Quando ho visto il 29 luglio su Avvenire quella brevissima intervista ad Ignazio Abrignani, avvocato e responsabile elettorale nazionale del Pdl, mi sono detto «ci siamo». Ed i fatti non hanno smentito la sensazione, anzi tutt'altro. La domanda del giornalista riguardava il simbolo, a chi apparteneva, o meglio in caso di rottura chi ne sarebbe stato il proprietario. E la risposta di Abrignani era stata netta: «Appartiene al presidente Berlusconi senza ombra di dubbio»; e all'obiezione che si dovesse tenere conto di entrambi i co-fondatori: «Non è così. Il simbolo è di Berlusconi: lui lo ha ideato, lui lo ha registrato, poi lo ha ceduto in uso all'associazione». E aggiungeva: «Ci si dimentica che nel 2009 è stato approvato all'unanimità lo Statuto del partito, che supera la situazione federativa precedente, regolata dall'atto costitutivo del 2007».
Come in tutti i matrimoni d'interesse era ovvio che col sorgere di attriti si arriva prima o poi alla rottura. Berlusconi aveva bisogno di un partito, come si dice, «radicato sul territorio», ed An lo era; gli ex fascisti avevano bisogno di una base di consenso, e Forza Italia o meglio il suo leader carismatico l'aveva. Ed è stata la sottovalutazione del carisma (o del potere economico-mediatico) del premier che alla fine ha «fregato» Fini, troncando bruscamente la sua parabola di «redenzione» politica verso il liberalismo. Nel senso che ora è un'avanguardia senza dietro le truppe cammellate. La prassi sopra le righe del Cavaliere nella gestione della cosa pubblica e delle istituzioni ha avuto un fascino maggiore nei vecchi cuori camicia nera. Del resto Berlusconi di divorzi se ne intende.
Niente di più di un bonario sorriso, pur rispettando lo stato d'animo del militante convinto, sollecitano frasi come questa che si sono lette: «Tutti ricorderanno la frase chiave del Presidente Berlusconi "L'amore vince sempre sull'invidia e sull'odio", ecco, adesso abbiamo la certezza che queste parole sono vane al vento, perché in questo caso ha vinto sia l'invidia che l'odio, e questa cosa mi intristisce profondamente». O ancora: «A rimetterci come al solito è chi ha votato il Pdl, perché gli elettori sono stati traditi da un sogno tramutato in incubo».
Del resto Maurizio Belpietro in un suo editoriale del 15 luglio, quando scriveva: «Da questa lotta uscirà un solo vincitore e Berlusconi deve decidere se vuole essere lui», delineava chiaramente la scelta: «O il premier trova un'intesa con il presidente della Camera, cedendo alle sue richieste e garantendogli un futuro, così da ottenere una tregua che gli consenta di governare senza il continuo braccio di ferro, oppure va allo scontro, deciso ad andare fino in fondo, e se occorre anche a far dimettere Fini». "La seconda che hai detto" è la strada perseguita poi da Berlusconi e dai berluscones dell'ufficio politico. Basterebbe un'attenta lettura del documento approvato il 29 luglio a stragrande maggioranza per capire che nei riguardi di Fini si è adottato nient'altro che il vecchio metodo staliniano di annientamento del contraltare politico interno al partito che può mettere in ombra la figura dell'autocrate.
Ciò che ha fatto scoppiare il bubbone che stava maturando all'interno del Pdl è stato il risultato elettorale delle regionali che ha dimostrato, seppure non fosse necessario, che non esisteva alcuna opposizione degna di questo nome, o meglio che il gran babau, il Pd di Bersani, al massimo era una pioggerellina primaverile per cui non occorreva neppure preoccuparsi dell'ombrello. La coscienza di questa tragica realtà politica italiana ha fatto sì che i nodi irrisolti all'interno del partito venissero al pettine, soprattutto in compresenza con scandali che a ripetizione cominciavano ad interessare l'opinione pubblica. Giusta l'analisi: «Immediatamente dopo il nostro congresso fondativo, e soprattutto dopo le elezioni regionali, sono intervenute delle novità che hanno mutato profondamente la situazione, al punto da richiedere oggi una decisione risolutiva. Invece di interpretare correttamente la chiara volontà degli elettori, nella vita politica italiana hanno ripreso vigore mai spente velleità di dare una spallata al governo in carica attraverso l'uso politico della giustizia e sulla base di una campagna mediatica e scandalistica, indirizzata contro il governo e il nostro partito, che non ha precedenti nella storia di un Paese democratico. L'opposizione, purtroppo, non ha cambiato atteggiamento rispetto al passato, preferendo cavalcare l'uso politico delle inchieste giudiziarie e le speculazioni della stampa piuttosto che condurre un'opposizione costruttiva con uno spirito riformista». O comunque un'opposizione parlamentare e in senso più ampio politica sulle contraddizioni tra il programma di Berlusconi e la sua prassi governativa, portando alternative nel dibattito e perseguendo la costruzione di una reale e concreta alternativa, fatta di «carne» e non di fuffa, in grado di acquisire consenso. Ci si è sempre limitati ad un «lui pensa a sé e non parla mai dei veri problemi degli italiani» ed all'uso maldestro dell'ironia, che otteneva l'effetto opposto di comparare nella testa della gente il segretario democrat ad un noto comico cui alla lontana fisicamente somiglia. Non avendo un programma, una linea, un leader da contrapporre. Per paradosso l'inesistenza del Pd come forza di opposizione, ha dato spazio e forza all'interno del Pdl alle entità critiche facendo esplodere per «autocombustione» le contraddizioni. Ed il documento dei berluscones evidenzia così l'accaduto: «Ciò che non era prevedibile è il ruolo politico assunto dall'attuale presidente della Camera. Soprattutto dopo il voto delle regionali che ha rafforzato il governo e il ruolo del Pdl, l'On. Gianfranco Fini ha via via evidenziato un profilo politico d'opposizione al governo, al partito ed alla persona del Presidente del Consiglio». Teniamo ben presente che a Fini, così come in precedenza era già successo a Casini, era stato offerto un incarico di prestigio, la presidenza della Camera, terza carica della Repubblica, proprio per toglierselo di mezzo. Se con Casini la cosa aveva avuto successo, non poteva funzionare con Fini, uno che aveva condotto i suoi nella grande marcia verso la «terra promessa» del pieno reintegro nel tessuto democratico della nazione, con la prospettiva di rappresentare nel panorama politico italiano una destra moderna, europea, e soprattutto al passo con i tempi.
Il documento dell'Ufficio politico dopo il passo citato svolge l'atto d'accusa staliniano contro Fini. Varrà la pena di ritornare sui contenuti. Oggi il premier ha detto che al primo sgarro si va a votare. Può essere, ma il voto, con un quasi inevitabile aumento dell'astensionismo, sicuramente rinforzerebbe in tale situazione la Lega. Berlusconi può anche permetterselo, ma i berluscones manderebbero giù un Nord sempre più leghista con cui fare quotidianamente i conti? L'unico aspetto positivo di un voto anticipato è la possibilità per la sinistra, quella vera, di rientrare in Parlamento, magari attraverso una ricucitura elettorale, che potrebbe essere costituita da una candidatura nel centrosinistra incentrata sul Vendola. Sempre che la sinistra abbia per l'ennesima volta la volontà di correre il rischio costituito da un cartello elettorale con i democrat.
Nessun commento:
Posta un commento