problema se si facilitasse il trasferimento di merci da Israele, poiché le armi adesso sono contrabbandate dal Sinai.
Del resto, già in precedenza Diskin aveva messo in guardia che togliere il blocco navale di Gaza, imposto tre anni fa «quando Hamas aveva strappato il potere a Gaza con un sanguinoso colpo di stato», sarebbe «uno sviluppo pericoloso per Israele». E, dunque, aveva avvertito che «sarebbe un'enorme falla nella sicurezza, anche se le navi fossero ispezionate durante il viaggio verso Gaza in porti internazionali». Un porto di Cipro, menzionato nell'audizione, come era quello dove erano ormeggiate le imbarcazioni della flottiglia di aiuti destinati a Gaza prima che i commandos israeliani le abbordassero in acque internazionali scontrandosi con gli attivisti su una di esse, evento che ha fatto il giro del mondo e che ha fatto molto male ad Israele.
Lo stesso giornale, lunedì, aveva pubblicato la notizia che un associazione di ebrei tedeschi stava progettando l'invio di un battello di aiuti umanitari per rompere il blocco navale di Gaza. Non solo, ma che cercava un secondo bastimento stante l'alto numero di adesioni all'iniziativa. Jewish Voices for a Just Peace, così si chiama l'associazione (Voci ebree per una pace giusta), aveva inizialmente pensato di mandare un piccolo battello da un non precisato porto del Mediterraneo a metà luglio, ma i preparativi del tentativo hanno subito un ritardo proprio per l'alto numero di richieste. La portavoce dell'associazione, Edith Lutz, ha detto che il primo battello, che può portare 14 passeggeri, è al completo e che più di altri 40 ebrei tedeschi stanno tentando di imbarcarsi in un secondo.

Senza arte né parte

Martedì 15 giugno, il quotidiano di Lodi Il Cittadino ha pubblicato nelle pagine di Lettere & Opinioni una mia replica alle affermazioni del sindaco di Brembio, Giuseppe Sozzi, sollecitato dal giornalista Andrea Bagatta dopo che nei giorni precedenti lo stesso giornale aveva pubblicato una mia ironica presa di posizione critica sull'ordinanza di «caccia» alle nutrie dello stesso sindaco. Chi fosse interessato può trovare tutta la documentazione relativa alla questione - lettere, articolo e quant'altro - sul foglio settimanale online Fatti e Parole.
«Mi scuso col giornale per questa breve replica dovuta alle parole del sindaco Sozzi contenute nell’articolo di venerdì di Andrea Bagatta.
Due sole chiose alle affermazioni del sindaco. La prima, generale, è che forse sarebbe ora che gli amministratori dei piccoli comuni, prima di prendere una qualunque decisione, si documentassero, a Brembio come altrove, seriamente in merito, cosa che troppo spesso non si rileva ed i guasti e disagi ne sono la conseguenza. Anche perché la delega degli elettori non è una cambiale in bianco. Iniziative ben ponderate rischierebbero «solo» di ottenere l’appoggio di tutti e non soltanto della propria claque, del proprio clan politico e della lobby o delle lobbies di turno.
La seconda è che né io né altri «fuori dal coro» mai ci sogneremmo di definire il sindaco o i suoi assessori «i soliti senza arte né parte». Banalmente perché i nostri concittadini, noi, li rispettiamo la pensino o non la pensino come noi, facciano o non facciano come noi vorremmo. A disprezzare senza argomenti si rischia soltanto la figura del pugile suonato all’angolo che mena alla cieca.
Un ultimo inciso. Se finora si sono abbattuti dal 2008 nel territorio di Brembio, in tre periodi d’uscita, 2000 esemplari, il dubbio è che o il numero vantato è esagerato o le nutrie rimaste si contano in pochi capi o più evidentemente, se il problema si ripropone ancora, che il metodo scelto è estremamente inefficace e, dunque, in ogni caso, la sparatoria ha altre motivazioni, tra cui non ultima quella di avere a disposizione prede cacciabili a buon mercato. Poiché la nutria è un animale per nulla aggressivo e non erratico, consiglierei per risolvere il problema di fare come negli Stati Uniti, considerarlo, cioè, un normale animale da compagnia. Forse contribuirebbe a migliorare il carattere di noi umani. Quanto agli agricoltori che reclamano danni tutti da dimostrare, consiglierei di pretendere la possibilità che tali danni vengano riconosciuti a livello assicurativo, come del resto già avviene all’estero.»