martedì 31 agosto 2010

Profezie come terapia

Francesco Piccolo su l'Unità del 23 agosto titola la sua scrittura di «terapia» con una profezia apocalittica: «Il patto con Bossi lo distruggerà». Quel «lo» è riferito a Berlusconi. Ormai non occorre più nominarlo, tanto tutti sanno che il pensiero unico del Pd e dintorni è la distruzione del mostro politico di Arcore, di Berlusconi.
Nell'incipit pone una domanda a dir poco inquietante: «Ma Berlusconi è a favore del federalismo?», una domanda retorica ovviamente perché il nostro sa già la risposta: «Né sì né no». E spiega: «L'unico governante nella storia di questo paese che potrebbe attuarlo, ne è del tutto disinteressato». Ohibò, che ci racconta! Dice Piccolo: «Lo ha semplicemente barattato in cambio delle leggi che gli servivano». E ti pareva! «In questo consiste il patto di sangue con Bossi», ma non basta perché sa che sulle bacheche dei paesi, quando l'incaricato non è in ferie, i militanti leggono l'Unità: «Soltanto Berlusconi poteva fare un accordo così spietato e ignorante delle conseguenze: perché nessun altro sarebbe completamente disinteressato alla cosa pubblica». E già. I cenni d'assenso si trasmettono nell'etere dall'ombra delle bacheche dove ferve il dibattito politico sul campionato che sta per partire.
E Piccolo, per far capire meglio l'idiozia del Berlusca, mette i giusti puntini sulle «i» in modo che anche il più tonto dei militanti abbia ben chiara la questione. Dice: «Ma il federalismo - almeno quello imposto dalla Lega - nessuno lo vuole». Grasse risate. «Non lo vuole la sinistra, non lo vuole Casini (uno dei motivi principali per cui si è sfilato), non lo vuole Fini (il motivo principale per cui è andato allo scontro)». D'accordo, ma il Pd? Si sarà chiesto il militante inesperto nell'arte del mimetismo: chi è il Pd? La sinistra, Casini, Fini? Chi? Non pervenuto; com'era ovvio le porte non si chiudono mai, anche se la giusta critica non si lesina mai: «La Lega è al governo da molti anni, è sempre stata vicinissima al conseguimento del risultato, e di nuovo è costretta a chiedere un altro voto per cercare di avere il bottino pieno. Ogni volta, però, gli alleati sono di meno». Perbacco. C'è davvero il rischio che la Lega resti sola, il solo partito al governo. No? Ho capito male?
«Il federalismo è una cosa seria, di cui si dovrebbe discutere a fondo, capirne le ragioni, i vantaggi e gli svantaggi. Ma non succede». Forse perché le cose serie, le si fanno, non le si discutono all'infinito con lo scopo di non farle dicendo di volerle fare. E poi Piccolo informa il lettore che è proprio sul federalismo-contro «che si sta compattando nei fatti un fronte unico». Tutti contro Berlusconi o tutti contro il federalismo? Ora c'è anche la possibilità di scegliere lo slogan per la maglietta. Scherza, scherza, pennivendolo da quattro soldi: «il motivo per cui Berlusconi ha preso così saldamente il potere in Italia (senza la Lega non ce l'avrebbe fatta) è il motivo per cui potrebbe perderlo per sempre (non può più scrollarsi di dosso la Lega)». Uno scenario decisamente pulp. Ed ecco il tocco apocalittico che piacerà sicuramente, Piccolo lo sa, al militante in piazza che all'ombra d'un pino si legge in bacheca il quotidiano fondato da Gramsci (sempre che l'incaricato del cambio quotidiano non sia in ferie): «Berlusconi si sta autodistruggendo con le stesse armi con le quali aveva fondato la supremazia politica di questi anni: il patto con Bossi». Una volta la scena poteva essere sfumata sulle note di "Bandiera rossa", ma oggi? Che tristezza, manco un "Per fortuna che Pierluigi c'è".

domenica 29 agosto 2010

Apocalisse

Dell'appello di Paolo Flores d'Arcais su Il Fatto Quotidiano, rivolto a Di Pietro e a Nichi Vendola, non si è sentito molto, forse perché, stante il filosofo, quel pezzo lo si è associato all'Apocalisse di Giovanni, classificandolo come un moderno esercizio letterario di preveggenza dell'Armageddon politico italiano. Certo, anche se Flores d'Arcais mette le mani avanti: «Forse sono io che prendo lucciole per lanterne, ottenebrato da un pessimismo ingiustificato», lo scenario che viene descritto nell'appello è semplicemente allucinante: «Se Berlusconi vince le elezioni anticipate diventa il prossimo presidente della Repubblica, trasforma la Corte costituzionale in una privatissima "corte dei miracoli", cambia la costituzione come più gli piace, e per sfregio nomina Previti e Dell'Utri senatori a vita». Al confronto la fantasia dell'evangelista Giovanni ha generato una favola per ragazzini. E per dare più forza alla sua apocalisse si rivolge supplice a Di Pietro e Vendola così: «Vi chiedo perciò una volta di più: avete un solo argomento (argomento razionale, non "pio desiderio") per convincermi che esagero? Sarei felicissimo di ascoltarlo e darvi credito». Ma, «ma empiricamente parlando Berlusconi ha dimostrato oltre ogni ragionevole dubbio che appena può fa strame di democrazia senza il minimo ritegno e con ogni mezzo. Se vince attuerà il suo programma originario, confessato a suo tempo per interposto Previti: non farà prigionieri».
Di fronte a tale situazione, che lo angoscia, per il filosofo l'atteggiamento delle forze non berlusconiane è agghiacciante: «Neppure da irresponsabili ma da allucinate, in una cecità volontaria (e dunque più che mai colpevole) di fronte all'esito che il loro piccolo cabotaggio rende scontato: l'assassinio della democrazia italiana nata dalla Resistenza». Ci siamo, avrete pensato. Ma Flores d'Arcais, nella sua furia agostana antiberlusconiana, va oltre: «Berlusconi vuole le elezioni al più presto perché sa tutti i crimini che ha commesso (o che hanno commesso i suoi più stretti sodali e complici), e che ogni giorno potrebbero venire scoperti, malgrado la rete ormai evidente (perché nella punta dell'iceberg intercettata) di toghe di regime che ha approntato. Deve perciò strangolare definitivamente la possibilità che la legge possa valere "eguale per tutti", prima che il disvelamento giudiziario di ennesime ruberie o mafiosità faccia traballare e tracollare i suoi consensi». Mamma mia. E se la prende con tutte le forze di opposizione cieche di fronte ad un «eccidio costituzionale annunciato».
Ma perché, qualcuno si sarà di certo chiesto, si rivolge a Di Pietro e a Vendola e non si rivolge in primis al Pd? Perché, oltre a far dire a Di Pietro «tanto il Pd non ci starà mai», aggiunge «il Pd non sa quello che vuole, e comunque quello che vorranno e faranno gli altri dipende sempre, almeno in parte, da quello che vogliamo e facciamo noi (da quanto e come lottiamo). Altrimenti sarebbe più logico accoccolarsi fatalisticamente sulla riva del fiume». E poiché non si deve stare a guardare propone una strategia d'azione su 3 linee.
La prima è «preparare per fine settembre una grande manifestazione nazionale di tutta la società italiana ancora civile, con l'obiettivo "Fuori Berlusconi, elezioni democratiche, basta criminali al potere, governo di legalità"». E ancora, secondo punto, «proporre una nuova legge elettorale a tutte le forze non berlusconiane». Terzo, «lanciare una martellante campagna informativa e propagandistica sulla sicurezza dei cittadini, dimostrando come le leggi di berlusconi (ma purtroppo anche tante del centrosinistra) la mettano vieppiù a repentaglio favorendo ogni genere di criminalità. E come i diritti dei lavoratori, oggi calpestati, siano l'altra faccia della liberazione dalle cricche». Questo il programma elettorale di Paolo Flores d'Arcais.
Ma per un momento il dubbio filosofico ha la prevalenza: «È possibile che tutto ciò non serva». Perché «malgrado un'ondata di passione civile, e di resipiscenza e intelligenza delle forze politiche, Berlusconi riesca a imporre le elezioni secondo il quando e il come della sua volontà». Ma allora? Nessun timore, la certezza ritorna: «In tal caso le affronteremo, anche se non democratiche». Ma perché non dovrebbero essere democratiche? La «porcata» di Calderoli è una «porcata» perché c'è il forte rischio che Berlusconi vinca ancora? Se vince Berlusconi le elezioni non sono democratiche, se le vince un altro, Prodi ad esempio, sì? Grande pensiero filosofico. Per Flores d'Arcais c'è una consolazione: «Ma aver dispiegato il massimo di lotta per impedire elezioni truccate avrà intanto accresciuto le chance dell'opposizione». Perché così è avvenuto mezzo secolo fa, contro la legge truffa: «Le opposizioni non si dedicarono a minuetti, mobilitarono il Paese». Già, allora però.
E veniamo al nocciolo della questione: le elezioni comunque bisogna vincerle. E il nostro filosofo che fa? Catechizza: «Ma soprattutto si tratterrà di andare alle urne senza ripetere gli errori del passato». Grande scoperta. La linea giusta Flores d'Arcais ce l'ha: «Per parlarci chiaro: si tratta di trovare un candidato da contrapporre a Berlusconi che non regali all'aspirante duce la carta dell'antipolitica, risorsa strategica sulla quale dal 1994 si vincono e si perdono le elezioni». Ma allora non è la legge elettorale la causa di tutti i mali, dirà qualcuno. No, il problema sta nel gestire a proprio vantaggio l'antipolitica, di cui Flores d'Arcais si affretta a dire «che poi "antipolitica" non è, ma sacrosanta voglia di una politica autentica, non più sequestrata dalle nomenklature partitocratiche». Ahinoi, si fa dura. Già, e oltretutto, per rafforzare il concetto, sottolinea: «Già nel '94 la vittoria era certa, se il narcisismo non avesse spinto il Pds a candidare un politico di mestiere e per sovrammercato l'ultimo segretario del Pci. Bastava una figura di indipendente di sinistra, di cui era ricca la società civile». Tant'è che «bastò un "mezzo e mezzo", rispetto al ceto politico di mestiere, quale era Prodi, per vincere due volte». Dunque, Chiamparino no, Vendola no. Chi allora così capace «davvero di raccogliere tutto il potenziale di passione civile che credo sia già maggioritario nella società e che va traghettato integralmente nelle urne»? Mah. Però, forse a pensarci un'idea viene. Paolo Flores d'Arcais? L'hai detto.

venerdì 27 agosto 2010

Campane

«È giunto il tempo infatti di suonare le nostre campane», così chiude la lettera che Pierluigi Bersani ha inviato a Repubblica e che il quotidiano ha pubblicato ieri. Le campane sono la «grande campagna di mobilitazione sui temi sociali e della democrazia» che il Partito democratico organizzerà per l'autunno. Sulla lettera ritornerò in altro articolo; qui mi piace citare quanto Stefano Cappellini scrive oggi su il Riformista: «Tra i danni collaterali della "lettera al Paese" inviata da Walter Veltroni al Corriere della Sera quello più prevedibile era l'effetto emulazione. Per spiegare la sua linea, antitetica a quella dell'ex leader, il segretario ha infatti a sua volta preso carta e penna (...). E il timore è che nel giro di pochi giorni l'epistolario democrat si arricchisca di nuove puntate, perché altri big potrebbero non resistere alla tentazione di dire la propria». Insomma, Cappellini mette il dito sul «vizio consolidato del gruppo dirigente democratico (e prima ancora pidiessino, diessino, margheritino...), cioè la marcatura reciproca. Una coazione a reagire che spinge i principali esponenti del centrosinistra italiani a ingarellarsi in sfide mediatiche: se parla Tizio, Caio deve rispondere a stretto giro, se Caio propone A sul tal giornale, Tizio si sente in obbligo di ribattere B. Lo stesso Veltroni ha battuto un colpo subito dopo che Dario Franceschini (...) aveva battezzato come "Alleanza costituzionale" la possibile coalizione elettorale di tutte le forze interessate a chiudere la stagione del berlusconismo e scrivere le regole della Terza Repubblica».
Ma torniamo a Bersani. Claudio Sardo, per citarne uno, riportava sul Messaggero lunedì queste parole del segretario democrat al ritorno dalle ferie: «Parleremo di lavoro e di Costituzione e dimostreremo, dati alla mano, che gli otto anni dei governi Berlusconi non hanno portato nulla agli italiani». Il riferimento era all'agenda fittissima, un tour nelle feste di partito cominciato ieri a Reggio Emilia, poi sabato 28, domani, l'inaugurazione della Festa nazionale. E poi il porta a porta, la campagna eletta a evento. «Il partito è più unito» ma ora «deve tornare a guardare negli occhi gli italiani». Per cosa? Trovare ancora rassicurazione di un possibile voto non ancora predestinato alla Lega, definitivamente? Diciamocelo fuori dai denti, l'argomento «Costituzione» è stato abusato più volte, la più colossale al tempo del referendum costituzionale, tanto che più d'uno di quanti oggi hanno contribuito a bocciare quella riforma, sono lì lì per dirsi pentiti. Memoria lunga dell'elettorato di sinistra? Certo, come si fa dire, una parola d'ordine oggi, che si vuole una legge elettorale che «restituisca agli elettori la scelta dei loro rappresentanti oltre alla scelta del proprio governo» (Giovanna Melandri, ma anche altri) quando in quella «porcata» e nella precedente ci si è sguazzato dentro indecentemente come gli altri? E il lavoro? Ma stiamo scherzando? Si pensa che la gente che vive sulla propria pelle la crisi non legga i giornali? Per suonare le proprie campane bisogna prima avere le campane. E non si ha nemmeno il campanello del chierichetto quando si leggono, non certo su giornali di destra, frasi così: «Ma la novità che Bersani vuole introdurre è riattivare in modo stabile il contatto con i tre milioni di elettori alle primarie». Che tristezza! Sulle mollette verdi consegnate agli elettori delle ultime primarie c'era scritto «ci tengo». Già, gli elettori che si sono recati a votare ci tenevano e come a esprimersi e a dare un contributo straordinario al partito di sei milioni di euro. Ma il partito? Finite le mollette? Parrebbe. Ci racconta Il Messaggero che «una società esterna da un paio di mesi è al lavoro per produrre una banca-dati, fruibile dal partito». Incredibile, no? Cosa leggerà, dunque, il partito negli occhi degli italiani?
E notizie come questa, sempre data da Sardo: «L'idea [è] di costruire una rete più ampia dei circoli e farne un tessuto connettivo per la campagna elettorale, copiando qualcosa della "rete" di Obama, di cui Bersani ha chiesto dettagliate informazioni nella recente visita a Washington», è quasi istigazione al suicidio. Ma non ci si lasci prendere dallo sconforto. Perché, «se si precipitasse ad elezioni, sarà lui [Bersani] a lanciare un appello a tutti i partiti che colgono nel comportamento di Berlusconi un rischio per la Costituzione: "A quel punto chi dicesse di no si assumerebbe le proprie responsabilità davanti al Paese"». Ahinoi.
Una chiusa amara nell'attesa della disamina attenta delle due lettere che hanno tenuto banco in questi giorni nel dibattito del centrosinistra e di rimbalzo nel centrodestra. Bersani parla nella lettera di «anni di illusione berlusconiana». Vero non vero, non è questo il problema. Quale è l'alternativa? Un suono di campane? Qualche volantino distribuito casa per casa da militanti che magari non lo hanno neppure letto?

La strada che non c'è

Ricordando un articolo di Stefano Ceccanti su Europa, ho scritto che il Pd ormai affida le proprie chance alla legge dei grandi numeri. Sullo stesso argomento, una settimana più tardi, sempre su Europa, si è cimentata Giovanna Melandri. «La stagione del fango gettato a piene mani sta disarticolando irreparabilmente il partito del predellino: roba che la fusione a freddo del Partito democratico sembra un pranzo di gala a confronto». I toni roboanti, quell'«irreparabilmente» per capirci, fanno parte del bagaglio agit-prop che viene da lontano di molto Pd, tanto da non notare il contrasto con il «piccolissimo», aggettivo usato subito dopo per descrivere l'insperata possibilità: «In questo frangente da basso impero [i toni alti è un vezzo irrinunciabile, che forse nasce da una sorta di rabbia impotente], si è aperto, per le forze progressiste, un piccolissimo spiraglio».
Giovanna Melandri sa di non contarci molto, sullo spiraglio, tant'è che subito aggiunge: «Voglio essere chiara su questo: così come si è aperto questo varco, lo spiraglio potrebbe prontamente richiudersi, confinando il Pd nuovamente ai margini del dibattito politico». La lingua, insomma, continua a battere dove il dente duole: sulla marginalità politica vissuta da un partito abituato a fare dell'egemonia la sua carta vincente fino all'ultimo Veltroni. La politica del loft ha scardinato rapporti e vecchie prospettive trascinando il Pd in un vicolo cieco, senza un orizzonte, dove ci si continua a dibattere per inventarsi un'uscita che non sia il ritorno indietro sui propri passi, la fine.
Scrive ancora la Melandri: «Non so se ci siano le condizioni politiche per un governo "istituzionale" che riesca a cambiare la legge elettorale restituendo ai cittadini il diritto di poter scegliere i propri rappresentanti». E non se lo augura, perché, citando Michele Salvati, ciò comporterebbe per il Pd «scelte difficili sulla natura del sistema politico italiano e sulla stessa identità» propria.
«È chiaro infatti che il ritorno a una legge elettorale proporzionale allo stato attuale sembra essere il comune denominatore dell'unione sacra contro Berlusconi; mentre un'altra legge maggioritaria che superi la "porcata" e restituisca agli elettori la scelta dei loro rappresentanti oltre alla scelta del proprio governo non sembra essere verosimile in questa legislatura», scrive la Melandri, aggiungendo: «Per il Pd questa è una scelta sulla propria natura e identità non da poco. E senza retorica vorrei dire: ne va della sopravvivenza del progetto politico del Pd». Appare evidente che se la questione personale indirizza l'attività governativa di Berlusconi, la classe dirigente democrat è impelagata in una questione altrettanto vitale: la propria sopravvivenza. In un caso e nell'altro i problemi reali del paese sono una questione marginale del dibattito politico. Ogni tanto si lancia qualche slogan, da una parte e dall'altra, solo per giustificare la domanda di consenso che si chiede nel momento elettorale. Ma restringendo sul Pd, il nocciolo della questione sta, dunque, nel fatto che la classe dirigente è troppo impegnata nell'osservare il proprio ombelico, invece di giocare la posta di un programma concreto, fatto di soluzioni vere alla quotidianità che assilla la gente che fa fatica a sbarcare il proprio lunario. L'errore del loft è stato di credere di potersi chiudere in una torre d'avorio, a farsi vicino ad un caminetto di "oh, come siamo bravi", pensando che fuori il popolo avrebbe preso i voli intellettuali per parole di lotta. Il distacco dalle «masse» così definitivamente sancito, non è però stato metabolizzato, e la Melandri lo testimonia: «E tuttavia non credo sia utile in questo momento fissare la nostra iniziativa su chi possa essere la figura di garanzia di un simile percorso, come molti si sono esercitati a fare in queste settimane. La priorità del Partito democratico è quella di lavorare alla costruzione di una coalizione che possa contendere il governo del paese a ciò che resterà dell'ordalia del centrodestra in un confronto elettorale con l'attuale legge». Cioè, smettiamola di farci del male cercando un leader, cosa che non è dopo Berlinguer nel dna di quel soggetto politico mutante che oggi è Pd, e pensiamo invece alla prossima ammucchiata. Certamente nella situazione attuale non si vince se non ci si accompagna con l'escort di turno, ma il problema è di non essere l'escort. Che tradotto significa che si deve avere un programma reale, un progetto che può richiamare consenso, piedi ben piantati tra la gente. Il Pd ha tutto questo? L'eredità di una base, zoccolo duro fermo per molti aspetti a prima del muro, più che un vantaggio è un disvalore. Perché la corsa elettorale è una corsa a handicap: si crede di partire davanti, ma in realtà quella dello zoccolo è una percentuale che ti tiene indietro. Non solo falsa la cognizione del proprio consenso, ma soprattutto frena. Frena nuove possibilità, e la fine ingloriosa, e per molti versi immeritata, di Veltroni in fin dei conti ne è la dimostrazione.
Giovanna Melandri pone in chiari termini lo stato dell'arte della ricerca di una prospettiva: «Alle nostre spalle, c'è la fallimentare esperienza della rissosa Unione. È chiaro che non possiamo ripresentarci ingessati in una coalizione destinata a naufragare alla prima difficoltà, anche perché gli elettori del centrosinistra ci hanno dimostrato in questi anni di avere una memoria molto lunga. Così come, è altrettanto lapalissiano che una corsa solitaria del Pd riconsegnerebbe l'Italia a un centrodestra edulcorato della componente moderata, e, dunque, sempre più prigioniero della Lega. La strada è davvero stretta». Forse, messa così, non c'è proprio.

mercoledì 25 agosto 2010

Prima o poi

Facciamo un passo indietro a due settimane fa. In un articolo pubblicato su Europa, dal titolo significativo «Proporzionale morte del Pd», Stefano Ceccanti, che aveva iniziato il suo pezzo con un «Il bipolarismo è in crisi come il capitalismo, del secondo però diciamo spesso che ha i giorni contati, anche perché chi ha provato a uscirne non ha prodotto di meglio. Vale anche per il bipolarsmo», scriveva ad un certo punto: «Fa quindi bene il segretario Bersani a ricordare che il bipolarismo appare ben radicato tra i cittadini»; e, contando su tale autorevolezza, per dire alla fine che la soluzione migliore della crisi politica era «tornare presto a una migliore fisiologia bipolare con una legge elettorale diversa, meglio se a doppio turno di collegio, non con la proporzionale pura che miri a privare gli elettori della scelta diretta del governo». Siamo nel centrosinistra ed il concetto di collegialità, seppur di derivazione del centralismo democratico, c'è ancora; se l'articolista fosse stato di centrodestra, avrebbe concluso con «scelta diretta del premier».
L'obiezione evidente è se sia poi proprio vero che il bipolarismo sia radicato come l'edera, e Ceccanti l'avverte tant'è che prosegue più avanti così: «La domanda da farsi è la seguente: al di là della questione se i cittadini siano o no attaccati al bipolarismo (ma lo scarso successo delle forze che l'hanno contestato dovrebbe dirci qualcosa) una legge che cercasse di smantellarlo cosa produrrebbe?». Ecco il vero problema. Ma prima di vedere il perché mi permetto una chiosa su la considerazione di Ceccanti messa tra parentesi. Si può assumere come postulato che nessuna forza politica intenda fare harakiri, e dunque sostenga quanto a modalità elettorale la forma migliore che può garantire la sua sopravvivenza. Quindi la scelta del modello proporzionale o del maggioritario come propria rivendicazione dipende dalla forza elettorale, dai voti che può prendere. Il calcolo bipolare di Veltroni non era sbagliato e l'uso che ha fatto della porcata calderoliana per togliersi dai piedi la «litigiosa» sinistra era ben meditato. Gli è andata male perché dall'altra parte non c'era la stessa esigenza, anzi c'era la volontà di vincere facile come dice uno spot televisivo. E, dunque, il predellino era quello di un autobus, seppure travestito da automobile. Il prezzo sono gli screzi di adesso, sicuramente messi in conto già da allora, tant'è che di Fini si è fatto un presidente della Camera e non un ministro, cercando così di marginarlo con «reciproca» soddisfazione. Una legge elettorale che mantenga in vita il bipolarismo è d'interesse solo per le due forze che parafrasando Grillo possiamo chiamare Pd-l e Pd+l. La questione è che fino a che Berlusconi rimane in politica quella L (Lega) è determinante nel risultato d'una votazione. Le crociate antiberlusconiane significano questo: eliminare l'anello (Berlusconi) che tiene saldamente uniti Pdl e Lega.
E Ceccanti, per ritornare all'articolo, ben lo sa tanto è che scrive: «Se ora tornassimo indietro dalle regole bipolari anche il Pd sarebbe a rischio: la proporzionale pura evoca partiti monoculturali, che usano le elezioni per confermare le identità e che sono dopo si pongono il problema del governo». Cioè un possibile smembramento e dunque la fine del soggetto politico Partito democratico, come ipotizza lo stesso Ceccanti: «In un simile schema il Pd sarebbe portato a rifluire in parte verso l'opa di Vendola e in parte verso l'opa di Casini, quello che sta accadendo perché le regole appaiono già in discussione». Dunque, boia chi molla sul bipolarismo, soprattutto dice Ceccanti, «nella fase che vedrà Berlusconi uscire di scena». Più che un albero dalle profonde radici tra i cittadini, il bipolarismo sembra piuttosto una sorta di irrinunciabile arca di Noè capace di trasportare in balia delle onde gli ex pci convertiti alla democrazia e la sinistra democristiana verso un orizzonte che forse, per la legge dei grandi numeri, porterà ad un approdo governativo, prima o poi.

martedì 24 agosto 2010

È un altro mestiere

La prima parte di questo articolo è il post «Contro il cemento senza se senza ma».
Un articolo di Andrea Bagatta pubblicato sabato dal Cittadino fornisce dati relativi ai censimenti agricoli, utili per capire l'andamento dell'attività agricola nel territorio lodigiano in termini di numero di aziende. I dati riportati, che partono dal 1982, ci dicono che in quell'anno le aziende agricole effettive, che effettuavano la conduzione di terreni o la pratica dell'allevamento, erano 2530. Da allora ad oggi c'è stato un continuo decremento: 2286 nel 1990, 1776 nel 2000, 1554 nel 2006, l'ultimo dato fornito dal Piano Agricolo Territoriale della Provincia di Lodi. In 24 anni, cioè sono state chiuse 976 aziende, il 39% rispetto al 1982. Se la moria è continuata o meno negli ultimi anni ce lo dirà la rilevazione che partirà il 24 ottobre. È difficile dire quanto sia determinante il mercato sulla mortalità delle aziende agricole e quanto concorra nel karakiri un certo tipo di imprenditorialità agricola che non riesce a rendersi autonoma dagli aiuti statali. Va aggiunto anche che solo in tempi recentissimi gli enti locali lodigiani hanno cominciato a capire che l'agricoltura nostrana è una attività produttiva da salvaguardare e da incentivare, ad esempio con l'istituzione di marchi ad hoc per i prodotti del territorio. Ma non è questa la questione che si vuole qui affrontare.
«La cascina è uno degli elementi fondamentali del paesaggio agrario del Lodigiano e dell'area irrigua padana: suo centro nevralgico sul piano produttivo e sociale», scrive Ercole Ongaro nel suo libro "Il Lodigiano. Itinerari su una terra costruita", realizzato con la collaborazione di altri studiosi, tra cui l'architetto Giacomo Bassi e arricchito da fotografie di Valerio Sartorio. «La tipica cascina lodigiana è la dimora "a corte" chiusa della grande e media azienda agricola capitalistica, condotta dal proprietario o spesso da un affittuario con un indirizzo colturale foraggero-cerealicolo-zootecnico. La cascina si è sviluppata in connessione con il processo di costruzione del sistema agrario avviato dalla bonifica idraulica e dalla capillarizzazione dell'irrigazione». La disponibilità di acqua è stata fondamentale nello sviluppo degli insediamenti agricoli lodigiani: «Infatti il potenziamento dell'irrigazione, con lo scavo di una roggia, innescava non solo lavori di adattamento del suolo, di razionalizzazione degli appezzamenti, una estensione dei seminativi, ma anche un rafforzamento del patrimonio edilizio: in tale contesto si colloca la genesi della cascina». Fu a partire dal Quattrocento che la «costruzione» del territorio lodigiano ebbe un grande impulso grazie a cospicui investimenti fondiari da parte di famiglie nobili o di enti morali. Investimenti che «portarono allo scavo di nuove rogge in derivazione della Muzza, a una estensione delle superfici a prato, a uno sviluppo degli edifici rurali, a una riformulazione dei precedenti contratti agrari». Sull'importanza della cascina sul piano produttivo e soprattutto sociale ricordo i due ottimi testi di don Peppino Barbesta, Giacomo Bassi, Aldo Carera e Renzo Cattaneo, "Vivere di cascina" e "Gente da vivere", che raccolgono testimonianze di vita e di lavoro del mondo rurale lodigiano.
Un mondo quello rurale che per secoli si è sviluppato secondo canoni ben precisi, legati allo sfruttamento produttivo della terra e delle risorse naturali e che solo di recente ha subito un repentino mutamento. Scrive Ongaro: «La cascina, a partire dalla metà del Novecento, è cambiata notevolmente per le trasformazioni avvenute sul piano dell'organizzazione del lavoro o delle attività stesse dell'azienda agricola in correlazione al grande esodo dei salariati e delle loro famiglie. Nella sua struttura sono apparsi elementi nuovi (silos-trincea, sale di mungitura meccanica, recinti per la stabulazione aperta) ed è stato modificato o del tutto abbandonato l'uso di altri (stalla di cavalli, caseificio, ghiacciaia); l'abbandono più rilevante ha riguardato il settore delle abitazioni contadine. Perciò oggi la cascina vive soprattutto come azienda, come unità produttiva, non più come comunità o aggregato sociale: ha cessato di essere "unità di insediamento e di produzione", ossia polo produttivo e insieme comunitario».
Nel contesto della cascina, oggi, convivono le testimonianze d'un mondo ormai scomparso, d'una civiltà agricola che ha fatto del territorio lodigiano un patrimonio unico da salvaguardare, e le esigenze di una moderna azienda sempre più tecnologica. E sempre più si sta allargando il «conflitto» determinato dallo iato tra il modello di azienda tipico della vecchia civiltà contadina e il modello nuovo dell'azienda moderna al passo con lo sviluppo produttivo basato sull'ampio impiego di nuove tecnologie. Le cascine storiche sono l'elemento che più ne fa le spese. Non solo un crescente abbandono di vecchi insediamenti, ma anche all'interno di siti pienamente produttivi l'abbandono di quelle parti non più utili o consone per l'attuale attività e le nuove modalità di produzione.
Insomma, conclude così Ongaro il suo scritto sulla cascina, «pur nella sua attuale ridotta realtà, la cascina non solo continua a costituire il cuore del sistema agrario del Lodigiano e dell'area attigua, ma resta anche a testimoniare un passato in cui tra uomo e terra si era instaurato un più equilibrato rapporto». Tuttavia la considerazione conclusiva espressa dallo storico si presta ad un equivoco di fondo, e che cioè ci debba essere una coincidenza di interessi tra salvaguardia del patrimonio edilizio storico e lo sviluppo dell'attività produttiva. Forse da questo «equivoco» nascono tutti i guasti cui stiamo assistendo nei nostri comuni, dove il degrado di edifici rurali di interesse storico-architettonico sono sotto gli occhi di tutti, sia tra gli insediamenti dismessi in toto quanto ad attività produttiva, sia quelli dove l'attività continua. Per un semplice motivo economico: salvaguardare il patrimonio edilizio ha un costo; e se non si dà un senso di profitto alla sua salvaguardia, è una pura perdita, che soprattutto in questa fase di crisi un'azienda agricola non può permettersi. E a maggior ragione se l'imprenditore agricolo non è il proprietario del sito della sua azienda.
Un concetto, cioè deve essere ben chiaro, che salvaguardare un bene storico-architettonico o paesaggistico è un mestiere ben distinto dal condurre un'attività produttiva agricola di conduzione d'un fondo o zootecnica. Ma questo vale anche per altri aspetti di salvaguardia del territorio, come ad esempio la manutenzione di vecchie strade o percorsi rurali abbandonati perché non più funzionali alle attività di produzione, ma ricchi, ad esempio, di potenzialità per il tempo libero o in un contesto turistico. A chi, dunque, spetta l'«onore» e l'onere della salvaguardia dei beni culturali che costituiscono le vestigia del passato di questo territorio? La risposta è ovvia: agli enti locali, Comune e Provincia, e alla Regione. Sta a questi enti programmare il recupero, progettare gli interventi, «inventarsi» gli incentivi, diretti ed indiretti, per cui chi usa il bene o comunque lo ha nella sua disponibilità trovi un qualche tornaconto nel procedere alla sua salvaguardia. E soprattutto finalizzarne il recupero in modo che vada a vantaggio della intera comunità. Non è cosa facile. Vero. Ma se si vuole essere qualcosa di più d'un amministratore d'un piccolo condominio, uno che lo fa al massimo per puntare magari domani ad un palazzo nel capoluogo, la sfida deve essere raccolta seriamente, con i fatti non con le solite parole al vento buone per una foto su di un giornale e che portano forse qualche voto, utile sicuramente per «tirare a campare» ma niente di più. Non è un caso che lo strumento urbanistico oggi si chiami "piano di governo del territorio": la parola "governo" esprime un ruolo normativo e nel contempo esecutivo di finalità che interessano la comunità.
Una cosa è certa. Non si aiuta la conservazione degli edifici che costituiscono le vecchie cascine offrendo alla cementificazione altro terreno agricolo perseguendo il miraggio di arrivare così ad un incremento in termini di oneri di urbanizzazione delle entrate comunali. Perché non invece pensare ad una «integrazione» delle cascine nel tessuto urbano fornendo servizi utili ad eliminare le differenze tra il vivere in paese e il vivere in cascina? Anche con le poche risorse a disposizione. Bastano idee e capacità di progettazione e programmazione e di dialogo con tutte le componenti la comunità. Certo, sono risorse ben più ardue da trovare. Ripensare il territorio è l'unica strada per uno sviluppo armonico sostenibile nel Lodigiano.

lunedì 23 agosto 2010

Contro il cemento senza se, senza ma

«Nel Lodigiano che "divora" territorio sono troppe le cascine abbandonate», titolava così in prima pagina, sabato 21 agosto, il quotidiano Il Cittadino di Lodi. «Da una parte il continuo consumo del suolo, dall’altra le tante, troppe cascine abbandonate. Una delle tante contraddizioni urbanistiche del Lodigiano». Il giornale diretto da Ferruccio Pallavera è da sempre sensibile verso la tutela ambientale, la conservazione di quei tratti peculiari del territorio lodigiano che ne fanno una terra caratteristica e unica. La denuncia - per fare un esempio dei temi di grande attenzione del quotidiano - della troppa facilità con cui i sindaci, col solo intento di «fare cassa», aprono alla speculazione che con la prospettiva d'un facile guadagno induce agricoltori a cedere ad un mercato edilizio, oggi oltretutto fermo quanto a domanda, terreni fertili e produttivi per la loro irreversibile cementificazione. Editoriali che in più occasioni hanno aperto un dibattito. Un allarme giustissimo perché io credo che se si andasse a fare la somma delle nuove costruzioni previste nei Piani di governo del territorio (PGT) dei comuni lodigiani ne uscirebbe fuori un'esigenza irreale, il fabbisogno equivalente di una nuova città. Abitata poi da chi?
Qualche settimana fa toccava a Matteo Brunello lanciare l'allarme cementificazione sul Cittadino. Si trattava della cascina Carazzina, situata ai margini della tangenziale di Lodi, in zona San Grato, dove l'amministrazione comunale di centrosinistra prevede nuovi insediamenti produttivi. Uno spazio già circondato dai capannoni della logistica e che ora, informava Brunello, potrebbe essere ulteriormente minacciato da traffico e cemento, visto che il comune di Lodi con il nuovo Piano di governo del territorio ha previsto nella zona nuovi spazi per lo sviluppo artigianale e produttivo.
Così Brunello descrive il podere Carazzina, oltre 33 ettari coltivati a colture cerealicole e foraggere: «Distese di campi coltivati a mais, geometrie di canali che si perdono nel verde e un vecchio cascinale. Uno stupendo angolo di verde, a pochi chilometri dal centro del capoluogo. Il cascinale è molto ampio e comprende una casa padronale, case coloniche ed edifici di deposito e di servizio. Strutture che sono state recuperate, nel rispetto dei criteri dettati dall'architettura storica. Nei pressi della cascina si notano inoltre campi coltivati, alberature, corsi d'acqua e strette strade bianche». Proprietario del podere è Guido Prato Previde di Milano, che ha riferito al giornalista alcuni dati storici e di difesa dell'area: «Ci siamo adoperati per anni nel difendere i valori di questa terra, nel rispetto delle migliori caratteristiche del paesaggio agrario tradizionale del Lodigiano e per tutelare i fabbricati della cascina risalente ai secoli scorsi; il fondo è pervenuto alla mia famiglia ancora verso la fine dell'Ottocento e da allora ci siamo dati da fare per mantenerlo in modo molto attento. Lo abbiamo fatto anche cercando di difenderlo da iniziative che per noi erano discutibili e ci siamo per questo tutelati in sede legale. Ad esempio nel caso della costruzione di un vicino magazzino di logistica». Ma tutto questo non interessa alla giunta di centrosinistra, capeggiata dal sindaco Lorenzo Guerini: il Piano di governo del territorio che disegna la «Lodi del futuro», come già accennato, nei pressi della cascina Carazzina prevede una zona di espansione produttiva, non lontano da vie importanti di comunicazione come la ferrovia e la tangenziale.
La proprietà a fine giugno ha presentato alcuni rilievi al documenti urbanistico del comune che sottolineano un'incongruenza del testo con le previsioni per l'area rispetto alla programmazione provinciale ed ha evidenziato, come riporta nel suo articolo Brunello, che «una trasformazione edificatoria delle aree del fondo a nord della ferrovia distruggerebbe di fatto il tessuto ambientale».
Ma c'è un'altra frase del proprietario trascritta da Brunello che mi piacerebbe e che credo piacerebbe a tutti sentire da altri proprietari di terreni agricoli, a Lodi, a Brembio, in tutto il Lodigiano: «Il cambio di destinazione d'uso di terreni di nostra proprietà, che potrebbero diventare produttivi, aumenterebbe il valore delle aree. Ma non è questo ciò che a noi interessa, l'importante per noi è la valorizzazione di un contesto agricolo e paesaggistico che in questo modo andrebbe disperso».
(continua)

sabato 21 agosto 2010

Il terzo incomodo

Il Fatto Quotidiano ha pubblicato mercoledì 18 agosto un'intervista al senatore Ignazio Marino, che è stato il terzo incomodo nelle primarie per la designazione del segretario del Partito democratico. Già il titolo sintetizza in maniera forte la portata delle affermazioni contenute nel testo dell'articolo: «Basta tessere e segrete stanze: così è un partito da buttare». E nella presentazione, la giornalista Wanda Marra parte con questo virgolettato di Marino: «Il Partito Democratico o diventa un partito contendibile o non è un Partito democratico. E a quel punto è meglio che si sciolga». Estremamente eloquente, posta così, la questione.
Le domande della giornalista partono focalizzando l'attenzione sulle primarie, dibattito all'ordine del giorno nel centrosinistra dopo che la possibilità di un voto anticipato si è resa concreta soprattutto per insistenza della Lega Nord, ed una serie di autocandidature, alternative a quella di bandiera dell'attuale segretario del Pd Bersani: Vendola, De Magistris, Chiamparino. Dice Marino: «Dobbiamo insistere ancora di più sulle primarie, in un momento in cui, con questo sistema elettorale, di fatto i parlamentari sono nominati da 4 o 5 capi-partito. È una grave ferita della nostra democrazia. E per quel che riguarda i candidati sindaci delle grandi città, le consultazioni sono molto importanti, perché fanno sì che chi scende in campo prenda impegni e responsabilità con le persone che lo devono eleggere». La giornalista, però gli fa notare che non tutto il partito è d'accordo sullo strumento: «Non si tratta certo dei nostri elettori... Serve la possibilità di scegliere una classe dirigente nuova, con energie fresche», ribatte Marino. Insomma il nuovo di Bersani è il vecchio di sempre. Ma la sua interlocutrice gli osserva che le primarie come sono state fatte fino ad ora, non hanno selezionato nessun «nuovo talento», ma piuttosto sono servite a legittimare le scelte dei vertici. E, quindi, dove sta il senso delle primarie? Marino risponde: «Quelle sono proprio le primarie che non vorrei [la giornalista aveva citato quelle vinte da Prodi e quelle vinte da Veltroni]. Per esempio, io mi sono presentato candidato segretario, senza un'organizzazione, senza avere dalla mia le tessere del partito, e sono arrivato quasi al 15 per cento. Bisogna andare in quella direzione. Quanto potrà resistere la classe antica, chiusa nelle stanze del potere? Dobbiamo lavorare tutti insieme perché prenda il sopravvento la possibilità di una competizione davvero alla pari: ci sono pochi dirigenti del secolo passato che riescono a influenzare le linee del Pd. Ma le persone seguiranno chi indica percorsi trasparenti di democrazia e merito». Effetto collaterale delle parole di Marino è che ne esce in fin dei conti una radiografia del Partito democratico che lo mostra non molto dissimile ai Ds e quindi al vecchio partito comunista quanto a chiusura e gestione interna del potere. Non il sogno di modernità tentato da Veltroni, abortito con l'inevitabile sconfitta subito dopo le elezioni. E quanto alle ultime primarie, quelle per la segreteria, la giornalista del Fatto evidenzia che anche esse non sono state niente altro che un modo per contarsi nel partito, tra chi sosteneva Bersani e chi Franceschini. «I cambiamenti non si fanno in una notte. Abbiamo avviato un percorso». Vabbè, e Marino cita e si dilunga sull'esempio americano «dove spesso è difficile immaginare chi saranno i candidati leader». Cose d'un altro mondo.
E poiché si sta sfociando nell'utopia, la giornalista cerca di rimettere il discorso con i piedi per terra: «A cosa si riferiva parlando di "pochi dirigenti del secolo passato" che influenzano il partito?». E Marino spiega: «Alla mancata trasparenza e giovinezza, che non è una questione di età anagrafica, ma di spirito, che si è vista in molte circostanze. Per esempio, si è notato nella segreteria Bersani o nella gestione di Dario Franceschini, in occasione della scelta dei candidati al Csm. Fino alla mattina della votazione i parlamentari non conoscevano chi avrebbero scritto sulla scheda». Nulla di nuovo, insomma, sotto il sole. Inutile dilungarsi oltre.
Da annotare soltanto ancora la risposta all'ultima domanda, il possibile ritorno di Prodi voluto nel Pd da molti sostenitori delle primarie. Questa la risposta: «Ho molto rispetto per Prodi. Ma credo che possiamo anche immaginare una figura che non sia stata capo del Governo o Ministro nel secolo passato». Un esercizio intellettuale decisamente arduo.

giovedì 19 agosto 2010

Un grande vecchio

Forse il miglior modo per rendere a Cossiga la giusta memoria, più che con i tanti coccodrilli che riempiono le pagine dei giornali e le molte lacrime di coccodrillo che sono scorse a fiumi, è quello di ricordarlo citando brani tratti dall'intervista pubblicata da Il Mattino all'uomo che di cui il presidente emerito fu un «rude avversario».
Scriveva Teresa Bartoli il 18 agosto: «Achille Occhetto non nasconde il suo stupore per il coro di elogi di queste ore: "Pur nel cordoglio sentito, farei un torto a lui, rude e schietto, se non fossi sincero nel ricordarlo come un personaggio dalle molte ombre"». Occhetto, che fu l'ultimo segretario del Pci, guidò il Pds nel primo ed unico tentativo di messa in stato d'accusa di un presidente della Repubblica. La richiesta di impeachment fu archiviata per le dimissioni di Cossiga, anticipate di qualche settimana sulla scadenza naturale del settennato.
Dice nell'intervista Occhetto: «Per me in lui prevalgono le ombre. In un certo senso, è stato un personaggio inquietante: aveva un'intelligenza acuta, che gli permetteva di esprimere idee che sembravano muoversi sul terreno della razionalità pura. Ma, allo stesso tempo, faceva scelte che le contraddicevano in maniera clamorosa. Indubbiamente fu tra i pochissimi nella Dc dell'89 a capire che, con la caduta del muro di Berlino, cambiava il mondo. Per questo apprezzò la svolta della Bolognina e sferzò lo scudo crociato a cambiare, a rendersi conto che il sistema politico stava cambiando e non ci sarebbe stato più per esso il ruolo centrale della prima Repubblica. Ma, fatta quella analisi, nei fatti si adoperò per inciuci e "mastellate", lavorando anche nell'ombra per far saltare il sistema bipolare e tornare a quanto di più simile al vecchio sistema politico fosse possibile».
Quanto al suo periodo di presidente della Repubblica, Occhetto così lo ricorda: «Picconò il palazzo, ha avuto una funzione puramente demolitoria. Ed ha svolto il suo settennato aprendo di fatto la strada ad una deriva presidenzialista. Ma coltivando, in modo contraddittorio, anche il sogno di un ritorno al vecchio sistema. Insomma ha unito il peggio del presidenzialismo con la nostalgia per la prima Repubblica. E, altra ombra indelebile, ha operato perché nascesse in Italia un governo per la guerra nel Kosovo». Il governo D'Alema. Afferma Occhetto: «Cossiga ha ammesso di averlo appoggiato perché in grado, più di un cattolico come Prodi, di tener buona la sinistra e garantire l'obiettivo amerikano, col k, della guerra. Finita la funzione, ha lasciato andare allo sbaraglio quel governo».
Cossiga ha portato con sé molti misteri. Di questo avviso è anche Occhetto: «Sicuramente non ha detto tutto quel che sapeva di Gladio, del caso Moro, sui rapporti con gli Usa e la strategia della tensione». Un grande vecchio della politica italiana, dunque, è morto, uno che se avesse voluto, poteva mettere una parola definitiva su molte oscure vicende della Repubblica italiana. Teatrale fino alla fine, con quelle quattro lettere inviate alle massime autorità dello Stato.

mercoledì 18 agosto 2010

Senza domani

«È del resto molto difficile immaginare un governo che tenga insieme Fini e Bersani, Casini e Di Pietro», scriveva ieri il Riformista, un governo di tutti i nemici di Berlusconi, che non ha i numeri al Senato per la fiducia. Eppure stiamo quotidianamente assistendo ad un siparietto dove il governo del Presidente (l'eventuale governo cui Napolitano potrebbe dare l'incarico per gestire le elezioni) viene propagandato come ultima ratio prima del voto. Al di là delle urla di orrore per un «colpo di stato» di fatto, «costituzionale», l'idea continua ad essere propagandata con i media, pur magari dicendo, come fa il Riformista, che il fronte berlusconiano spara contro un nemico sostanzialmente immaginario». Arrivando a chiedere sic et simpliciter le dimissioni del premier, come unica possibilità per andare al voto che secondo il centrosinistra è apoditticamente il progetto del centro destra.
Se palude c'è, è nei giornali. Giornali che ormai, invece di fare cronaca della quotidianità, si sono arrogati il ruolo non solo di fare la politica delle lobbies e schieramenti di riferimento, ma di costruire loro la realtà politica e amministrativa italiana. Apriamo gli occhi: un governo c'è, che sta governando, di cui ancora non è stato dimostrato che non abbia il sostegno di una maggioranza in Parlamento sulla realizzazione del programma elettorale votato alla grande dagli elettori. Questo governo può piacere o non piacere, ma dovrebbe essere messo nella condizione «psicologica» di governare. Ed invece, dal primo secondo dopo la divulgazione dei risultati elettorali si è fatto di tutto per affossarlo e affossare con esso la volontà popolare, giusta o sbagliata che sia. Si sono usate tutte le truppe cammellate a disposizione, dalle escort ai futuristi. Riuscendo anche ad armare la mano di un esaltato, purtroppo. Incredibile poi che chi per primo non rispetta la democrazia, pur etichettandosi con essa, e di conseguenza in definitiva la costituzione, si faccia bodyguard della Carta. E giorno dopo giorno inventi e dia fiato a leggende metropolitane, l'unica possibilità evidentemente rimastagli di «far politica».
Prendiamo Europa, ieri. L'incipit di un articolo di Giorgio Merlo: «Il dibattito surreale a cui stiamo assistendo in questi giorni dalle parti del centro destra è semplicemente inguardabile. Accuse a colpi di dossier, scarso senso delle istituzioni anche da parte di chi fa della legalità la sua bandiera ideologica momentanea, scontri istituzionali che possono mettere in crisi lo stesso sistema. Il tutto in una cornice dove emerge in modo sempre più inquietante una concezione proprietaria delle istituzioni e dello stato». Un film, «reale» sui giornali e nella testa dei «dattilografi». Quanto realmente reale? Quanto quello che il giornalista aggiunge riguardo il Pd? Non dimentichiamo che Europa è «organo» del Pd. «Ma al di là delle contraddizioni e della situazione che caratterizza il centro destra, credo sia importante sul versante opposto, chiarire un aspetto che non può essere semplicemente ridicolizzato o sottaciuto. E cioè, la coalizione riformista e democratica che il Pd vuol costruire non può e non deve essere confusa con una alleanza che dovrebbe essere messa in campo per "liberarsi" da Berlusconi». In parole povere, viene così svelato l'unico obiettivo del Pd oggi, quello di sempre dalla batosta subita dalla gioiosa macchina da guerra: liberarsi da/i Berlusconi. Sì, vero il Pd non era nato con questo solo scopo, ma se qualcosa d'altro c'era, è morto con Veltroni. Un tema politico quello sottolineato da Merlo, che non può essere liquidato banalmente, perché bisogna fare i conti con gli altri gruppi politici che possono anche non starci. Aggiunge l'articolista: «Anche perché la linea del pallottoliere rischia di infrangersi contro gli scogli delle convenienze e delle suscettibilità dei singoli partiti. Non è un caso se, ad esempio, l'Udc già pone dei paletti fermi per evitare l'alleanza con Vendola e soci e lo stesso Di Pietro mal digerisce una alleanza organica con il partito di Casini». Cioè, difficile fare una crociata con l'armata Brancaleone. E poi, dice, le pregiudiziali politiche o morali che arrivano dai quei partiti, che comunque sono minoritari, conta poco, perché il nodo è un altro: «la concreta iniziativa politica che assumerà il Pd». Già. Assumerà.
E qui arriva di supporto la fantasia e l'immaginazione, dal momento che a tutti è noto che, tolto l'obiettivo citato, finora la segreteria Bersani altro non ha prodotto, cosa che con immenso eufemismo viene anche detta così: «Sino ad oggi Bersani ha colto nel segno quando ha evidenziato le profonde contraddizioni del governo Berlusconi e quindi ha posto le condizioni per superarlo per poi, in un secondo momento, dar vita alla futura coalizione di governo». Fantapolitica. Tant'è che il periodo che segue è: «Un tema, questo, che va però affrontato senza reticenze e ipocrisie». Dire "non sappiamo che cazzo fare" non giustifica un giornale. E allora parole in libertà. Futurismo che torna di moda. E difatti: «È indubbio, infatti, che il Pd non può riproporre la logica dell'Unione se vuol essere credibile agli occhi anche dei moderati nel nostro paese. Una parentesi, quella dell'Unione, che va archiviata definitivamente a meno che qualcuno pensi che il destino del centrosinistra in Italia sia quello di essere condannato all'opposizione senza possibilità di appello considerando le profonde contraddizioni che si annidano al suo interno». E attenti, attenti: «È banale ricordare che difficilmente si costruisce una coalizione di governo seria e credibile - e destinata a durare in caso di vittoria - sommando i giustizialisti con i comunisti di varia natura, i riformisti autentici con i forcaioli incalliti. Una macedonia impazzita che supererebbe a malapena il dopo elezioni destinata a naufragare quando si passa dalla comoda fase della protesta a quella più impegnativa della proposta programmatica». A parte il fatto che non so chi mai abbia visto una macedonia impazzita, ma l'errore metaforico è banale, molto sostanzioso (e comodo) invece è l'attribuire alla sinistra la disfatta dell'Unione e non ai Ds e Margherita stessi. Ma non divaghiamo, andiamo oltre.
Proposta programmatica si dice: «Un compito a cui il Pd non si può sottrarre perché la vita politica italiana non può essere confusa con una eterna emergenza democratica e costituzionale. E tutti sappiamo che non è possibile declinare una strategia di governo sommando aritmeticamente l'attuale opposizione al centro destra». Insomma dopo tanto inchiostro, siamo ancora al «che fare?».
Beh, «non si tratta di riscoprire l'ormai tramontata "vocazione maggioritaria", suggestiva ma pur sempre insufficiente». Per vincere è necessaria una politica delle alleanze e poiché «è indubbio che non tutte le alleanze sono funzionali per il governo del paese», allora «compito del Pd oggi e della sua classe dirigente è soprattutto quello di costruire una coalizione di governo credibile, trasparente e duratura». Perbacco che trovata! E per rafforzare la «linea» con penna stentorea: «Una responsabilità a cui non ci si può sottrarre e a cui si deve porre la giusta attenzione per evitare che l'opposizione a Berlusconi sia solo un espediente momentaneo e del tutto privo di valenza politica strategica». Provate ad immagine come devono risuonare nelle orecchie dei militanti queste parole. Fuffa per incantare poveri cristi. E dire che non ci siamo ancora mossi dalla linea di partenza. Non sono io a evidenziarlo ma Europa: «Insomma, la stagione politica convulsa e densa di incognite che sta attraversando il nostro paese richiede adesso lungimiranza e senso di responsabilità. E il Pd, partito perno della futura alleanza riformista, non può liquidare la pratica come un fattore secondario. Abbiamo il dovere di costruire una prospettiva politica duratura, coerente e seria. Senza questa consapevolezza politica, culturale e programmatica dovremmo nuovamente assistere ad uno scenario dove si confronta uno schieramento chiassoso, vivace ma minoritario ed una maggioranza con poco senso dello stato ma condannata a governare per le contraddizioni del campo avverso». Ed il grande consiglio finale è: «È meglio pensarci su prima che questo scenario si consolidi definitivamente». Vabbè. E poi meravigliamoci che la Lega catalizzi sempre più consensi nell'area dove pesca il Pd.

martedì 17 agosto 2010

Evidenze

Il 12 agosto scorso, su Liberazione è stata pubblicata una "Lettera aperta ai segretari dei partiti di opposizione", firmata da Paolo Ferrero. La lettera contiene una serie di osservazioni che può essere utile tenere nella dovuta considerazione, anche perché rappresentano un reale punto di vista di quella che oggi è la sinistra italiana, isolata fuori dal Parlamento, sorte peggiore di quella vissuta per molti lustri dalla destra italiana orfana del fascismo. Scriveva Ferrero: «A me pare del tutto evidente che la crisi interna al centro destra più che determinare la fine del berlusconismo stia producendo un ulteriore imputridimento della crisi politica. Che i destini del governo e per certi versi della repubblica - visti i propositi anticostituzionali di Berlusconi - siano riassumibili nella diatriba legal giornalistica su un appartamento di Montecarlo non è null'altro che il segno di un degrado senza fine». E aggiunge con molto equilibrio: «Nessuno può pensare che il fango tocchi solo gli altri».
Prima di continuare con le citazioni, mi permetto un inciso sull'inciso in cui si ricordano i propositi «anticostituzionali» di Berlusconi. Con tutto quello che si sente e si legge in questi giorni appare difficile tracciare una linea netta tra ciò che è «costituzionale» e ciò che non lo è. Tutta l'azione dell'opposizione di centrosinistra, dell'area parlamentare che è etichettata «partito democratico», ad esempio, dalle ultime elezioni politiche ad oggi, quella di sfrattare «ad ogni costo» l'attuale inquilino di Palazzo Chigi, non so, seppure sia formalmente non eversiva, quanto si sposi con una corretta visione della nostra democrazia costituzionale, così come è delineata nella Carta. Della Costituzione viene fatto spesso un uso strumentale, più da foglietto di carta da usare in solitudine, piuttosto che un documento fondante la nostra convivenza sociale e civile secondo principi riconosciuti da tutti. Con un richiamo fondato su un simile uso si sono bocciate modifiche con un referendum costituzionale propagandato come l'ultima salvezza prima dell'abisso. E forse, col senno di poi, si è fatto male a bocciare quelle proposte. Un po' come con un altro risultato referendario ottenuto cavalcando lo stato d'animo vissuto dagli italiani in quel momento buio, quello che ha sepolto il proporzionale, che poteva aver prodotto sì gli eccessi della prima repubblica, ma niente in confronto alle oscenità della seconda prodotte dai suoi sostituti nella ricorsa a produrre strumenti di voto che dessero, possibilmente agli eredi della gioiosa macchina da guerra, stabilmente il potere senza il bisogno e la fatica di costruire quotidianamente il consenso. Ha vinto nel '94 Berlusconi. Ha rivinto dopo, ha rivinto ancora. Non c'è verso di mandarlo a Sant'Elena. Perché la gente è con lui come un tempo era con la Democrazia cristiana. Un dato di fatto.
Tornando a Ferrero: «Questa crisi ha indebolito il Berlusconi presidente del consiglio ma certo ha rafforzato il disgusto per la politica che milioni di italiani provano verso una classe dirigente che è incapace anche solo di ragionare sui temi che riguardano la vita quotidiana dei propri concittadini. Non so se sarà ancora Berlusconi a beneficiare di questo degrado o se sarà qualcun altro ma so che la ricerca di uomini della provvidenza si è oramai drammaticamente generalizzata. La carica antidemocratica di questa domanda non sarà semplice da smaltire».
Quanto al governo del Presidente dice: «Per questo la proposta di un governo di garanzia a me pare oramai completamente inadeguata. Non l'ho mai condivisa ma ne potevo capire la ragione nelle settimane scorse». E spiega il perché dal suo punto di vista: «Vi pare seriamente che si possa continuare così ancora a lungo, con le destre che ammorbano il panorama, la Lega che si erge a paladina della moralità e il paese che sprofonda dentro la crisi? Questo scenario potrebbe durare per mesi. Vi pare possibile che lo sbocco di questo putridume sia un governo istituzionale frutto di una manovra di palazzo, privo di mandato democratico e che avrebbe probabilmente l'unico effetto di permettere a Berlusconi di dipingersi - una volta ancora - come vittima?».
La lettera chiude con la proposta che è «di cambiare registro, di prendere atto della gravità della situazione e del fatto che per uscire da questo pantano occorre una proposta politica forte e netta». Elezioni e uno schieramento democratico con cui presentarsi alle elezioni, e un programma che Ferrero indica: «difesa della costituzione e il ristabilimento pieno delle regole democratiche, la modifica della legge elettorale in senso proporzionale, una politica sociale redistributiva». Le sinistre ci sono, ma il centrosinistra, il Pd? Come può starci a buttar via il maggioritario, il Pd che fonda le sue (scarse) fortune proprio su quel modello di legge elettorale? Sarebbe spegnere la macchina che lo tiene in vita.

Le corna del diavolo

«Dicono che è tornata la Dc? Se mi dà gli estremi di questi signori vado a costituirmi parte civile», così iniziava un'intervista di Marco Gorra a Gianfranco Rotondi pubblicata su Libero nei primi giorni d'agosto. Erano i giorni dell'annuncio dell'improbabile «Terzo polo», il polo per polli. «E l'hanno fatta rinascere Fini, Casini e Rutelli? Ma per piacere La Dc ha unito i due terzi degli italiani che non volevano il Pci al governo, prendendo i voti di metà ed assicurandosi gli altri mediante alleanze laiche. Cosa c'entrano Casini e Fini che semmai sono riusciti a dividere anche i propri partiti?».
Sempre ironico il ministro per l'Attuazione del programma, democristiano doc lui: «Anche perché lo sa che cosa facevano Rutelli, Fini e Casini mentre Martinazzoli - politico che amo per la coerenza con cui ha sbagliato tutto quello che poteva e per la lealtà con cui ne ha pagato il prezzo - chiedeva a noi democristiani di gettare il cuore oltre la gioiosa macchina da guerra e oltre Silvio? Rutelli stava con Occhetto, Fini abiurava il fascismo per abbracciare il berlusconismo e Casini abbandonava la Dc che affondava». Serviti barba e capelli. Rotondi è netto: per far rinascere la Dc ha titolo «chi l'ha accompagnata in lacrime al cimitero, non chi l'ha combattuta».
C'è ancora un passo interessante di quell'intervista, quello in cui Rotondi dice: «Per un democristiano è essenziale un progetto di sistema-Paese come lo ebbero De Gasperi e Fanfani e come lo ha Berlusconi. Il dc non guarda le due squadre in campo per mettersi in mezzo e far vincere quello che gli conviene. Il vero democristiano allestisce una squadra. Io posso avere dubbi su tutto, ma su una cosa no: Berlusconi è l'erede della tradizione democristiana». E al giornalista che gli ribatte: «Ma non era socialista?», dice: «Fu propagandista ed elettore della Dc. E fu amico di Craxi. Berlusconi di errori ne ha fatto uno solo: non ricostruire esplicitamente la Dc». Nel '94 si sarebbe trovato la gente coi forconi sotto casa, commenta di rimando il suo interlocutore, ma Rotondi conferma il suo pensiero: «Ma se Berlusconi ha elaborato l'ispirazione popolare e cristiana che ne fa l'erede della Dc». E butta lì il «Sa cosa gli manca?» per poter esplicitare la lacuna, il tallone d'Achille: «Gli manca un progetto di partito che dia autonomia e carburante alla sua proposta politica». Quel qualcosa che permetteva alla Dc fare voti a prescindere dal governo. Lo strumento che avrebbe reso inutile il contratto di matrimonio d'interesse tra Forza Italia, che portava in dote il consenso popolare e An che in dote portava la struttura di partito mancante. Ma come si sa nei matrimoni d'interesse è proprio l'interesse personale il diavolo che ci mette le corna.

lunedì 16 agosto 2010

Respinto

Notizia d'oggi: «L'onorevole Verdini non è iscritto, né lo è mai stato, alla Massoneria del Grande Oriente d'Italia di Palazzo Giustiniani». Lo afferma oggi il Gran Maestro Aggiunto, Massimo Bianchi smentendo quanto pubblicato ieri in un articolo de la Repubblica, a firma di Alberto Statera, che qualifica arbitrariamente il coordinatore del PDL come affiliato al Grande Oriente. «La sua storia politica, imprenditoriale e le vicende di altra natura che di recente lo vedono coinvolto, a torto o a ragione, non sta a noi sindacarlo - riguardano esclusivamente l'onorevole Verdini. Il Grande Oriente d'Italia respinge pertanto ogni accostamento a costui». Un'altra bocciatura.

Irrealtà

«Su quali basi si può parlare di un governo di transizione, senza Berlusconi poi? Questa proposta dimostra che il Pd sta facendo un'analisi irrealistica della attuale crisi: pensano che Berlusconi sia scomparso. E non lo è affatto, così come non lo è la maggioranza. Si può pensare ad un governo di responsabilità nazionale. Guidato dal Cavaliere, che comunque avverte il senso della responsabilità verso il Paese». Così Rocco Buttiglione in un intervista a Libero del 10 agosto. Il pezzo, intitolato «Mai alleanze tra Udc e futuristi» il presidente dell'Udc scartava la possibilità di accordo col presidente della Camera Gianfranco Fini in caso di voto anticipato: Con Gianfranco Fini e i finiani non abbiamo molto in comune, se non un certo sentimento della legalità, del rispetto istituzionale, dell'idea che non si può condurre eternamente una lotta contro le magistrature».
Ferdinando Adornato, deputato oggi Udc, intervistato due giorni dopo dal Sole 24 Ore, dopo aver detto «Noi in tempi non sospetti parlammo di un governo di responsabilità nazionale come unica via d'uscita a una doppia crisi, economica e istituzionale. questo vale ancora per il presente» e ricordato che «per il futuro invece abbiamo fatto appello alle forze moderate presenti in tutti gli schieramenti per la nascita di un partito della nazione», si trova davanti la domanda che mette a nudo il nocciolo della questione: «Tra i moderati c'è o no il Pd? Bersani è un alleato?». E Adornato così risponde: «Un Pd che rompesse con Di Pietro e facesse sua l'attitudine a un'area di responsabilità - non solo in caso di voto - potrebbe essere una novità per tutta la scena politica. Il nostro invito a Bersani è di rompere con l'Idv e con l'area antagonista». E cosa intenda per area antagonista lo specifica subito dopo: «Per area antagonista intendo quella prima rappresentata da Bertinotti, poi da Di Pietro, ora anche da Vendola. Credo che tutte meritino di essere rappresentate ma non tutte sono di governo».
Finiani no, almeno per ora. Pd no, se non rompe definitivamente con la sinistra. Chi altro c'è? Rutelli!

Tartine

«Montezemolo piace a sinistra, lo sanno tutti. Resta un mistero come un partito che dovrebbe guardare agli operai, alla classe media, ai diritti, ai pensionati, a quelli che hanno meno ma aspirano a volere di più, possa incoronare come suo alfiere un signore che rappresenta un mondo opposto. Montezemolo è elitario, ha una storia personale e professionale blasonata, ovattata, ricca, colma di aristocrazia. Fa parte di diritto del "club dei migliori". È il segno che il Pd non riesce a scendere dalla terrazza con le tartine per farsi un giretto in strada. Pazienza». Parole di Mario Secchi dal suo articolo su Il Tempo, «Un altro in Ferrari» di venerdì 13 agosto.

La madonna pellegrina

È difficile capire a cosa possano giovare i toni della «campagna» politica che il centrosinistra, l'area d'interessi di cui il Pd è la struttura rappresentativa, sta conducendo praticamente dal minuto successivo alla presa di coscienza della sconfitta di Veltroni, di aver perso le elezioni. Sembra più un «muoia Sansone con tutti i filistei» che la costruzione di una alternativa, fatta di progetti, di una ricerca concreta di soluzioni condivisibili ai problemi del paese. Sono agghiaccianti frasi come questa di Fassino a L'Espresso: «Siccome il nostro popolo non ne può più di vedere Berlusconi a Palazzo Chigi, chiunque appaia come in grado di mandarlo a casa, penso alla candidatura di Nichi Vendola, viene abbracciato come la Madonna Pellegrina». Stato d'animo che la rivista efficacemente sintetizza nel titolo «Purché vada via». Qualunque cosa, ahinoi, il Pd è ben ridotto male. O quest'altra di Filippo Penati a gli Altri, che viene presentato, come incredibilmente è, «capo segreteria politica Pd», lui il bitrombato: «Il primo obiettivo del Pd è quello di staccare la spina che tiene in vita questo governo». Manco fosse Eluana Englaro.
Sono giorni che la stampa borghese, quella che più sponsorizza la bandiera del «progressismo» continua a descrivere la situazione italiana come quella d'un paese terremotato, distrutto da uno tsunami politico, investito da una pioggia di meteoriti, sull'orlo di collassare in un abisso senza fondo. Piano, diamoci una calmata. Che gran casino possono aver fatto quarantaquattro gatti che si sono messi in fila per sei col resto di due? Oltretutto continuano a dire che se il governo mantiene fede al programma elettorale il loro sostegno non mancherà.
Suvvia, ragazzi (citazione d'obbligo) siamo pazzi? Che pensa la gente che legge d'un siparietto come questo su Repubblica tra la Bindi ed il giornalista che la intervistava? Osserva quest'ultimo: «Il Pd però appare diviso e, nonostante le rassicurazioni, molto preoccupato dal rischio elezioni». Più che una domanda, era una constatazione. Ma la Bindi: «Nient'affatto. Siamo di fronte ad una maggioranza sgretolata [Ma la domanda...]. Ed è per questo che chiediamo che la crisi venga ufficializzata in Parlamento. [Poi focalizza] Non è il Pd ad essere spaccato e siamo pronti all'alternativa. Noi in campagna elettorale avremmo mille argomenti contro Berlusconi [Avremmo, non abbiamo? In campagna elettorale, non ora?]. Che vuol provocare una crisi istituzionale per risolvere i contrasti interni, e con quale concezione della democrazia è facile intuirlo [Ma perché lasciare all'immaginario, alla pura fantasia? perché, porca miseria, non ce la dici tu quale sia?]». Ed il giornalista: «Ma con chi allearsi per evitare la corsa alle urne?». Risposta: «Con le forze del centrosinistra [Cioè con se stessi?] e dell'opposizione. Con chi è disposto ad evitare lo sfascio del paese e delle istituzioni [Disposto? Solo? Così, tanto per gradire?]. E impedire che Berlusconi vada al voto chiedendo tutti i poteri per sé, stravolgendo la Costituzione». Basta! Non diciamo stronzate.
Il Pd, Ds prima, ha tirato troppo la corda puntando sul fatto che gli italiani sono troppo impegnati ad arrivare in qualche modo a fine mese per aver tempo di andare a verificare le frottole che il centrosinistra da tempo racconta loro. Io credo che sia il tempo, questo, a sinistra di domandarsi se questo partito, il Pd, rappresenti ancora seppure alla lontana gli interessi di quanti si autocertifica di rappresentare, e non sia, al pari dell'omologo finiano, mero strumento nelle mani di quei «poteri forti» che mal sopportano la presenza al governo del «rivoluzionario» Silvio Berlusconi, e che lo hanno osteggiato da subito, dal momento della sua discesa in campo.
Se l'«illuminata» dirigenza Pd pensa alla rimpatriata con la destra «illuminata» finiana nel tentativo di cacciare Berlusconi prima, per il voto dopo; per paradosso anche quella sinistra che ancora non vota Lega dovrebbe cominciare a riflettere sull'opportunità di un voto realmente utile. E non sarebbe l'apoteosi del «tanto peggio tanto meglio».

domenica 15 agosto 2010

Il diavolo

Sul Tempo di ieri, Angela Pellicciari parla di «cose che non tornano». L'articolo parte con un raffronto sintetico tra tre vicende, quella di Berlusconi e delle escort (dove «siamo arrivati alla trascrizione sui maggiori quotidiani di colloqui molto privati, di nessuna rilevanza penale, carpiti all'insaputa del presidente del Consiglio, da una prostituta finita a palazzo Grazioli»); quella del caso Marrazzo di lì a poco («E il mondo di transessuali frequentato dal Governatore è stato scosso da più di un omicidio») e oggi quella «del più fiero rappresentante della legalità che sieda in Parlamento: Gianfranco Fini» («Fatti, non conversazioni private carpite alla buonafede del malcapitato, sono stati addebitati al presidente della Camera»). In particolare, la giornalista ricorda che per quanto riguarda il premier «l'indignazione pubblica per una simile vergogna è stata assordante. Nel senso che Berlusconi è stato lasciato cuocere nel suo brodo, con nessuno che reclamasse la fine del linciaggio mediatico del premier eletto dagli italiani. Anzi. Tutti che pontificavano sulla necessità di una maggiore moralità da parte di chi governa».
Perché le cose non tornano? «Perché a difesa di Fini si è mosso mezzo mondo, anche istituzionale, mentre a difesa di Berlusconi, a suo tempo, non si era mosso nessuno». Buon ultimo, osserva la giornalista, prendendo la parola in modo durissimo, il presidente della Ferrari Montezemolo: «Con toni ultimativi Montezemolo intima al governo di governare e a Berlusconi, Fini e Bossi di mettersi d'accordo per farlo. Davvero curioso». Giusta sottolineatura. E aggiunge: «Ma, viene da chiedersi, chi è Montezemolo? Quale istituzione popolare rappresenta?». Già.
La Pellicciari passa poi ad illustrare un'altra coincidenza curiosa: «Nel mese di giugno, se non vado errato, dopo che per quasi due anni i distinguo di Fini nei confronti di Berlusconi e del suo governo, erano stati amplificati oltre ogni misura dalla stampa, il Corriere della Sera si è distinto per una campagna a favore di un governo dalle larghe intese. Un governo istituzionale. Ohibò! Ma cos'è il Corriere, oltre un quotidiano? In nome di quale popolo invoca un governo istituzionale? E come mai il Corriere dava per scontato che di questo ci fosse bisogno? Come mai non dava il necessario risalto ai concreti risultati del governo Berlusconi, dando invece per ovvia e scritta nei fatti la sua inconcludenza, al punto da sponsorizzare la sua "democratica" sostituzione con un governo più adatto alla bisogna?». Buone domande.
E chiude: «Ora che l'immagine di Fini è stata, diciamo, un po' appannata, si fa peccato a pensare che ci fosse una cordata molto seria, molto potente, quanto poco democratica, a favore di un cambio della guardia a Palazzo Chigi? Cambio della guardia democraticamente giustificato con la foglia di fico della partecipazione del cofondatore e covincitore delle elezioni insieme a Berlusconi, Gianfranco Fini?». E, dunque: «Si fa peccato a pensare che l'inusualmente dura uscita di Montezemolo risponda ad un grido di dolore per la mancata possibilità di attuare un disegno tanto a lungo accarezzato?». Prudentemente il quotidiano titola il pezzo «Sospette coincidenze per colpire il governo», ma la sensazione è reale. E colpisce l'osservazione di Gianfranco Rotondi, il ministro, uno che da buon vecchio democristiano la sa lunga, espressa, dialogando con un giornalista de Il Riformista, intervista riportata venerdì. «Non mi dica che vede già Montezemolo a Palazzo Chigi...», butta lì il giornalista, Marco Sarti. «Non scherziamo. È ovvio che io non ce lo vedo. Curiosamente ci si vede lui. Ma è scontato che non ci andrà mai», risponde Rotondi. «Anche in caso di voto anticipato, rischia di essere il vostro principale avversario», insiste Sarti. «Vero, e sa perché?». Ribatte il ministro e al «Me lo dica lei» del suo interlocutore, spiega: «Perché al contrario di Berlusconi, Montezemolo non ama rischiare. Lo dimostra la sua storia. Se per entrare in politica fosse costretto a fare un mutuo sulla sua barca, magari per pagare qualche sezione di partito, sono certo che sceglierebbe la barca. Ma davanti a uno schieramento grande ed eterogeneo, di sinistra e di destra, popolare e raffinato, lui è prontissimo a scendere in campo». Sarti, di rimando, osserva: «Il capogruppo dell'Idv Donadi ha detto che pur di liberarsi di Berlusconi loro sono pronti ad allearsi anche con il diavolo». E Rotondi: «Appunto, Montezemolo. Il diavolo è lui».

Il salvatore

Non so quanti siano i lettori di Libero. In particolare poi tra quanti guardano al centrosinistra. Eppure Belpietro pubblica sul suo giornale di tanto in tanto articoli trasversalmente interessanti per formarsi una «visione del mondo» che non sia «integralista», a senso unico. Uno di questi è il pezzo di Pietrangelo Buttafuoco, pubblicato venerdì 6 agosto scorso. Titolo: «Quando c'era solo lui... Camerati, a noi. Silvio ci ha salvati».
L'articolo andrebbe letto completamente. Qui mi limito a riportare i primi due paragrafi e l'ultima parte, quella su Fini. Scrive, dunque, Buttafuoco: «Camerati, a noi è toccato il ruolo di essere i becchini del berlusconismo, bene. Ma almeno un esame di coscienza lo possiamo fare? Ancora due giorni prima delle elezioni, quelle del 1994, la gloriosa macchina da guerra di Achille Occhetto si scontrava con quei fantastici citrulloni dalla cravatta con il nodo grosso, i primi militanti di Forza Italia. E c'era il Corriere della Sera, il giornale dei moderati e dei borghesi, che la buttava proprio chiara: "No a Berlusconi". Uno degli argomenti forti, certamente quello più scandalizzato, era l'imbarazzante apparentamento con il Movimento sociale Italiano, il partito nel cui emblema, sotto la fiamma, c'era ancora visibile la bara di Benito Mussolini.
«Camerati, a noi in quei giorni venne in sorte di vederci cambiata la vita: dall'oggi all'indomani. Due giorni dopo, incredulo, lo stesso Corriere raccontava l'inaudito: vinceva le elezioni l'uomo della plastica, il ricco non elegante, quello delle televisioni cui faceva contorno un'idea d'Italia senza salotti e senza le terrazze di Ettore Scola. Solo arredi Aiazzone. E quella "storia italiana" poi, il depliant propagandistico di un animatore da villaggio intento a curare i fiori nel proprio giardino».
E Buttafuoco continua la sua interessante storia dei camerati nell'era Berlusconi. Procuratevelo, l'articolo, da conservare. E veniamo all'oggi ed alla conclusione: «E va bene, allora, è finita, sarà finita ma io non pretendo di verificare il grado di futurismo di Gianfranco Fini». Curioso «ragazzo», Gianfranco Fini. che un sondaggio in Sicilia dà nel popolo del centrosinistra quale primo leader politico in cui riporre la propria fiducia: 56% contro il 51% di Di Pietro e il 50% di Bersani. Chissà che non accarezzi l'idea di candidarsi, lui pure, alle primarie del Pd. Ma torniamo a Buttafuoco. Scrive poi: «Ma mentre capisco certe uscite di Fabio Granata (è grazie a Granata se le anime belle, oggi, devono inghiottire la smagliante verità di una foto, quella di Paolo Borsellino in coppia con Pippo Tricoli, ospiti di Granata con tanto di croce celtica sullo sfondo), m'indignano gli anatemi di un Gianni Alemanno contro lo stesso Fabio (proprio lui, parla, il sindaco, lui che si sucò fin nel midollo i ragazzi di Siracusa, suoi fedeli pretoriani; parla proprio lui, la fighetta, che per non fare la figura del fascio allo Strega ha ostentatamente votato Silvia Avallone e non Antonio Pennacchi). Continuo a non chiedere a Fini di gettare il cuore oltre l'ostacolo ma di parlare con voce sua, sua politica voce, e non per tramite di avvocati, e di spiegare la casa di Montecarlo, quanto meno a soli camerati, proletari e fascisti. quelli che non avendo manco da tenersi le pezze al culo le trovavano cento lire per la sottoscrizione. È il senso di vergogna che prende me che non sono più un elettore ma solo uno che se n'è andato o, forse, cacciato da ogni destra. E mi vergogno nei confronti di quelli che venivano in sezione per restarci anche se fuori, nelle piazze, gli altri, ci volevano morti. I beni immobiliari del Msi (altro che An, altro che Pdl) esistono in virtù di un istinto di sopravvivenza: le compravano le case perché nessuno ce le affittava. Nessuno ci ha mai voluto tra i piedi. Per i piedi a noi ci appendevano. Camerati, a noi!».
Insomma, per concludere, il titolo di Libero nella pagina interna, cui l'articolo viene rimandato dalla prima, riassume molto bene il concetto di fondo del pezzo: «Camerati, senza Silvio saremmo in una fogna».

Nomenclatura

Definire «democratico» un esponente o un militante del Pd non è politically correct, nel senso che parrebbe in tal modo voler definire «antidemocratico» ogni appartenente, militante o esponente, di un qualunque altro partito. È un trucchetto propagandistico che viene da lontano: scuola democratica, ricordate?, magistratura democratica, ecc. Sarebbe più corretto creare un neologismo, dal momento che dirli «piddini» per contro nell'immaginario fa troppo rima con «piccini» o le compagne e amiche «piddine» con le piadine tanto care alla tradizione emiliano-romagnola e, dunque, certamente anche al segretario bettolese. Proporrei l'italianizzazione del termine americano democrat, tanto caro del resto al primo autista del pullman democratico Veltroni, termine che potrebbe diventare «democrate» e al plurale «democrati», inteso come persona che fonda il suo potere (a parole) sul popolo. Niente di più giusto.

sabato 14 agosto 2010

La fregola

È il 6 agosto. La Repubblica titola: «Mi opporrò alle elezioni anticipate, in Parlamento tantissimi i contrari». L'intenzione evidente (anche se poi a leggere attentamente il pezzo c'è di che rimanere delusi), eppure l'articolo di Claudio Tito, proprio in zona Cesarini spiattella una verità vera che l'area di riferimento del quotidiano sembra snobbare. È un'intervista a Beppe Pisanu, della serie «mostriamo che il fronte non è compatto», come fa Libero, Il Giornale, tutta la carta stampata di qua o di là più o meno schierata o simpatizzante. Tito chiede a Pisanu: «Si può parlare di fine del berlusconismo?», buona buona per chiudere il bellezza, e Pisanu risponde così: «Io non so cosa sia esattamente il berlusconismo. So bene però che attraverso Berlusconi parlano ancor oggi milioni di italiani. Con loro bisogna fare i conti, senza per questo accendere ipoteche sul nostro futuro».
Pisanu poi aggiunge: «Sento però il respiro affannoso delle cose vecchie che muoiono, con tutti i rischi che questo comporta, e sento il bisogno di persone prudenti e coraggiose che si mettano alla ricerca delle cose nuove che devono nascere». E cosa nuova non è certo il ribaltone la cui fregola tiene svegli di notte i democrat a rimuginare su come portarlo a compimento. Anzi: «La mia impressione è che siano in fase di destrutturazione sia il centrodestra sia il centrosinistra: in parte per la loro evidente inadeguatezza rispetto ai grandi problemi dell'Italia e in parte per la crisi di questo bipolarismo immaturo, e a tratti selvaggio, che mette insieme forze troppo disaffini e in sorda concorrenza tra loro».
C'è molta gente che legge soltanto i titoli dei giornali. Chissà per quale fretta o forse semplicemente per pigrizia. Il titolo poteva dare addito ad una sorta di dissenso verso Berlusconi. Ma così non pare se si leggono le risposte date da Pisanu, che riporto una di seguito all'altra senza l'intercalare delle domande del giornalista: [Sulla maggioranza] «No, la maggioranza non si è dissolta. Semmai si è articolata diversamente, con la nascita quasi obbligata di un altro gruppo parlamentare di centrodestra che, peraltro, può creare nuovi spazi di dialogo con l'opposizione a tutto vantaggio della governabilità. [Crisi] Con le premesse che ho detto si può soltanto ipotizzare una crisi pilotata da Berlusconi in quanto leader dello schieramento maggioritario. [Elezioni anticipate] Mi opporrei. Perché lo scioglimento anticipato delle Camere piomberebbe come un macigno sulla fragile situazione economico sociale del nostro Paese, spianando la strada agli speculatori della finanza internazionale. Sono comunque sicuro che la contrarietà alle elezioni anticipate sia molto più ampia di quanto non appaia, tanto nella società quanto nelle aule del Senato e della Camera. In ogni caso, e per nostra fortuna, la decisione finale spetta al Presidente della Repubblica. [Tremonti] Mi pare che la Lega Nord lo abbia escluso e io comunque resto della mia opinione: un governo di solidarietà nazionale guidato da Silvio Berlusconi». Già.

L'ipotesi antipatica

Fu Lamberto Dini nel 1995 a guidare il governo di transizione che sostituì alla guida del paese il primo governo Berlusconi. Ed è stato proprio Dini qualche giorno fa a dire, intervistato sulla possibilità di un governo tecnico da Andrea Cangini per QN: «Non è chiaro cosa dovrebbe fare un eventuale governo di transizione, mentre è chiarissimo che ad invocarlo è chi ha perso le elezioni e spera di rientrare in gioco». Per Dini quella del 1995 è «un'esperienza irripetibile, anche perché allora era venuta meno la maggioranza che sosteneva il governo, mentre stavolta i finiani giurano lealtà all'esecutivo». È interessante anche l'opinione espressa dall'ex direttore generale di Bankitalia sull'eventualità che in autunno Berlusconi rimetta il mandato nelle mani del presidente della Repubblica: «Credo che, essendoci una maggioranza che ha vinto anche le ultime elezioni regionali, il Quirinale dovrebbe riaffidare il mandato a Berlusconi». Dopo di che, «la Costituzione gli impone di verificare l'esistenza di una maggioranza in Parlamento, ma lo ripeto, a soluzioni trasversali non credo. Sarebbe come mettere insieme il diavolo e l'acqua santa: un'ipotesi davvero antipatica sia per chi ha votato per la destra sia per chi ha votato per la sinistra».
Su tutta la vicenda forse il giudizio più azzeccato è quello dato una settimana fa da Roberto Calderoli al Corriere della Sera: «Le elezioni riporterebbero al governo il Pdl e la Lega, e a furor di popolo. altre strade, quelle di cui parla il Pd, non esistono. E del resto, è prova dell'impazzimento generale che il Pd predichi un governo tecnico che segnerebbe la sua dissoluzione». Insomma, i leghisti continuano a dire che da parte loro un nuovo 1995 non è possibile. Questo, ad esempio, Luca Zaia, governatore del Veneto ed ex ministro dell'agricoltura: «L'intesa tra il segretario della Lega nord e il Cavaliere va ben oltre i deliri di chi prevede governi tecnici o porcherie simili». Parole raccolte da La Padania, lo stesso giorno. E proprio lo stesso Zaia evidenzia perché la Lega sia un ostacolo insormontabile per i «cospiratori»: «Ne va della nostra vita amministrativa e del nostro progetto politico, il federalismo e l'autonomia». C'è il rischio, dunque, che una brusca frenata come la caduta del governo, l'eventuale intermezzo di un improbabile governo del Presidente ed infine le elezioni, coagulino attorno al partito di Bossi, al Nord, un fronte di difesa del progetto politico, un voto trasversale di quanti vedono nel federalismo il «futuro e la libertà» delle regioni settentrionali dal centralismo burocratico che si incarna nei fatti in partiti come il Pd e L'Udc (e se si vuole, l'ipotetico terzo polo) e la rinascita della penisola finalmente libera dalle catene che vengono da lontano, dall'unità del paese centocinquanta anni fa, in un'ottica di una Europa delle Regioni, tutta da costruire, che restituisca finalmente a tutte le genti italiche la loro identità.

L'operazione

È una verità storica: il governo attuale era nato con la maggioranza più forte della storia repubblicana; sembrava destinato a durare per tutti e cinque gli anni della legislatura. Ma evidentemente il predellino d'un'automobile non è il posto giusto per formare una comitiva seria e soprattutto integerrima. Si tira su dalla strada chi è disposto a salirci, per i motivi più vari. Soprattutto si rischia la compagnia di personaggi che vanno bene per qualche ora, ma che poi, alla fine, diventano scomodi, pesantemente scomodi. Scajola, Brancher, Cosentino e alla fine, ma era pronosticato, lo stesso Fini. Con Fini non è bastata la carta della presidenza della Camera, che in precedenza con Casini aveva funzionato. Un uomo di mondo come il Cavaliere avrebbe dovuto stare ben accorto. E fors'anche, buttiamola lì, la vicenda D'addario avrebbe dovuto insegnare qualcosa.
È sempre più evidente che invece di cooperare a portare il paese fuori dalle secche della crisi, una parte della politica dell'arco parlamentare, per assenza di idee, di progetti, piuttosto che rimboccarsi le maniche e contribuire con proposte concrete ad indirizzare positivamente l'azione legislativa e del governo, perso inesorabilmente il treno delle elezioni, ha preferito dedicarsi al gioco di provare a buttar giù l'Ercolino sempre in piedi degli ultimi quindici anni. In tutti i modi. Per prendere surrettiziamente quel potere che la gente della strada, il popolo gli ha negato decisamente, in modo inequivocabile. Di fronte all'«all-in» di Veltroni, chi in quel momento aveva consapevolmente carte migliori non ha rischiato le fiches perseguendo un progetto simmetrico. E adesso siamo al naufragio.
Qualche giorno fa Belpietro confessava al Giornale di Sicilia il suo stupore: «La scissione dei finiani è stata superiore a qualunque previsione. Per molti versi una sorpresa (...). A carte scoperte si è invece saputo che sono in numero sufficiente a far cadere il governo per lo meno a Montecitorio». E nell'operazione entra il cambiamento della legge elettorale venduto come panacea dei mali d'Italia, anzi del «male» d'Italia, il Cavaliere. Diceva il direttore di Libero: «Come qualche tempo fa avevamo previsto prendendoci pure le accuse di essere troppo disfattisti se verranno lasciati fare questi avversari del governo organizzeranno un ribaltone e subito dopo cambieranno la legge elettorale per impedire che Berlusconi possa tornare a vincere. Un'operazione trasformista in piena regola che se non troverà ostacoli già entro la fine dell'anno potrebbe raggiungere il suo scopo». Ieri ed oggi ad aprire politicamente una breccia nella diga ci ha pensato il presidente Napolitano, col suo ineccepibile richiamo alla prassi costituzionale.
E chi, come Cota per fare un esempio, continua a dire che «un governo tecnico o di larghe intese [o del Presidente, è il caso di aggiungere] sarebbe qualcosa che va contro la volontà popolare. Il popolo con il suo voto ha scelto la Lega, ha scelto Bossi e Berlusconi. Ha scelto la Lega e il Pdl, non altro. Se si pensa di fare diversamente allora si va contro il popolo», parla al vento. Spreca il fiato. Quando mai partiti come il Pd, la stessa finiana An finché c'era, e altri, sono stati partiti «popolani»? Il popolo interessa loro solo quando mette la scheda nell'urna. Poi è un'altra storia, al governo nazionale, regionale, locale. Lo insegna la storia della Repubblica. Quella in atto, per prenderci gusto con la teoria della cospirazione, è un'«operazione» in atto da qualche tempo, da subito dopo le elezioni. Tracce di segnali evidenti sparsi ovunque nella stampa quotidiana. Sputtanamento prima, disgregamento dopo. Obiettivo l'apoteosi della liberazione d'Italia dal lanzichenecco Cavaliere nero il prossimo anno. Volutamente il prossimo anno. Un appuntamento cercato. Questo si prefigge la cospirazione in atto, che potremmo definire suggestivamente «Operazione Centocinquantenario dell'Unità d'Italia».

venerdì 13 agosto 2010

Aforismi d'opposizione

Pippo (Giuseppe) Civati è un consigliere regionale della Lombardia del Pd. Ha detto intervistato martedì scorso dal Riformista: «Se continuiamo a parlare su noi stessi, quell'altro [cioè Berlusconi] continua a prendere voti. Ci sono troppi primi della classe. Evitiamo di imitare chi nel centrodestra, durante la caduta del governo Prodi, si mangiava la mortadella in Parlamento». E ancora: «C'è un'azione politica da portare avanti. Serve un Bersani di lotta... e poi di governo». Su Vendola: «Pone delle questioni importanti, indica delle priorità. Se queste sono necessarie perché le dobbiamo rifiutare?». Meglio Vendola o Casini: «Noi con Vendola e Di Pietro siamo già alleati. Se Casini vorrà fare matrimoni, ci dica chi sarà la sposa».
Debora Serracchiani oggi intervistata dal Riformista: «Credo che Bersani stia lavorando bene, in modo molto convincente. Sta soprattutto evitando la "grande ammucchiata", facendo ragionare tutte le opposizioni, con cui spesso la collaborazione è stata difficile. Credo che Bersani vada verso la giusta strada di un'opposizione europea che si pone obiettivi programmatici». Felice di apprenderlo. E ancora, scontato: «Non vedo nessun esponente dell'attuale esecutivo a capo di un futuro governo tecnico». Sogna Mario Monti, infatti. Anche: «Nessuno che ora si autocandida fa il bene del paese: alcuni dovrebbero essere più cauti e prudenti».
Antonio Di Pietro citato oggi dal Messaggero: «Una volta votata la sfiducia a Berlusconi bisogna che il capo dello Stato valuti se ci sono le condizioni per fare un governo tecnico che in novanta giorni faccia una nuova legge elettorale e una nuova legge sul pluralismo dell'informazione. Io ci credo poco. Anche per questo sono disposto ad andare a votare subito». Sempre Di Pietro martedì scorso intervistato da QN: «Il Pd si tolga dalla testa l'idea di pensare a governi tecnici e alleanze improbabili. Sarebbe cecità strategica. Se anche mettessero in piedi un governo tecnico che portasse avanti la legislatura otterremmo il solo risultato di ridare un po' di fiato agli epigoni della Balena bianca della Prima Repubblica e regalare a Berlusconi una nuova vittoria. È la premessa che è errata. Fini non è un alleato potenziale. Fini per definizione non si potrà mai alleare alla sinistra. Vuole solo logorare Berlusconi, mettere in crisi la sua leadership per prendere il suo posto. Lui non glielo permetterà e, dato che non ci sono i numeri, si andrà alle elezioni. E noi invece di cincischiare dovremmo cogliere al volo le contraddizioni insite nelle destre e presentarci davanti agli elettori».
Rosy Bindi, citata oggi dal Messaggero: «Dobbiamo riuscire a creare un fronte delle opposizioni compatto, che ponga fine al berlusconismo e ridia all'Italia quel progetto di rilancio di cui ha bisogno». Cioè, morte a Berlusconi e per il resto fuffa. E sulla candidatura di Vendola al posto di Bersani: non sarebbe in grado di «fare una sintesi delle diverse componenti del centrosinistra».
Andrea Orlando, riportato dal Corriere della Sera martedì scorso: «La portata dello scontro attuale tra Pdl e finiani dimostra che non si tratta solo di una crisi interna a una coalizione, ma dell'incapacità della destra di tenere insieme l'animo populista berlusconiano con quello più europeo rappresentato da altri. È un modello che vacilla, e bisogna ragionare su come uscire da un semiregime». E ancora: «È necessario che si accorcino le distanze tra tutti coloro che vogliono mandare a casa Berlusconi». Su Fini: «Preferirei vedere nel cofondatore del Pdl un avversario con il quale si condivide l'idea di democrazia, piuttosto che un alleato». Sulle alleanze: «Non si può più ripetere l'esperienza dell'Unione. Ognuno deve indicare un programma di governo credibile, senza porre veti; e mi sembra che già su questo la sinistra radicale si chiami fuori».
Mi fermo.

Voto e fantasia

Scriveva Massimo Adinolfi per Il Mattino qualche giorno fa: «Poniamo che in autunno il governo cada, e che al voto Berlusconi vada con l'alleato della Lega: niente Fini (e niente Casini). Magari qualche piccola formazione politicamente residua, qualche Storace o qualche Nucara, ma, nella sostanza, Berlusconi e bossi e loro due soltanto. Nel caso vincessero, si saprebbe con grande chiarezza cosa vincerebbe: nulla di neanche lontanamente accostabile a quella che fu la prima Repubblica - e il federalismo e la "questione settentrionale" come discriminante politico-istituzionale e motore del governo». Bene, progetto e leadership ben definite e buona vicinanza con i desiderata dell'elettorato attuale. Scriveva ancora Adinolfi: «Nel caso invece vincesse l'attuale opposizione? Non si va molto oltre la semplice constatazione, se si afferma che non è affatto chiaro chi o cosa in tal caso andrebbe al governo. O forse, per il momento, si può dire soltanto: qualcosa di ancora (confusamente) accostabile alle tradizioni politiche della prima Repubblica». Cioè mancando il baricentro della vecchia Democrazia cristiana semplicemente il caos. Quale sia il possibile scenario vincente è scontato.
C'è molta fuffa nel fronte dell'opposizione. Ci si inventa incredibili fantasie pur di dirottare sulla propria pochezza l'attenzione della gente, quella rara che realmente ancora segue la politica oggi. Del resto, quando si accarezza il nulla, la fantasia aiuta. Così oggi, intervistata da Il Riformista, la giovane Debora Serracchiani una «semplicemente democratica»: «Penso a un governo con un nome dal profilo europeo. Mario Monti è uno di questi. Barroso gli ha dato fiducia nell'ultimo anno dandogli un nuovo incarico. Gode di grande autorevolezza e conosce molto bene l'attuale situazione economica». Anche se poi ridiscesa con i piedi a terra il buonsenso dovuto alla sua giovane età politica le fa dire: «In questa fase credo sia sbagliato cercare un nome invece che cercare un piano strategico. L'obiettivo è certamente quello di mandare a casa Silvio Berlusconi, però non può essere solo quello. E incominciare dai nomi mi sembra l'errore più grave».
Da aggiungere, en passant, soltanto che alcuni punti fermi ormai si stanno delineando. Innanzitutto la conferma della leggenda metropolitana che il voto rappresenterebbe l'addio al federalismo, il motivo per cui la Lega «dovrebbe» sostenere il «governo del Presidente» sognato dal democrat di Bettola. Lo ha spiegato più volte Calderoli: «Essendo una legge delega supera la legislatura e resta aperta anche per il futuro governo. Certo, si perdono i due o tre mesi di campagna elettorale ma poi si ripartirebbe dalla stesso punto». E ancora sulla Padania del 7 agosto: «Entro il 15 settembre voglio portare a casa l'autonomia impositiva e i costi standard. Allora il 90 per cento del Federalismo sarebbe fatto». E poi «il Federalismo oggi non è più una scelta ma un obbligo. Lo sa la gente, la Corte dei Conti, gli enti locali». L'unico modo che resta per arginare una spesa pubblica che continua a crescere e che nessuna manovra riesce ad arginare.
Un secondo è che con tutta probabilità in settembre l'allarme fine legislatura terminerà, e non solo perché in questo agosto Berlusconi si dedichi alla pesca «miracolosa», pur continuando ad affermare: «Se sarà necessario, dobbiamo essere pronti per le urne» e attrezzati per «rivincere le elezioni». Insomma, non c'è poi tutta questa necessità di «ghigliottinare» Fini con «armi segrete» tipo «Se dalle indagini in corso emergesse un qualche coinvolgimento di persone riconducibili all'entourage del presidente della Camera, ci troveremmo di fronte a evidenti agevolazioni di interessi privati» (Mario Mantovani). Basta, come Ugo Magri ricordava su La Stampa, ricorrere al «piano B», cioè, dare la caccia a qualche finiano in crisi, o ramazzare cani sciolti nell'Udc e perfino nell'Idv, dove pare se ne contino almeno una manciata. O extrema ratio accontentarsi del «piano C», cioè la stipula a settembre con i finiani di un accordo «onesto» sui quattro punti del programma. Due giorni fa Libero assicurava: «Dieci (uno in più, uno in meno) stanno già ribussando alla porta del Pdl. Altri arriveranno». E informava che lo stesso premier, lui in persona, aveva rivelato: «Ricevo telefonate» da gente che si dice «pentita» di aver seguito Fini e che adesso vorrebbe tornare sui propri passi. Aggiungendo come sottolineatura: «E anche la stampa che ha sempre sostenuto il presidente della Camera adesso lo sta abbandonando». E se non basta il quotidiano di Belpietro ci ha informato che si stanno mettendo in atto iniziative per scavalcare i finiani a destra, cioè per dare a vedere agli elettori che i veri camerati stanno col Cavaliere nel Pdl. Per stroncare l'idea che Futuro e Libertà sia la fenice di An che dalle ceneri riprende il volo.