La prima parte di questo articolo è il post «Contro il cemento senza se senza ma».
Un articolo di Andrea Bagatta pubblicato sabato dal Cittadino fornisce dati relativi ai censimenti agricoli, utili per capire l'andamento dell'attività agricola nel territorio lodigiano in termini di numero di aziende. I dati riportati, che partono dal 1982, ci dicono che in quell'anno le aziende agricole effettive, che effettuavano la conduzione di terreni o la pratica dell'allevamento, erano 2530. Da allora ad oggi c'è stato un continuo decremento: 2286 nel 1990, 1776 nel 2000, 1554 nel 2006, l'ultimo dato fornito dal Piano Agricolo Territoriale della Provincia di Lodi. In 24 anni, cioè sono state chiuse 976 aziende, il 39% rispetto al 1982. Se la moria è continuata o meno negli ultimi anni ce lo dirà la rilevazione che partirà il 24 ottobre. È difficile dire quanto sia determinante il mercato sulla mortalità delle aziende agricole e quanto concorra nel karakiri un certo tipo di imprenditorialità agricola che non riesce a rendersi autonoma dagli aiuti statali. Va aggiunto anche che solo in tempi recentissimi gli enti locali lodigiani hanno cominciato a capire che l'agricoltura nostrana è una attività produttiva da salvaguardare e da incentivare, ad esempio con l'istituzione di marchi ad hoc per i prodotti del territorio. Ma non è questa la questione che si vuole qui affrontare.
«La cascina è uno degli elementi fondamentali del paesaggio agrario del Lodigiano e dell'area irrigua padana: suo centro nevralgico sul piano produttivo e sociale», scrive Ercole Ongaro nel suo libro "Il Lodigiano. Itinerari su una terra costruita", realizzato con la collaborazione di altri studiosi, tra cui l'architetto Giacomo Bassi e arricchito da fotografie di Valerio Sartorio. «La tipica cascina lodigiana è la dimora "a corte" chiusa della grande e media azienda agricola capitalistica, condotta dal proprietario o spesso da un affittuario con un indirizzo colturale foraggero-cerealicolo-zootecnico. La cascina si è sviluppata in connessione con il processo di costruzione del sistema agrario avviato dalla bonifica idraulica e dalla capillarizzazione dell'irrigazione». La disponibilità di acqua è stata fondamentale nello sviluppo degli insediamenti agricoli lodigiani: «Infatti il potenziamento dell'irrigazione, con lo scavo di una roggia, innescava non solo lavori di adattamento del suolo, di razionalizzazione degli appezzamenti, una estensione dei seminativi, ma anche un rafforzamento del patrimonio edilizio: in tale contesto si colloca la genesi della cascina». Fu a partire dal Quattrocento che la «costruzione» del territorio lodigiano ebbe un grande impulso grazie a cospicui investimenti fondiari da parte di famiglie nobili o di enti morali. Investimenti che «portarono allo scavo di nuove rogge in derivazione della Muzza, a una estensione delle superfici a prato, a uno sviluppo degli edifici rurali, a una riformulazione dei precedenti contratti agrari». Sull'importanza della cascina sul piano produttivo e soprattutto sociale ricordo i due ottimi testi di don Peppino Barbesta, Giacomo Bassi, Aldo Carera e Renzo Cattaneo, "Vivere di cascina" e "Gente da vivere", che raccolgono testimonianze di vita e di lavoro del mondo rurale lodigiano.
Un mondo quello rurale che per secoli si è sviluppato secondo canoni ben precisi, legati allo sfruttamento produttivo della terra e delle risorse naturali e che solo di recente ha subito un repentino mutamento. Scrive Ongaro: «La cascina, a partire dalla metà del Novecento, è cambiata notevolmente per le trasformazioni avvenute sul piano dell'organizzazione del lavoro o delle attività stesse dell'azienda agricola in correlazione al grande esodo dei salariati e delle loro famiglie. Nella sua struttura sono apparsi elementi nuovi (silos-trincea, sale di mungitura meccanica, recinti per la stabulazione aperta) ed è stato modificato o del tutto abbandonato l'uso di altri (stalla di cavalli, caseificio, ghiacciaia); l'abbandono più rilevante ha riguardato il settore delle abitazioni contadine. Perciò oggi la cascina vive soprattutto come azienda, come unità produttiva, non più come comunità o aggregato sociale: ha cessato di essere "unità di insediamento e di produzione", ossia polo produttivo e insieme comunitario».
Nel contesto della cascina, oggi, convivono le testimonianze d'un mondo ormai scomparso, d'una civiltà agricola che ha fatto del territorio lodigiano un patrimonio unico da salvaguardare, e le esigenze di una moderna azienda sempre più tecnologica. E sempre più si sta allargando il «conflitto» determinato dallo iato tra il modello di azienda tipico della vecchia civiltà contadina e il modello nuovo dell'azienda moderna al passo con lo sviluppo produttivo basato sull'ampio impiego di nuove tecnologie. Le cascine storiche sono l'elemento che più ne fa le spese. Non solo un crescente abbandono di vecchi insediamenti, ma anche all'interno di siti pienamente produttivi l'abbandono di quelle parti non più utili o consone per l'attuale attività e le nuove modalità di produzione.
Insomma, conclude così Ongaro il suo scritto sulla cascina, «pur nella sua attuale ridotta realtà, la cascina non solo continua a costituire il cuore del sistema agrario del Lodigiano e dell'area attigua, ma resta anche a testimoniare un passato in cui tra uomo e terra si era instaurato un più equilibrato rapporto». Tuttavia la considerazione conclusiva espressa dallo storico si presta ad un equivoco di fondo, e che cioè ci debba essere una coincidenza di interessi tra salvaguardia del patrimonio edilizio storico e lo sviluppo dell'attività produttiva. Forse da questo «equivoco» nascono tutti i guasti cui stiamo assistendo nei nostri comuni, dove il degrado di edifici rurali di interesse storico-architettonico sono sotto gli occhi di tutti, sia tra gli insediamenti dismessi in toto quanto ad attività produttiva, sia quelli dove l'attività continua. Per un semplice motivo economico: salvaguardare il patrimonio edilizio ha un costo; e se non si dà un senso di profitto alla sua salvaguardia, è una pura perdita, che soprattutto in questa fase di crisi un'azienda agricola non può permettersi. E a maggior ragione se l'imprenditore agricolo non è il proprietario del sito della sua azienda.
Un concetto, cioè deve essere ben chiaro, che salvaguardare un bene storico-architettonico o paesaggistico è un mestiere ben distinto dal condurre un'attività produttiva agricola di conduzione d'un fondo o zootecnica. Ma questo vale anche per altri aspetti di salvaguardia del territorio, come ad esempio la manutenzione di vecchie strade o percorsi rurali abbandonati perché non più funzionali alle attività di produzione, ma ricchi, ad esempio, di potenzialità per il tempo libero o in un contesto turistico. A chi, dunque, spetta l'«onore» e l'onere della salvaguardia dei beni culturali che costituiscono le vestigia del passato di questo territorio? La risposta è ovvia: agli enti locali, Comune e Provincia, e alla Regione. Sta a questi enti programmare il recupero, progettare gli interventi, «inventarsi» gli incentivi, diretti ed indiretti, per cui chi usa il bene o comunque lo ha nella sua disponibilità trovi un qualche tornaconto nel procedere alla sua salvaguardia. E soprattutto finalizzarne il recupero in modo che vada a vantaggio della intera comunità. Non è cosa facile. Vero. Ma se si vuole essere qualcosa di più d'un amministratore d'un piccolo condominio, uno che lo fa al massimo per puntare magari domani ad un palazzo nel capoluogo, la sfida deve essere raccolta seriamente, con i fatti non con le solite parole al vento buone per una foto su di un giornale e che portano forse qualche voto, utile sicuramente per «tirare a campare» ma niente di più. Non è un caso che lo strumento urbanistico oggi si chiami "piano di governo del territorio": la parola "governo" esprime un ruolo normativo e nel contempo esecutivo di finalità che interessano la comunità.
Una cosa è certa. Non si aiuta la conservazione degli edifici che costituiscono le vecchie cascine offrendo alla cementificazione altro terreno agricolo perseguendo il miraggio di arrivare così ad un incremento in termini di oneri di urbanizzazione delle entrate comunali. Perché non invece pensare ad una «integrazione» delle cascine nel tessuto urbano fornendo servizi utili ad eliminare le differenze tra il vivere in paese e il vivere in cascina? Anche con le poche risorse a disposizione. Bastano idee e capacità di progettazione e programmazione e di dialogo con tutte le componenti la comunità. Certo, sono risorse ben più ardue da trovare. Ripensare il territorio è l'unica strada per uno sviluppo armonico sostenibile nel Lodigiano.
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