sabato 19 aprile 2008

"Il malincanto" di Paolo Pezzaglia

Paolo Pezzaglia, milanese, classe 1938, laureato alla Bocconi, si esprime in poesia sin dal 1955. Recentemente ha pubblicato con l’editrice Prometheus di Milano la raccolta “Il malincanto” (Isbn 978-88-8220-151-7), vincitrice nel 2006 della XV edizione del Premio Internazionale Triuggio.
Scrive Francesco Solitario nella introduzione: «Il Malincanto, la nuova raccolta di poesie di Paolo Pezzaglia, chiude la trilogia iniziata felicemente con L’imbuto rovesciato (1990) e proseguita poi con successo con Le rughe della luna (1996). Una silloge che sembra circoscrivere uno spazio interiore e poetico, e un tempo fisico e metafisico, definitivamente chiusi e sigillati sotto il segno del “malincanto”.
Pezzaglia è poeta che è riuscito ad affinare un suo stile, ben riconoscibile, intorno a temi che si radicano fortemente nell’essenza umana più profonda, e a suggestioni che si innervano di pathos vissuto intensamente. Temi e suggestioni che trovano poi più ampio respiro in una allegoria e in una simbologia, oscillanti tra cultura d’oriente e d’occidente, entrambe da disvelare e da decifrare.
Sono versi, dunque, raffinati dal punto di vista poetico, che si prestano ad una complessa ermeneutica letteraria, ricca di spunti e di sollecitazioni anche extraletterarie.»
Riporto dalla raccolta due poesie:

Confine

Qui
anima desolata
presso l’alchemico lago
delle rinunciate occasioni
qui
strana bestia
senza occhi
murata viva
in un ricettacolo di morte ombre
senza poter subito morire
qui
strana bestia
mia anima desolata.

Solo pensando a te
dolce sorella morte
solo esplorando
il tuo confine oscuro
si acquieta la mia febbre.

Preme su di me l’inespresso,
ma la lingua tace
o forse il cuore.


Apprendista

Legato alla ruota degli eventi,
nel doloroso smuoversi
dell’eterno orologio,
spingendo anch’io la magia
che tutto svolge,
si rivela la mia stessa
morte abbagliante e certa.

In una sola realtà, in una sola lusinga
rosa di donna e fama.
Poi sgretolamento e ritorno.

Ora mi attende sacra
riparatrice giustizia.
Domani. Non oltre.

Perché ormai vedo:
sono io stesso l’albero
che tende le dita,
dalle radici al cielo,
alle bianche stelle,
nel tondo delle stagioni,
nel numero che lega oro e piombo
e mare e fiori e legno.

Torna la mia audace speranza
di rivederti, tu che ti nascondi
(e ridi di me).

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