Lo scopo di Alessandro Campi col suo articolo “Come Bossi tira la corda” su Il Mattino di oggi era forse quello di lanciare un allarme o quantomeno un monito sulla disgregazione dello stato italico nato a metà Ottocento e – lo si voglia o no – tramontato l’Otto Settembre 1943, anche se dopo la guerra gli alleati hanno rabberciato la penisola nell’entità statuale repubblicana in cui viviamo oggi. Basta dare un’occhiata alla cartina della Padania tracciata dalla Lega, e tratta da un suo sito, per capire che lo iato nell’unità peninsulare ottenuta con le armi dai Savoia, non è di oggi ma che quella unità è stata sepolta proprio dall’armistizio e dalla resa nel 1943, che ha dato vita a due Italie con due storie diverse.
L’articolo di Campi, oltre a mostrare il punto di vista meridionale – per dire e per paradosso più sabaudo dei Savoia – sulla situazione attuale del nostro Paese, riesce come una lucida analisi dello stato dell’arte in tema di disgregazione, da cui ci si può salvare solo con la fondazione di uno stato federale. Un’analisi che dichiara ormai il superamento del punto di non ritorno. Vale il tempo della lettura.
«Ieri, con voto unanime della Camera, preceduto da quello altrettanto compatto del Senato, l’Italia ha ratificato il trattato di Lisbona sulla nuova Costituzione europea.
Stando alle cronache, agli applausi di rito dell’aula e alle parole di soddisfazione subito espresse dalle più alte cariche dello Stato, non si sono associati i parlamentari della Lega. Nelle settimane scorse il partito di Bossi aveva brindato alla bocciatura del trattato da parte degli irlandesi, aveva chiesto che anche in Italia la questione fosse sottoposta a referendum popolare e aveva minacciato di non votarne la ratifica.
C’è stato nel frattempo un cambiamento di linea politico-culturale? In realtà, nel Carroccio sono prevalsi il realismo politico e la volontà di non mettere in crisi, almeno in questa fase, l’alleanza di governo: un voto contrario della Lega su un tema tanto delicato avrebbe scatenato una dura campagna di stampa, su scala continentale, contro il governo guidato da Berlusconi. Ma la freddezza ostentata dai parlamentari della Lega dimostra che nel suo immaginario politico l’Europa è percepita come una costruzione meccanica e artificiale, centralistica e burocratica, ostile ai popoli e alle nazionalità, nemica della libertà e dell’autodeterminazione.
Il voto di ieri, dunque, non deve trarre in inganno. Per i «padani» l’Europa degli Stati-nazione continua a rappresentare un mito negativo, una realtà da avversare.
Se la battaglia della Lega contro l’Europa (peraltro non del tutto priva di solidi argomenti) è stata per il momento archiviata, giusto per evitare complicazioni internazionali, quella contro l’unità d’Italia, contro la struttura giudicata anch’essa centralistica e lesiva delle autonomie locali del nostro Stato nazionale, è invece in pieno svolgimento.
Una battaglia che sul piano politico viene ormai condotta dai leghisti all’insegna della parola d’ordine (per molti versi rassicurante) del federalismo fiscale, ma che su quello simbolico-culturale si muove sempre più spesso lungo una linea apertamente separatista e disgregatrice di quel che ormai resta del sentimento nazionale italiano. Se, come alcuni sostengono, la Lega ha rinunciato alla secessione sul piano politico-istituzionale, giudicandola una strada costituzionalmente impervia, non sembra però aver rinunciato a presentarsi sempre più come una realtà politico-sociale che sul piano culturale, della psicologia collettiva e dell’eredità storica non ha nulla a che spartire con l’Italia così come essa si è formata da un secolo e mezzo a questa parte. Per i leghisti, a prendere per buoni le loro parole e comportamenti, che in politica contano moltissimo, l’Italia è davvero poco più che un’espressione geografica: una parola che non evoca in loro alcun sentimento positivo, alcun senso di lealtà o di appartenenza condivisa.
Il problema è che la secessione culturale, l’esibita estraneità antropologica dei leghisti all’identità italiana in tutte le sue manifestazioni, rischia di essere, sul medio periodo, l’anticamera inevitabile della disunità nazionale.
Ma questo aspetto del problema, ecco il punto politico che merita di essere sollevato, sembra non preoccupare affatto gli attuali alleati della Lega, che continuano a rubricare ogni sortita di Bossi e dei suoi uomini sotto la voce «folclore politico». Ma dove finisce la propaganda finalizzata ad un progetto politico (la nascita di una Italia post-nazionale o dei popoli) e dove inizia l’eccentricità di un leader carismatico? 1 leghisti – per limitarsi alle loro più recenti sortite – irridono il tricolore, denunciano gli insegnanti meridionali trapiantati nel Nord alla stregua di colonizzatori culturali, propongono la dieta padana come salubre alternativa a quella mediterranea, presentano il Risorgimento come un disegno politico criminale, invocano per la Padania (nazione inesistente) i diritti delle nazionalità storiche non riconosciute (dagli armeni ai curdi). Ma tutto ciò, a quanto pare, non dovrebbe destare preoccupazione negli italiani che tali vogliono restare, considerato il patto politico a prova di bomba che Berlusconi in persona avrebbe sottoscritto con il Carroccio e il suo capo. Ma può il destino di una nazione affidarsi alla mallevadoria e alla parola d’onore di un solo uomo? E se Bossi ottenuto il federalismo fiscale tornasse a giocare apertamente la carta politica della secessione? In realtà, quello del rapporto tra la Lega e il centrodestra è tema assai delicato, sebbene sino ad oggi sia stato affrontato dai diretti interessati a colpi di freddure o con toni imbarazzati o reticenti. Il Carroccio (ivi compresa la galassia crescente dei partitini a sfondo autonomista che ad esso si ispirano) sa di essere decisivo per le sorti elettorali dell’attuale maggioranza. E ne approfitta per alzare la posta politica e per concedersi lussi propagandistici e provocazioni che ad una forza di governo non dovrebbero essere consentite.
Ma sino a che punto la Lega potrà tirare la corda? E sino a che punto Forza Italia e Alleanza nazionale (in particolare quest’ultima) potranno evitare di prendere criticamente posizione sulla sfida politico-culturale che la Lega incarna sin dalla sua nascita? Fra tre anni, giusto per fare un esempio, l’attuale governo si troverà a festeggiare in forma solenne i centocinquanta anni dell’unità nazionale. In quell’occasione quale linea di politica culturale, quali obiettivi istituzionali esso intenderà perseguire avendo nella sua maggioranza una forza politica così dichiaratamente indifferente o peggio ostile ad una simile ricorrenza? L’unità d’Italia verrà celebrata come un valore da difendere o presentata come un accidente della storia o una parentesi giusto per non irritare la Lega? In quest’ultimo caso, quel che resta della nazione italiana, compresi il suo inno e la sua bandiera, rischia di dover essere difeso, invece che dai suoi naturali custodi di destra, dagli eredi politici dell’internazionalismo comunista e dell’universalismo cattolico. Sarebbe solo un paradosso della storia tra i tanti o l’estrema eccentricità di un Paese che ha rinunciato nel frattempo ad avere un futuro?»
L’articolo di Campi, oltre a mostrare il punto di vista meridionale – per dire e per paradosso più sabaudo dei Savoia – sulla situazione attuale del nostro Paese, riesce come una lucida analisi dello stato dell’arte in tema di disgregazione, da cui ci si può salvare solo con la fondazione di uno stato federale. Un’analisi che dichiara ormai il superamento del punto di non ritorno. Vale il tempo della lettura.
«Ieri, con voto unanime della Camera, preceduto da quello altrettanto compatto del Senato, l’Italia ha ratificato il trattato di Lisbona sulla nuova Costituzione europea.
Stando alle cronache, agli applausi di rito dell’aula e alle parole di soddisfazione subito espresse dalle più alte cariche dello Stato, non si sono associati i parlamentari della Lega. Nelle settimane scorse il partito di Bossi aveva brindato alla bocciatura del trattato da parte degli irlandesi, aveva chiesto che anche in Italia la questione fosse sottoposta a referendum popolare e aveva minacciato di non votarne la ratifica.
C’è stato nel frattempo un cambiamento di linea politico-culturale? In realtà, nel Carroccio sono prevalsi il realismo politico e la volontà di non mettere in crisi, almeno in questa fase, l’alleanza di governo: un voto contrario della Lega su un tema tanto delicato avrebbe scatenato una dura campagna di stampa, su scala continentale, contro il governo guidato da Berlusconi. Ma la freddezza ostentata dai parlamentari della Lega dimostra che nel suo immaginario politico l’Europa è percepita come una costruzione meccanica e artificiale, centralistica e burocratica, ostile ai popoli e alle nazionalità, nemica della libertà e dell’autodeterminazione.
Il voto di ieri, dunque, non deve trarre in inganno. Per i «padani» l’Europa degli Stati-nazione continua a rappresentare un mito negativo, una realtà da avversare.
Se la battaglia della Lega contro l’Europa (peraltro non del tutto priva di solidi argomenti) è stata per il momento archiviata, giusto per evitare complicazioni internazionali, quella contro l’unità d’Italia, contro la struttura giudicata anch’essa centralistica e lesiva delle autonomie locali del nostro Stato nazionale, è invece in pieno svolgimento.
Una battaglia che sul piano politico viene ormai condotta dai leghisti all’insegna della parola d’ordine (per molti versi rassicurante) del federalismo fiscale, ma che su quello simbolico-culturale si muove sempre più spesso lungo una linea apertamente separatista e disgregatrice di quel che ormai resta del sentimento nazionale italiano. Se, come alcuni sostengono, la Lega ha rinunciato alla secessione sul piano politico-istituzionale, giudicandola una strada costituzionalmente impervia, non sembra però aver rinunciato a presentarsi sempre più come una realtà politico-sociale che sul piano culturale, della psicologia collettiva e dell’eredità storica non ha nulla a che spartire con l’Italia così come essa si è formata da un secolo e mezzo a questa parte. Per i leghisti, a prendere per buoni le loro parole e comportamenti, che in politica contano moltissimo, l’Italia è davvero poco più che un’espressione geografica: una parola che non evoca in loro alcun sentimento positivo, alcun senso di lealtà o di appartenenza condivisa.
Il problema è che la secessione culturale, l’esibita estraneità antropologica dei leghisti all’identità italiana in tutte le sue manifestazioni, rischia di essere, sul medio periodo, l’anticamera inevitabile della disunità nazionale.
Ma questo aspetto del problema, ecco il punto politico che merita di essere sollevato, sembra non preoccupare affatto gli attuali alleati della Lega, che continuano a rubricare ogni sortita di Bossi e dei suoi uomini sotto la voce «folclore politico». Ma dove finisce la propaganda finalizzata ad un progetto politico (la nascita di una Italia post-nazionale o dei popoli) e dove inizia l’eccentricità di un leader carismatico? 1 leghisti – per limitarsi alle loro più recenti sortite – irridono il tricolore, denunciano gli insegnanti meridionali trapiantati nel Nord alla stregua di colonizzatori culturali, propongono la dieta padana come salubre alternativa a quella mediterranea, presentano il Risorgimento come un disegno politico criminale, invocano per la Padania (nazione inesistente) i diritti delle nazionalità storiche non riconosciute (dagli armeni ai curdi). Ma tutto ciò, a quanto pare, non dovrebbe destare preoccupazione negli italiani che tali vogliono restare, considerato il patto politico a prova di bomba che Berlusconi in persona avrebbe sottoscritto con il Carroccio e il suo capo. Ma può il destino di una nazione affidarsi alla mallevadoria e alla parola d’onore di un solo uomo? E se Bossi ottenuto il federalismo fiscale tornasse a giocare apertamente la carta politica della secessione? In realtà, quello del rapporto tra la Lega e il centrodestra è tema assai delicato, sebbene sino ad oggi sia stato affrontato dai diretti interessati a colpi di freddure o con toni imbarazzati o reticenti. Il Carroccio (ivi compresa la galassia crescente dei partitini a sfondo autonomista che ad esso si ispirano) sa di essere decisivo per le sorti elettorali dell’attuale maggioranza. E ne approfitta per alzare la posta politica e per concedersi lussi propagandistici e provocazioni che ad una forza di governo non dovrebbero essere consentite.
Ma sino a che punto la Lega potrà tirare la corda? E sino a che punto Forza Italia e Alleanza nazionale (in particolare quest’ultima) potranno evitare di prendere criticamente posizione sulla sfida politico-culturale che la Lega incarna sin dalla sua nascita? Fra tre anni, giusto per fare un esempio, l’attuale governo si troverà a festeggiare in forma solenne i centocinquanta anni dell’unità nazionale. In quell’occasione quale linea di politica culturale, quali obiettivi istituzionali esso intenderà perseguire avendo nella sua maggioranza una forza politica così dichiaratamente indifferente o peggio ostile ad una simile ricorrenza? L’unità d’Italia verrà celebrata come un valore da difendere o presentata come un accidente della storia o una parentesi giusto per non irritare la Lega? In quest’ultimo caso, quel che resta della nazione italiana, compresi il suo inno e la sua bandiera, rischia di dover essere difeso, invece che dai suoi naturali custodi di destra, dagli eredi politici dell’internazionalismo comunista e dell’universalismo cattolico. Sarebbe solo un paradosso della storia tra i tanti o l’estrema eccentricità di un Paese che ha rinunciato nel frattempo ad avere un futuro?»
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