domenica 4 luglio 2010

Web chiuso per attacco

La settimana appena passata ci ha portato la notizia che nel caso di un attacco cibernetico che rischi di mettere in crisi la sicurezza economica e nazionale degli Stati Uniti, il presidente Barack Obama potrà ordinare la chiusura della rete per un periodo di tre mesi senza dover ottenere una autorizzazione preventiva da parte del Congresso. Un forte atto simbolico come è stato sottolineato da qualcuno, approvato in commissione del Senato e che non dovrebbe trovare ostacoli in aula.
È ovvietà che stante l'attuale organizzazione del Web, una chiusura unilaterale dei provider americani avrebbe conseguenze non solo limitate agli Stati Uniti, ma ben più ampie. Una prassi, quella di non tener in gran conto delle implicazioni multilaterali di decisioni prese, in auge dalla fine della Guerra Fredda e particolarmente praticata da George W. Bush e i suoi consiglieri neocon, che sembra continuata da Obama e l'intellighenzia liberal.
Una decisione, quella in dirittura d'arrivo, la «confisca» del Web, che non fu neppure presa in considerazione a seguito degli attentati terroristici dell'11 Settembre. Certamente, la minaccia di un attacco cibernetico su larga scala non è un'ipotesi da romanzo di fantascienza. La cyberwar è una realtà. Basti pensare a quanto avvenne anni fa quando la Lituania fu sottoposta ad un vero e proprio assalto cibernetico da parte russa, o le accuse rivolte ai servizi cinesi di ripetute violazioni di siti della difesa e di imprese industiali che operano nell'ambito della sicurezza nazionale occidentali. E non a caso sta prendendo forma una proposta delle Nazioni Unite di un accordo tale per cui ogni paese firmatario si impegna a non scagliare per primo un cyberattacco contro un'altra nazione. Proposta immediatamente appoggiata da Microsoft che ha parlato della necessità di una sorta di «World Health Organisation per Internet». Un'altra ipotesi che si avanza è lo sdoppiamento di Internet in una rete in grado di abilitare soltanto operazioni sicure, ed in una rete la cui libertà sia tutelata a livello internazionale. È vero anche che altri, però, evidenziano come l'«emergenza» cyberwar non sia altro che uno «spot» diffuso attraverso «promotori» politici di aziende interessate al business della sicurezza informatica; e come esempio citano Michael McConnell, già responsabile dei servizi di intelligence della presidenza Bush, che ora lavora per un contractor del governo statunitense.
Tornando al provvedimento americano, esso richiama un altro ambito in cui la discrezionalità del presidente degli Stati Uniti è determinante per le sorti del mondo: la disposizione che prevede che il presidente possa impiegare truppe americane in operazioni di guerra per 90 giorni senza dover passare da una formale autorizzazione del Congresso. Una disposizione che è stata lo strumento per un coinvolgimento degli Stati Uniti nella gran parte dei conflitti dopo la fine della seconda guerra mondiale. Tuttavia, rispetto a quest'ultimo, l'impatto di una chiusura del Web sulle libertà civili dei cittadini americani risulterebbe sicuramente molto superiore rispetto a quello dell'invio di truppe combattenti all'estero. Ma non è solo questo il problema.
Come è stato scritto, il provvedimento è un segnale di un ulteriore allontanamento tra gli Stati Uniti e l'Europa riguardo la scelta di quale sia il punto di equilibrio ottimale tra la tutela delle libertà individuali e dei diritti civili e la difesa della sicurezza collettiva. Una sorta di «cinesizzazione» degli Usa che evidenzia il paradosso che, in un epoca di evidente progressiva deoccidentalizzazione del mondo, un passo non trascurabile in tale direzione arrivi proprio dagli Stati Uniti, paese creatore e massimo beneficiario del concetto politico di Occidente.

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