La domanda è lecita. Con l'imposta municipale in arrivo non è che al dunque si finirà, noi ultima ruota del carro, noi cittadini, a pagare più tasse? Secondo le previsioni di calcolo della Cgia di Mestre ad ogni italiano, in media dunque, l'imposta costerà 432 euro. I lombardi 498 euro. La «service tax», la nuova tassa unica sugli immobili che dovrebbe inglobare tutte le imposte legate alle case, per il possesso o per il trasferimento del bene (Ici sulle seconde, imposta catastale e ipotecaria, imposta di registro e Irpef riconducibile agli immobili) è una sorta di ameba che ogni giorno ingloba qualcosa come la Tarsu, l'imposta forfettaria sulle case fantasma o la cedolare secca sugli affitti. Forse, chissà; nel senso che tutto è ancora vago se non la data del varo, il 31 luglio. Ma il problema non è questo, cioè cosa va a sostituire o cosa va a inglobare. Il problema è piuttosto quello d'essere una leva lasciata nelle mani dei sindaci. È questo che crea l'incognita se il segno sarà più o meno. Fuori dai denti, la qualità del federalismo è determinata dalla qualità degli amministratori. Fintanto che la qualità è bassa il rischio di pagare di più è tanto, soprattutto in ambiti dove la critica personale, e di conseguenza il cambiamento, è zittita da piccole convenienze o appartenenze di clan. Prima di attuare il federalismo fiscale sic et simpliciter, si sarebbe dovuto fare una riforma degli enti locali che creasse una nuova rete di municipalità aggregando i piccoli comuni in entità di almeno 15-20 mila abitanti. In modo da permettere vantaggi di scala nei servizi, eliminazione di doppioni e sprechi, un miglioramento, dovuto alla inevitabile competizione della «classe» politica che si candida a reggerne le sorti. Questa era la riforma delle riforme che tutti i partiti non hanno voluto vedere.
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