Ricordando un articolo di Stefano Ceccanti su Europa, ho scritto che il Pd ormai affida le proprie chance alla legge dei grandi numeri. Sullo stesso argomento, una settimana più tardi, sempre su Europa, si è cimentata Giovanna Melandri. «La stagione del fango gettato a piene mani sta disarticolando irreparabilmente il partito del predellino: roba che la fusione a freddo del Partito democratico sembra un pranzo di gala a confronto». I toni roboanti, quell'«irreparabilmente» per capirci, fanno parte del bagaglio agit-prop che viene da lontano di molto Pd, tanto da non notare il contrasto con il «piccolissimo», aggettivo usato subito dopo per descrivere l'insperata possibilità: «In questo frangente da basso impero [i toni alti è un vezzo irrinunciabile, che forse nasce da una sorta di rabbia impotente], si è aperto, per le forze progressiste, un piccolissimo spiraglio».
Giovanna Melandri sa di non contarci molto, sullo spiraglio, tant'è che subito aggiunge: «Voglio essere chiara su questo: così come si è aperto questo varco, lo spiraglio potrebbe prontamente richiudersi, confinando il Pd nuovamente ai margini del dibattito politico». La lingua, insomma, continua a battere dove il dente duole: sulla marginalità politica vissuta da un partito abituato a fare dell'egemonia la sua carta vincente fino all'ultimo Veltroni. La politica del loft ha scardinato rapporti e vecchie prospettive trascinando il Pd in un vicolo cieco, senza un orizzonte, dove ci si continua a dibattere per inventarsi un'uscita che non sia il ritorno indietro sui propri passi, la fine.
Scrive ancora la Melandri: «Non so se ci siano le condizioni politiche per un governo "istituzionale" che riesca a cambiare la legge elettorale restituendo ai cittadini il diritto di poter scegliere i propri rappresentanti». E non se lo augura, perché, citando Michele Salvati, ciò comporterebbe per il Pd «scelte difficili sulla natura del sistema politico italiano e sulla stessa identità» propria.
«È chiaro infatti che il ritorno a una legge elettorale proporzionale allo stato attuale sembra essere il comune denominatore dell'unione sacra contro Berlusconi; mentre un'altra legge maggioritaria che superi la "porcata" e restituisca agli elettori la scelta dei loro rappresentanti oltre alla scelta del proprio governo non sembra essere verosimile in questa legislatura», scrive la Melandri, aggiungendo: «Per il Pd questa è una scelta sulla propria natura e identità non da poco. E senza retorica vorrei dire: ne va della sopravvivenza del progetto politico del Pd». Appare evidente che se la questione personale indirizza l'attività governativa di Berlusconi, la classe dirigente democrat è impelagata in una questione altrettanto vitale: la propria sopravvivenza. In un caso e nell'altro i problemi reali del paese sono una questione marginale del dibattito politico. Ogni tanto si lancia qualche slogan, da una parte e dall'altra, solo per giustificare la domanda di consenso che si chiede nel momento elettorale. Ma restringendo sul Pd, il nocciolo della questione sta, dunque, nel fatto che la classe dirigente è troppo impegnata nell'osservare il proprio ombelico, invece di giocare la posta di un programma concreto, fatto di soluzioni vere alla quotidianità che assilla la gente che fa fatica a sbarcare il proprio lunario. L'errore del loft è stato di credere di potersi chiudere in una torre d'avorio, a farsi vicino ad un caminetto di "oh, come siamo bravi", pensando che fuori il popolo avrebbe preso i voli intellettuali per parole di lotta. Il distacco dalle «masse» così definitivamente sancito, non è però stato metabolizzato, e la Melandri lo testimonia: «E tuttavia non credo sia utile in questo momento fissare la nostra iniziativa su chi possa essere la figura di garanzia di un simile percorso, come molti si sono esercitati a fare in queste settimane. La priorità del Partito democratico è quella di lavorare alla costruzione di una coalizione che possa contendere il governo del paese a ciò che resterà dell'ordalia del centrodestra in un confronto elettorale con l'attuale legge». Cioè, smettiamola di farci del male cercando un leader, cosa che non è dopo Berlinguer nel dna di quel soggetto politico mutante che oggi è Pd, e pensiamo invece alla prossima ammucchiata. Certamente nella situazione attuale non si vince se non ci si accompagna con l'escort di turno, ma il problema è di non essere l'escort. Che tradotto significa che si deve avere un programma reale, un progetto che può richiamare consenso, piedi ben piantati tra la gente. Il Pd ha tutto questo? L'eredità di una base, zoccolo duro fermo per molti aspetti a prima del muro, più che un vantaggio è un disvalore. Perché la corsa elettorale è una corsa a handicap: si crede di partire davanti, ma in realtà quella dello zoccolo è una percentuale che ti tiene indietro. Non solo falsa la cognizione del proprio consenso, ma soprattutto frena. Frena nuove possibilità, e la fine ingloriosa, e per molti versi immeritata, di Veltroni in fin dei conti ne è la dimostrazione.
Giovanna Melandri pone in chiari termini lo stato dell'arte della ricerca di una prospettiva: «Alle nostre spalle, c'è la fallimentare esperienza della rissosa Unione. È chiaro che non possiamo ripresentarci ingessati in una coalizione destinata a naufragare alla prima difficoltà, anche perché gli elettori del centrosinistra ci hanno dimostrato in questi anni di avere una memoria molto lunga. Così come, è altrettanto lapalissiano che una corsa solitaria del Pd riconsegnerebbe l'Italia a un centrodestra edulcorato della componente moderata, e, dunque, sempre più prigioniero della Lega. La strada è davvero stretta». Forse, messa così, non c'è proprio.
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