Ancora sull’editoria sovvenzionata con soldi presi dalle tasche dei cittadini. Mi pare interessante aggiungere agli articoli finora raccolti quello che segue, un commento di Flavia Perina su "Il Secolo d'Italia" di giovedì 7 agosto 2008, titolo “Quotidiani, salviamo il leggibile”, approfittando per rimarcare il fatto che l’accanimento terapeutico di mantenere in vita col finanziamento pubblico testate giornalistiche che hanno tanti lettori quanti questo blog, cioè un numero di lettori insufficiente per coprire il costo d’un “giornale” e che costituiscono una domanda che potrebbe essere semplicemente soddisfatta con un ciclostilato o con una newsletter - che oltretutto costa zero -, altro non sia che una scandalosa devianza da parte delle istituzioni statali.
Arriviamo buoni ultimi a commentare ciò che tutti gli altri giornali (di partito, di corrente, di area) hanno già commentato: i tagli di Giulio Tremonti ai contributi diretti all’editoria.
Non è stata pigrizia, ma solo voglia di capire dove andava a parare la protesta guidata dai quotidiani della sinistra e ieri ufficialmente "sposata" da Walter Veltroni con un comunicato in cui ha definito «inaccettabile e vessatorio» il giro di vite nei confronti di «decine di testate». Prima di lui si era espressa Giovanna Melandri, ministro-ombra della comunicazione del Pd, citando curiosamente tra le vittime sacrificali non l’Unità o Europa ma Avvenire e il manifesto.
Strane cose accadono nel loft, dove si tende a dimenticare che la prima stangatona contro la stampa finanziata era arrivata dal governo Prodi.
È una questione di democrazia, ora si dice. Ma forse si esagera un poco: fra i 74 quotidiani e le centinaia di periodici finanziati attualmente ce ne sono diversi apparentati più col valore degli anticipi bancari che con quello costituzionalmente riconosciuto del diritto a esprimere le proprie idee. Il più saggio commento ci pare quello fatto da Giuliano Ferrara: uno Stato che trova i soldi per Amadeus e Domenica In dovrebbe anche reperire le due lire necessarie a pubblicare stampa di minoranza ma non priva di ruolo.
E se è vero che il problema è esploso vistosamente a sinistra, è nostra opinione che sia l’area del centrodestra la più concretamente interessata alla questione.
Intanto, le uniche testate che al momento hanno chiuso i battenti sono proprio le ultime nate nella sfera del Pdl: la tv delle libertà e il Giornale della libertà di Vittoria Michela Brambilla.
Tremonti non c’entra, piuttosto è chiamata in causa un’idea usa-e-getta dell’informazione, costruita a misura di propaganda elettorale, quando serve e finché serve. È un punto di vista non disprezzabile: anche la campagna romana del Pdl ha costruito il successo di Alemanno con un quotidiano free-press distribuito in decine di migliaia di copie fino al giorno delle elezioni. Ma immaginando il futuro e consolidato Popolo della libertà, siamo sicuri che non serva qualcosa di più di un supporto cartaceo ai gazebo o ai comizi di piazza ogni cinque anni? I vecchi giornali di partito, così come oggi i "giornali di idee" sono qualcosa di molto diverso da semplici organi di informazione o tromboneschi "organi di democrazia": sono brand, marchi identificanti, l’equivalente politico di un paio di scarpe Nike o Superga. La modernità non ha trovato nulla di meglio per sostituirli: se per sapere le notizie si può usare la tv, se per discutere con gli altri ci sono i blog, se per leggiucchiare in spiaggia va bene un grande quotidiano, per relazionarsi con una sensibilità, un’appartenenza, un modo d’essere c’è solo la stampa "di nicchia". È minoritaria, vende nel complesso qualche decina di migliaia di copie, ma parla allo spicchio di polis che partecipa più attivamente e convintamente alla vita pubblica e culturale (o che vorrebbe parteciparvi). Nella Disneyland dell’informazione, tra i rutilanti dvd in prima visione e le enciclopedie omaggio in trecento volumi, questa nicchia rappresenta la giostra con i seggiolini: centenaria ma irrinunciabile per fare un vero parco giochi.
A destra il valore aggiunto di questo tipo di media è ancora scarsamente percepito, e ben lo sappiamo noi che cerchiamo di farne uno ogni giorno. La tradizione di Forza Italia è fondata sulla televisione, sui grandi numeri, al limite sul modello generalista di Libero e del Giornale, il Drive In e il Sanremo dell’informazione scritta d’area. Quanto ad An, fatica ancora a liberarsi del complesso di subalternità che ha fatto da sottofondo alla storia della destra italiana e trova difficile immaginarsi protagonista di un dibattito culturale e politico in cui le categorie di "maggioranza" e "minoranza" siano sostituite da quelle di avanguardia e retroguardia. Eppure, un’operazione come quella del Popolo della libertà è inimmaginabile senza qualcosa che dia spessore e prospettiva al cartello elettorale delle destre. Così come l’idea di un bipolarismo maturo e moderno è inconciliabile con quella di un’opposizione resa afona. Se ci si convince di ciò, sarà più facile affrontare il tema dei tagli con una visione non solo quantitativa e ragionieristica. Poi, certo, i giornali bisognerebbe non solo aiutarli ma pure leggerli. Ma questa è un’altra storia.
Arriviamo buoni ultimi a commentare ciò che tutti gli altri giornali (di partito, di corrente, di area) hanno già commentato: i tagli di Giulio Tremonti ai contributi diretti all’editoria.
Non è stata pigrizia, ma solo voglia di capire dove andava a parare la protesta guidata dai quotidiani della sinistra e ieri ufficialmente "sposata" da Walter Veltroni con un comunicato in cui ha definito «inaccettabile e vessatorio» il giro di vite nei confronti di «decine di testate». Prima di lui si era espressa Giovanna Melandri, ministro-ombra della comunicazione del Pd, citando curiosamente tra le vittime sacrificali non l’Unità o Europa ma Avvenire e il manifesto.
Strane cose accadono nel loft, dove si tende a dimenticare che la prima stangatona contro la stampa finanziata era arrivata dal governo Prodi.
È una questione di democrazia, ora si dice. Ma forse si esagera un poco: fra i 74 quotidiani e le centinaia di periodici finanziati attualmente ce ne sono diversi apparentati più col valore degli anticipi bancari che con quello costituzionalmente riconosciuto del diritto a esprimere le proprie idee. Il più saggio commento ci pare quello fatto da Giuliano Ferrara: uno Stato che trova i soldi per Amadeus e Domenica In dovrebbe anche reperire le due lire necessarie a pubblicare stampa di minoranza ma non priva di ruolo.
E se è vero che il problema è esploso vistosamente a sinistra, è nostra opinione che sia l’area del centrodestra la più concretamente interessata alla questione.
Intanto, le uniche testate che al momento hanno chiuso i battenti sono proprio le ultime nate nella sfera del Pdl: la tv delle libertà e il Giornale della libertà di Vittoria Michela Brambilla.
Tremonti non c’entra, piuttosto è chiamata in causa un’idea usa-e-getta dell’informazione, costruita a misura di propaganda elettorale, quando serve e finché serve. È un punto di vista non disprezzabile: anche la campagna romana del Pdl ha costruito il successo di Alemanno con un quotidiano free-press distribuito in decine di migliaia di copie fino al giorno delle elezioni. Ma immaginando il futuro e consolidato Popolo della libertà, siamo sicuri che non serva qualcosa di più di un supporto cartaceo ai gazebo o ai comizi di piazza ogni cinque anni? I vecchi giornali di partito, così come oggi i "giornali di idee" sono qualcosa di molto diverso da semplici organi di informazione o tromboneschi "organi di democrazia": sono brand, marchi identificanti, l’equivalente politico di un paio di scarpe Nike o Superga. La modernità non ha trovato nulla di meglio per sostituirli: se per sapere le notizie si può usare la tv, se per discutere con gli altri ci sono i blog, se per leggiucchiare in spiaggia va bene un grande quotidiano, per relazionarsi con una sensibilità, un’appartenenza, un modo d’essere c’è solo la stampa "di nicchia". È minoritaria, vende nel complesso qualche decina di migliaia di copie, ma parla allo spicchio di polis che partecipa più attivamente e convintamente alla vita pubblica e culturale (o che vorrebbe parteciparvi). Nella Disneyland dell’informazione, tra i rutilanti dvd in prima visione e le enciclopedie omaggio in trecento volumi, questa nicchia rappresenta la giostra con i seggiolini: centenaria ma irrinunciabile per fare un vero parco giochi.
A destra il valore aggiunto di questo tipo di media è ancora scarsamente percepito, e ben lo sappiamo noi che cerchiamo di farne uno ogni giorno. La tradizione di Forza Italia è fondata sulla televisione, sui grandi numeri, al limite sul modello generalista di Libero e del Giornale, il Drive In e il Sanremo dell’informazione scritta d’area. Quanto ad An, fatica ancora a liberarsi del complesso di subalternità che ha fatto da sottofondo alla storia della destra italiana e trova difficile immaginarsi protagonista di un dibattito culturale e politico in cui le categorie di "maggioranza" e "minoranza" siano sostituite da quelle di avanguardia e retroguardia. Eppure, un’operazione come quella del Popolo della libertà è inimmaginabile senza qualcosa che dia spessore e prospettiva al cartello elettorale delle destre. Così come l’idea di un bipolarismo maturo e moderno è inconciliabile con quella di un’opposizione resa afona. Se ci si convince di ciò, sarà più facile affrontare il tema dei tagli con una visione non solo quantitativa e ragionieristica. Poi, certo, i giornali bisognerebbe non solo aiutarli ma pure leggerli. Ma questa è un’altra storia.
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