È una verità storica: il governo attuale era nato con la maggioranza più forte della storia repubblicana; sembrava destinato a durare per tutti e cinque gli anni della legislatura. Ma evidentemente il predellino d'un'automobile non è il posto giusto per formare una comitiva seria e soprattutto integerrima. Si tira su dalla strada chi è disposto a salirci, per i motivi più vari. Soprattutto si rischia la compagnia di personaggi che vanno bene per qualche ora, ma che poi, alla fine, diventano scomodi, pesantemente scomodi. Scajola, Brancher, Cosentino e alla fine, ma era pronosticato, lo stesso Fini. Con Fini non è bastata la carta della presidenza della Camera, che in precedenza con Casini aveva funzionato. Un uomo di mondo come il Cavaliere avrebbe dovuto stare ben accorto. E fors'anche, buttiamola lì, la vicenda D'addario avrebbe dovuto insegnare qualcosa.
È sempre più evidente che invece di cooperare a portare il paese fuori dalle secche della crisi, una parte della politica dell'arco parlamentare, per assenza di idee, di progetti, piuttosto che rimboccarsi le maniche e contribuire con proposte concrete ad indirizzare positivamente l'azione legislativa e del governo, perso inesorabilmente il treno delle elezioni, ha preferito dedicarsi al gioco di provare a buttar giù l'Ercolino sempre in piedi degli ultimi quindici anni. In tutti i modi. Per prendere surrettiziamente quel potere che la gente della strada, il popolo gli ha negato decisamente, in modo inequivocabile. Di fronte all'«all-in» di Veltroni, chi in quel momento aveva consapevolmente carte migliori non ha rischiato le fiches perseguendo un progetto simmetrico. E adesso siamo al naufragio.
Qualche giorno fa Belpietro confessava al Giornale di Sicilia il suo stupore: «La scissione dei finiani è stata superiore a qualunque previsione. Per molti versi una sorpresa (...). A carte scoperte si è invece saputo che sono in numero sufficiente a far cadere il governo per lo meno a Montecitorio». E nell'operazione entra il cambiamento della legge elettorale venduto come panacea dei mali d'Italia, anzi del «male» d'Italia, il Cavaliere. Diceva il direttore di Libero: «Come qualche tempo fa avevamo previsto prendendoci pure le accuse di essere troppo disfattisti se verranno lasciati fare questi avversari del governo organizzeranno un ribaltone e subito dopo cambieranno la legge elettorale per impedire che Berlusconi possa tornare a vincere. Un'operazione trasformista in piena regola che se non troverà ostacoli già entro la fine dell'anno potrebbe raggiungere il suo scopo». Ieri ed oggi ad aprire politicamente una breccia nella diga ci ha pensato il presidente Napolitano, col suo ineccepibile richiamo alla prassi costituzionale.
E chi, come Cota per fare un esempio, continua a dire che «un governo tecnico o di larghe intese [o del Presidente, è il caso di aggiungere] sarebbe qualcosa che va contro la volontà popolare. Il popolo con il suo voto ha scelto la Lega, ha scelto Bossi e Berlusconi. Ha scelto la Lega e il Pdl, non altro. Se si pensa di fare diversamente allora si va contro il popolo», parla al vento. Spreca il fiato. Quando mai partiti come il Pd, la stessa finiana An finché c'era, e altri, sono stati partiti «popolani»? Il popolo interessa loro solo quando mette la scheda nell'urna. Poi è un'altra storia, al governo nazionale, regionale, locale. Lo insegna la storia della Repubblica. Quella in atto, per prenderci gusto con la teoria della cospirazione, è un'«operazione» in atto da qualche tempo, da subito dopo le elezioni. Tracce di segnali evidenti sparsi ovunque nella stampa quotidiana. Sputtanamento prima, disgregamento dopo. Obiettivo l'apoteosi della liberazione d'Italia dal lanzichenecco Cavaliere nero il prossimo anno. Volutamente il prossimo anno. Un appuntamento cercato. Questo si prefigge la cospirazione in atto, che potremmo definire suggestivamente «Operazione Centocinquantenario dell'Unità d'Italia».
Nessun commento:
Posta un commento