Liberazione di sabato 9 agosto 2008 pubblica un’interessante intervista a Paolo Cirino Pomicino ex ministro, ex leader della Dc napoletana. L’articolo, «Sento la nostalgia per quella Dc. E per quel Pci. Nostalgia per i partiti veri», è firmato da Stefano Bocconetti.
È stato un potente, proprio come Gava. E fra «potenti», si sa, non corre mai buon sangue. È stato, insomma, l’avversario di Gava a Napoli. E come il suo rivale è caduto durante gli anni di Tangentopoli, poi ha provato a rimettersi in sesto. Cirino Pomicino, un altro dei padroni della Dc napoletana - e italiana - negli anni ’80, s’occupa ancora di politica. Non fosse altro perché fa il commentatore. Su due quotidiani. Di destra: Libero e Il Giornale.
Allora, Pomicino: che Napoli era quella dove tu e Gava vi contendevate la gestione del partito?
«Era una città, una società anche allora caratterizzata da emergenze continue. Proprio come oggi. Solo che allora c’era una classe dirigente capace di far fronte a quelle emergenze. Che trovava soluzioni...»
Sinceramente: è un po’ difficile definire «soluzioni» quei due soldi distribuiti a pioggia.
«Lascia perdere, non è stato così. Comunque, volevo dire un’altra cosa. Che quelle soluzioni, condivisibili o meno, venivano poi accettate dal governo nazionale. C’era, insomma, una classe dirigente locale che non si è mai fatta esautorare.»
Come avviene adesso?
«Esattamente. C’era una classe dirigente vera, forte. E stai attento: sto parlando di classi dirigenti che stavano al governo ma anche all’opposizione. Perché non scordiamoci che in quel periodo ci sono state giunte costruite attorno alla Dc per sedici anni. Ma ce ne sono state altre, costruite attorno al Pci e al Psi, per altri 11 anni. E quella classe dirigente...»
Non ti sembra di esagerare parlando di un’unica classe dirigente napoletana, come se si trattasse di qualcosa di indistinto?
«No, ricordo bene che funzione importante aveva allora la sinistra, il Pci. Che si definiva di lotta e di governo. Ebbene, quella classe dirigente, tutta, seppe trovare rimedi ad emergenze come quelle del colera, seppe costruire 20 mila alloggi. Tanti quanti oggi Berlusconi ne promette per tutta Italia. E non si fece mai “commissariare”.»
Dipingi un quadro a tinte tenui Eppure, nell’immaginario di tutti, il sistema di Gava o di Pomicino è sinonimo di clientelismo.
«Sono definizioni che fanno parte della lotta politica. La verità è un’altra.»
Quale?
«Che i media hanno definito clientelismo l’accoglimento delle richieste che venivano dalla società. Senza pensare che Napoli proponeva richieste particolari, diverse da quelle delle altre parti del paese. Altrove bisognava tener presente i bisogni delle piccole e medie imprese, qui c’erano i problemi del lavoro, della casa. E nei luoghi comuni, il venire incontro a queste richieste subito diventava clientelismo.»
Parli in prima persona plurale, «facevamo», «progettavamo». Eppure i tuoi rapporti con Gava sono stati sempre tesi.
«Sì, di contrasti ne ho avuti fin dall’inizio. Da quando mi presentai per la prima volta per il consiglio comunale. Ricordo che il mio nome fu accettato nelle liste dal comitato cittadino, cancellato da quello provinciale, reintegrato da quello regionale. Insomma, il mio rapporto con Gava non è mai stato molto semplice.»
Ma cosa divideva voi andreottiani dai dorotei?
«Dai dorotei di Gava e dal gruppo di De Mita. Perché non dimentichiamoci mai che alla fine degli anni `80, il patto che reggeva la Dc partenopea comprendeva Gava, la sinistra di De Mita e Scotti. Cosa mi divideva? Io penso che per loro natura, i dorotei puntassero semplicemente a gestire l’esistente, quel che c’era. Al contrario, noi credevamo che bisognasse progettare uno sviluppo per Napoli. Un progetto che s’è poi tradotto nel centro direzionale, nell’Alenia, in tante altre cose.»
Gava invece?
«Diciamo che a Gava andava bene comunque quel che accadeva. Ma attenzione: perché Antonio era anche un raffinato politico. Capace di riconoscere il valore delle intuizioni degli altri. Le assumeva, le faceva proprie. E poi...»
Poi, cosa?
«Non dobbiamo mai dimenticare che Gava, esattamente come tutti gli altri esponenti della Dc, aveva un assoluto rispetto della democrazia. Sia quando ricopriva incarichi istituzionali, e infatti sono convinto che le deviazioni dei servizi siano potute avvenire solo quando Gava lasciò il Viminale, sia quando si occupava di cose di partito.»
Era un «tollerante», insomma?
«La mia vicenda personale mi dice questo, lo era. Certo, ha compiuto sbagli, errori, come quando a metà degli anni ’70 non comprese che era arrivata al capolinea una stagione e di fatto, permise l’affermazione delle sinistre. Mai però è venuto meno alla sua concezione della vita democratica nel partito. Una volta, ricordo la data: nella primavera dell’85, litigammo per undici ore in una riunione per la composizione delle liste. Lui, però, anche durante i confronti più duri, sosteneva sempre la necessità che le minoranze fossero rappresentate. Questo era Gava, questo lo si creda o no - era la Dc. Ma del resto così erano tutti i partiti. Partiti veri.»
Nostalgia?
«Io so di essere stato espulso da un partito solo una volta in vita mia, da Cossiga, pochi anni fa. E la Dc non c’era più. Io so che oggi il nostro è l’unico paese dove non c’è un partito d’ispirazione cristiana e dove non c’è una sinistra in Parlamento. Dove non c’è un partito socialista. Questo è il sistema politico che abbiamo.»
E perché è avvenuto?
«Perché abbiamo abbandonato la ricerca sul terreno della cultura democratica. Oggi si discute di dialogo sì, dialogo no. Scordandosi di dire che si tratta di una contesa fra gruppi dirigenti, fra gruppi di potere. Questa è involuzione autoritaria. La vita democratica nei partiti è messa in mora. A destra, vince una visione bonapartista grazie al carisma di un leader, dall’altra parte, nel piddì, la selezione dei gruppi dirigenti si fa per cooptazione. Ma ti rendi conto che Veltroni ha messo come capolista a Roma una ragazza che faceva vanto di essere «inesperta»? Come se l’inesperienza, l’incapacità fossero diventati un valore. No, all’epoca di Gava non sarebbe accaduto...»
È stato un potente, proprio come Gava. E fra «potenti», si sa, non corre mai buon sangue. È stato, insomma, l’avversario di Gava a Napoli. E come il suo rivale è caduto durante gli anni di Tangentopoli, poi ha provato a rimettersi in sesto. Cirino Pomicino, un altro dei padroni della Dc napoletana - e italiana - negli anni ’80, s’occupa ancora di politica. Non fosse altro perché fa il commentatore. Su due quotidiani. Di destra: Libero e Il Giornale.
Allora, Pomicino: che Napoli era quella dove tu e Gava vi contendevate la gestione del partito?
«Era una città, una società anche allora caratterizzata da emergenze continue. Proprio come oggi. Solo che allora c’era una classe dirigente capace di far fronte a quelle emergenze. Che trovava soluzioni...»
Sinceramente: è un po’ difficile definire «soluzioni» quei due soldi distribuiti a pioggia.
«Lascia perdere, non è stato così. Comunque, volevo dire un’altra cosa. Che quelle soluzioni, condivisibili o meno, venivano poi accettate dal governo nazionale. C’era, insomma, una classe dirigente locale che non si è mai fatta esautorare.»
Come avviene adesso?
«Esattamente. C’era una classe dirigente vera, forte. E stai attento: sto parlando di classi dirigenti che stavano al governo ma anche all’opposizione. Perché non scordiamoci che in quel periodo ci sono state giunte costruite attorno alla Dc per sedici anni. Ma ce ne sono state altre, costruite attorno al Pci e al Psi, per altri 11 anni. E quella classe dirigente...»
Non ti sembra di esagerare parlando di un’unica classe dirigente napoletana, come se si trattasse di qualcosa di indistinto?
«No, ricordo bene che funzione importante aveva allora la sinistra, il Pci. Che si definiva di lotta e di governo. Ebbene, quella classe dirigente, tutta, seppe trovare rimedi ad emergenze come quelle del colera, seppe costruire 20 mila alloggi. Tanti quanti oggi Berlusconi ne promette per tutta Italia. E non si fece mai “commissariare”.»
Dipingi un quadro a tinte tenui Eppure, nell’immaginario di tutti, il sistema di Gava o di Pomicino è sinonimo di clientelismo.
«Sono definizioni che fanno parte della lotta politica. La verità è un’altra.»
Quale?
«Che i media hanno definito clientelismo l’accoglimento delle richieste che venivano dalla società. Senza pensare che Napoli proponeva richieste particolari, diverse da quelle delle altre parti del paese. Altrove bisognava tener presente i bisogni delle piccole e medie imprese, qui c’erano i problemi del lavoro, della casa. E nei luoghi comuni, il venire incontro a queste richieste subito diventava clientelismo.»
Parli in prima persona plurale, «facevamo», «progettavamo». Eppure i tuoi rapporti con Gava sono stati sempre tesi.
«Sì, di contrasti ne ho avuti fin dall’inizio. Da quando mi presentai per la prima volta per il consiglio comunale. Ricordo che il mio nome fu accettato nelle liste dal comitato cittadino, cancellato da quello provinciale, reintegrato da quello regionale. Insomma, il mio rapporto con Gava non è mai stato molto semplice.»
Ma cosa divideva voi andreottiani dai dorotei?
«Dai dorotei di Gava e dal gruppo di De Mita. Perché non dimentichiamoci mai che alla fine degli anni `80, il patto che reggeva la Dc partenopea comprendeva Gava, la sinistra di De Mita e Scotti. Cosa mi divideva? Io penso che per loro natura, i dorotei puntassero semplicemente a gestire l’esistente, quel che c’era. Al contrario, noi credevamo che bisognasse progettare uno sviluppo per Napoli. Un progetto che s’è poi tradotto nel centro direzionale, nell’Alenia, in tante altre cose.»
Gava invece?
«Diciamo che a Gava andava bene comunque quel che accadeva. Ma attenzione: perché Antonio era anche un raffinato politico. Capace di riconoscere il valore delle intuizioni degli altri. Le assumeva, le faceva proprie. E poi...»
Poi, cosa?
«Non dobbiamo mai dimenticare che Gava, esattamente come tutti gli altri esponenti della Dc, aveva un assoluto rispetto della democrazia. Sia quando ricopriva incarichi istituzionali, e infatti sono convinto che le deviazioni dei servizi siano potute avvenire solo quando Gava lasciò il Viminale, sia quando si occupava di cose di partito.»
Era un «tollerante», insomma?
«La mia vicenda personale mi dice questo, lo era. Certo, ha compiuto sbagli, errori, come quando a metà degli anni ’70 non comprese che era arrivata al capolinea una stagione e di fatto, permise l’affermazione delle sinistre. Mai però è venuto meno alla sua concezione della vita democratica nel partito. Una volta, ricordo la data: nella primavera dell’85, litigammo per undici ore in una riunione per la composizione delle liste. Lui, però, anche durante i confronti più duri, sosteneva sempre la necessità che le minoranze fossero rappresentate. Questo era Gava, questo lo si creda o no - era la Dc. Ma del resto così erano tutti i partiti. Partiti veri.»
Nostalgia?
«Io so di essere stato espulso da un partito solo una volta in vita mia, da Cossiga, pochi anni fa. E la Dc non c’era più. Io so che oggi il nostro è l’unico paese dove non c’è un partito d’ispirazione cristiana e dove non c’è una sinistra in Parlamento. Dove non c’è un partito socialista. Questo è il sistema politico che abbiamo.»
E perché è avvenuto?
«Perché abbiamo abbandonato la ricerca sul terreno della cultura democratica. Oggi si discute di dialogo sì, dialogo no. Scordandosi di dire che si tratta di una contesa fra gruppi dirigenti, fra gruppi di potere. Questa è involuzione autoritaria. La vita democratica nei partiti è messa in mora. A destra, vince una visione bonapartista grazie al carisma di un leader, dall’altra parte, nel piddì, la selezione dei gruppi dirigenti si fa per cooptazione. Ma ti rendi conto che Veltroni ha messo come capolista a Roma una ragazza che faceva vanto di essere «inesperta»? Come se l’inesperienza, l’incapacità fossero diventati un valore. No, all’epoca di Gava non sarebbe accaduto...»
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