Facevo scorrere i fogli dell'ultimo faldone che raccoglie i ritagli stampa delle ultime settimane. Quanti titoli che ormai sembrano descrivere un passato già lontano e sono solo di giorni fa. Come quello di Bruno Vespa su QN di cinque giorni fa, d'effetto: «E ora aspettiamo lo sparo di Sarajevo». Più che uno sparo di Sarajevo, sembra quello di Mayerling. Vespa allora aveva scritto riferendosi al voto alla Camera, che aveva sancito la fine della maggioranza uscita dalle urne: «Umberto Bossi, dopo la votazione, ha detto che il governo reggerà, ma che la Lega farebbe il pieno in eventuali elezioni anticipate. Sul secondo punto ha ragione. Ma sul primo? Silvio Berlusconi fa campagne acquisti da sedici anni. Cominciò alla fine del '94 con la Lega di Umberto Bossi, lo ha fatto più recentemente con gli uomini di Prodi, poi di Casini e adesso con quelli di Fini. È il piccolo cabotaggio, con qualche possibilità di riuscita se si rafforzasse il rischio di elezioni e molti seggi dovessero traballare». E tutto per concludere: «È tattica, non può essere strategia». Forse nel senso che un governo non può reggersi comunque da qui al 2013 su precari puntelli improvvisati.
«Quel che è certo è che non ci sono i margini per un governo sorretto da maggioranze diverse da quella scelta dagli italiani», come ribadiva tre giorni fa Giorgia Meloni cui rompere con i «futuristi» è costato. «Chi ha seguito Fini non si presterà a un cambio di maggioranza. Ho parlato con loro, li conosco. Mi sento di escluderlo». E poi sottolineava: «La destra c'è, esiste e vive nel Pdl. L'addio dei finiani non vuol dire che si torni a Forza Italia. Noi ci siamo, ci faremo sentire. Faremo quello per cui siamo entrati nel Pdl» e che per logica conseguenza i finiani non sono stati capaci di fare. E, dunque, l'incognita di un qualche seguito nell'elettorato può pesare e come sui singoli. I «futuristi» dovrebbero dare una risposta convincente alla domanda che la Meloni si pone: «Mi chiedo ancora cosa stia capendo la nostra gente di quanto accade, del perché una maggioranza forte come nessun'altra in passato stia dando questa prova». E dopo il clamore della vicenda monegasca giustificarlo con una questione morale è sempre più arduo, non basta più.
E sebbene Berlusconi mostri di non temere le elezioni, e non si vede perché dovrebbe quando la sua reale opposizione sono quarantaquattro gatti in fila per sei col resto di due, ed un Di Pietro che predica nel deserto, è pensabile realmente che punti ad una campagna acquisti, a lusingare qualche figliol prodigo a tornare a casa. Se non altro come Giancarlo Galan diceva ieri al giornalista del Mattino: «Prima delle elezioni viene l'interesse del Paese. Anche per scaramanzia, visto che chi si presenta al voto senza aver concluso la legislatura viene di solito punito dagli elettori». E di dubbiosi ce ne sono. Già il 7 luglio Libero titolava un pezzo «Il dilemma di Consolo: "Ho scelto Gianfranco, sono già combattuto"». Giuseppe Consolo, uno «che è diventato futurista, ma in lui batte ancora un cuore pidiellino», che al momento del voto sulla mozione è uscito dall'aula e che in quella intervista rilasciata al quotidiano di Belpietro diceva rispondendo ad una domanda: «La situazione era troppo tesa e il bubbone è scoppiato. Ma, secondo me, si è in tempo per fare tutti un passo indietro». Uno che alla domanda «Lei sarebbe disposto a sacrificare il Fli sull'altare di una riappacificazione?» risponde: «Certo. Sarei disposto a fare qualsiasi cosa Fini e Berlusconi decidessero insieme». Naturalmente bisognerebbe rifare oggi, solo tre giorni dopo, la stessa domanda per avere una risposta aggiornata. Però, di quella intervista rimane una piccola conferma. Chiede il giornalista: «Il Berlusca con lei c'ha provato?». E la risposta è «Ce l'ha una domanda di riserva?».
A fissare bene i paletti della questione è ieri Gaetano Quagliariello intervistato dal Tempo, rispondendo a tre domande di fila. Gli chiede Alberto Di Majo: «Ma nel caso dovesse cadere il premier Berlusconi, crede sia possibile un governo di transizione, magari con la guida del ministro Tremonti?». Risposta: «No. Non ci sono i numeri in Senato e non ci sarebbe neppure la volontà di Tremonti». «E se si andasse ad elezioni, cerchereste un'intesa con i finiani?». Risposta: «Se la legislatura finisce per l'atteggiamento assunto dai finiani nei confronti del governo, è evidente che nessuna alleanza elettorale sarà possibile con loro». Ed ecco la porta aperta: alla domanda «Nel caso invece i finiani pentiti vi chiedessero di rientrare nel Pdl, li accettereste?», Quagliariello risponde: «Il Pdl non è una buvette ma resta un partito aperto. Se c'è condivisione di principi di fondo e la volontà di metter fine allo stillicidio di un'opposizione interna quotidiana e preconcetta, le porte sono aperte, anche a posizioni critiche. Checché se ne dica, nel Pdl si è discusso e si è votato come mai era accaduto in Forza Italia e in Alleanza nazionale, e noi non abbiamo vendette da consumare».
E a confermarci che qualcuno ci sta pensando è oggi Osvaldo Napoli, vice-presidente dei deputati Pdl, che rispondendo ad una domanda in un'intervista sul Messaggero dice: «Non ci sono dubbi che alcuni facciano un passo indietro. Risulta che siano 8-10 i deputati disposti a una mossa chiarificatrice».
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