Fu Lamberto Dini nel 1995 a guidare il governo di transizione che sostituì alla guida del paese il primo governo Berlusconi. Ed è stato proprio Dini qualche giorno fa a dire, intervistato sulla possibilità di un governo tecnico da Andrea Cangini per QN: «Non è chiaro cosa dovrebbe fare un eventuale governo di transizione, mentre è chiarissimo che ad invocarlo è chi ha perso le elezioni e spera di rientrare in gioco». Per Dini quella del 1995 è «un'esperienza irripetibile, anche perché allora era venuta meno la maggioranza che sosteneva il governo, mentre stavolta i finiani giurano lealtà all'esecutivo». È interessante anche l'opinione espressa dall'ex direttore generale di Bankitalia sull'eventualità che in autunno Berlusconi rimetta il mandato nelle mani del presidente della Repubblica: «Credo che, essendoci una maggioranza che ha vinto anche le ultime elezioni regionali, il Quirinale dovrebbe riaffidare il mandato a Berlusconi». Dopo di che, «la Costituzione gli impone di verificare l'esistenza di una maggioranza in Parlamento, ma lo ripeto, a soluzioni trasversali non credo. Sarebbe come mettere insieme il diavolo e l'acqua santa: un'ipotesi davvero antipatica sia per chi ha votato per la destra sia per chi ha votato per la sinistra».
Su tutta la vicenda forse il giudizio più azzeccato è quello dato una settimana fa da Roberto Calderoli al Corriere della Sera: «Le elezioni riporterebbero al governo il Pdl e la Lega, e a furor di popolo. altre strade, quelle di cui parla il Pd, non esistono. E del resto, è prova dell'impazzimento generale che il Pd predichi un governo tecnico che segnerebbe la sua dissoluzione». Insomma, i leghisti continuano a dire che da parte loro un nuovo 1995 non è possibile. Questo, ad esempio, Luca Zaia, governatore del Veneto ed ex ministro dell'agricoltura: «L'intesa tra il segretario della Lega nord e il Cavaliere va ben oltre i deliri di chi prevede governi tecnici o porcherie simili». Parole raccolte da La Padania, lo stesso giorno. E proprio lo stesso Zaia evidenzia perché la Lega sia un ostacolo insormontabile per i «cospiratori»: «Ne va della nostra vita amministrativa e del nostro progetto politico, il federalismo e l'autonomia». C'è il rischio, dunque, che una brusca frenata come la caduta del governo, l'eventuale intermezzo di un improbabile governo del Presidente ed infine le elezioni, coagulino attorno al partito di Bossi, al Nord, un fronte di difesa del progetto politico, un voto trasversale di quanti vedono nel federalismo il «futuro e la libertà» delle regioni settentrionali dal centralismo burocratico che si incarna nei fatti in partiti come il Pd e L'Udc (e se si vuole, l'ipotetico terzo polo) e la rinascita della penisola finalmente libera dalle catene che vengono da lontano, dall'unità del paese centocinquanta anni fa, in un'ottica di una Europa delle Regioni, tutta da costruire, che restituisca finalmente a tutte le genti italiche la loro identità.
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