Da “Il Piccolo” riprendo l’editoriale di Sergio Baraldi del 17 agosto scorso, intitolato “A chi conviene il fisco locale”. I dubbi che l’articolo solleva sono legittimi ed utili per una discussione generale. Personalmente ritengo che se la legge che uscirà dal Parlamento sarà “intelligente”, il federalismo fiscale potrà iniziare nel nord una lotta ben più aspra che quella contro il famoso centralismo fiscale di “Roma ladrona”. La lotta, cioè, contro gli sceriffi di Nottingham locali che sinora si sono approfittati, grazie all’impunità dovuta secondo loro dalla scusa degli “scarsi” trasferimenti statali, del mettere le mani in tasca dei cittadini non per venire incontro a reali necessità di servizio, ma per i fasti “romani” (nel senso dell’antica Roma) pensati dalle loro povere teste o meglio dalle loro pance, perché uno è ciò che mangia e chi mangia grasso non può che escogitare grassazioni per mantenere i suoi “lussi”. Feste estive in piazza per raccogliere il consenso di imbecilli, iniziative che mirano soltanto a creare all’amministrazione una patente di mecenate della pseudo-cultura, sostegno di iniziative sportive e lobbistiche varie mirate a raccattare i voti per la propria sopravvivenza al potere locale. Per non aprire il capitolo delle consulenze. Così nelle grandi città del nord come e soprattutto nei piccoli e piccolissimi comuni, quelli lombardi in primis. Un federalismo fiscale equo dovrebbe partire con l’abrogare tutti i tributi locali esistenti, anche quelli di cui la politica di solito si dimentica. E con la loro sostituzione con un’unica imposizione che nel caso delle persone fisiche comprenda l’irpef. Un’unica tassa insomma. L’Ici è la tassa più iniqua che sia mai stata pensata e non è stata abolita. Semplicemente non la si paga sulla prima casa e pertinenze. E dire che è l’esempio perfetto di tassa federalista è una bestemmia. La si è lasciata sulle seconde ed altre case. Semplicemente perché in un’Italia nata dai dogmi del comunismo – anche se il comunismo è stato sempre tenuto in disparte come una sorta di peccato originale di cui vergognarsi – è comune sentire che la proprietà sia un furto, a sinistra ovviamente, ma anche a destra – e qui forse per casi di esperienza diretta. Per questo dire che è l’esempio principe di tassa federalista è semplicemente nostalgia di anime sceriffe senza pudore. C’è l’occasione di ridurre il prelievo fiscale ad un’unica tassa: di questo si dovrebbe parlare, semplicemente. Un’unica tassa significa un notevole risparmio di denaro pubblico: nei comuni e a livello più alto si andrebbe a cancellare l’equazione di cui nessuno parla: “tanti tributi tanti uffici” e buona parte degli impiegati potrebbe essere utilmente meglio indirizzata a fornire servizi alle cittadinanze invece di rivestire il ruolo spesso becero di odiati notai del prelievo nelle tasche della gente. Ben vengano, dunque, tutti i dubbi che possano servire ad una discussione realmente fatta nell’interesse dei cittadini, almeno una volta.
Umberto Bossi si è accorto che l'Ici era l'unica tassa «federale» che esisteva nell'ordinamento italiano e che lui ha votato per abolirla. Eppure non pochi autorevoli economisti avevano avvertito che la sua cancellazione (Prodi l'aveva già ridotta) avrebbe creato problemi alle finanze dei comuni. In realtà, l'uscita di Bossi ha l'obiettivo di lanciare il primo monito per la sfida più complessa per la maggioranza di governo: la riforma del federalismo fiscale prevista all'ordine del giorno in autunno. Da un punto di vista generale, il federalismo fiscale è un riforma di cui il Paese avrebbe necessità. Da anni si parla di spostare i centri di spesa e di capacità impositiva dallo Stato alle amministrazioni locali, un riequilbrio che favorirebbe la responsabilità fiscale, legando direttamente la spesa delle istituzioni locali alle entrate tributarie.
Pochi giorni fa il sindaco di Trieste Dipiazza, in una intervista a «Il Piccolo», ha ammesso che l'aliquota Irpef che il suo Comune applica è alta, ma ha spiegato che i cittadini sono abituati a servizi di alto livello e questo ne impedisce la riduzione. Non sappiamo se davvero i triestini siano convinti che i servizi del Comune siano di tale qualità da giustificare uno dei prelievi più gravosi d'Italia. Potrebbero anche preferire una diversa soluzione: ridurre i costi del Comune per abbassare le tasse. Se questo nesso tra spesa (anche per i servizi) e tributi fosse più immediatamente percepibile, Dipiazza sarebbe più cauto. E se questo legame fosse operante la Provincia Autonoma di Trento potrebbe continuare a mantenere una generosa assicurazione per le cure dentarie solo se la maggioranza dei cittadini fosse disposta a pagare di più. Il federalismo può innescare un circuito virtuoso nelle amministrazioni pubbliche, in particolare in quelle la cui spesa è oggi superiore alle entrate tributarie. Sappiamo che questo è il caso del Sud, ma non riguarda solo questa parte del Paese.
Secondo i recenti dati Istat solo in Lombardia e in Emilia Romagna i propri tributi coprono l'82% del totale delle entrate correnti, vale a dire le entrate ottenute da tributi, contributi e assegnazioni dello Stato. Occorre fare attenzione perché la differenza tra Lombardia e Calabria, che copre appena il 17%, non è dovuta solo alle differenze di reddito e alla capacità impositiva, certamente la causa principale del dislivello. Vi sono altre ragioni tra cui l'evasione sull'Irap. Ma non è trascurabile l'efficienza delle pubbliche amministrazioni. Il federalismo fiscale, se ben disegnato, può instaurare un controllo dei contribuenti che sono chiamati a finanziare direttamente la spesa negli enti locali. Quando questo controllo è debole, sappiamo qual è il risultato: le amministrazioni spendono troppo e spesso forniscono servizi carenti ai cittadini. La trasparenza tra tassazione, rappresentanza e governo renderebbe più difficile mantenere un elevato livello di pressione fiscale locale se i cittadini non ne avvertono davvero il beneficio. E l'approvano.
Si sa che il Nord e in parte il Centro hanno da guadagnare da un federalismo ben disegnato, non altrettanto il Sud. Ma occorre dire che forse il Sud può avere interesse a uscire da una dipendenza fiscale che produce spreco, non è sostenibile per il Paese, e ha dato come risultato pessimi servizi pubblici. Ma questo significa ammettere che debba esistere uno standard di intervento pubblico garantito per tutti e poi la possibilità di differenze tra regioni, in modo che i cittadini possano ritenere responsabili le proprie amministrazioni o di pressione fiscale eccessiva o di spesa inefficiente. Ma chi e come determinerà lo standard? E si interverrà per la perequazione tra regioni ricche e povere attraverso un meccanismo di trasferimenti orizzontale (passaggio da regioni a regioni) o verticale (attraverso lo Stato)?
La riforma del federalismo fiscale è complessa dal punto di vista tecnico ed è di difficile gestione politica. Alla vittoria del centrodestra ha contribuito in modo determinante il Sud, in particolare la Sicilia. Potrà ridurre i finanziamenti? C'è il rischio che il federalismo fiscale non si riveli una iniezione di efficienza, ma un pasticcio con un effetto moltiplicatore di costi con conseguenze pesanti sul bilancio pubblico. Può contribuire allo sviluppo o infliggere un duro colpo a un Paese che già non cresce.
Umberto Bossi si è accorto che l'Ici era l'unica tassa «federale» che esisteva nell'ordinamento italiano e che lui ha votato per abolirla. Eppure non pochi autorevoli economisti avevano avvertito che la sua cancellazione (Prodi l'aveva già ridotta) avrebbe creato problemi alle finanze dei comuni. In realtà, l'uscita di Bossi ha l'obiettivo di lanciare il primo monito per la sfida più complessa per la maggioranza di governo: la riforma del federalismo fiscale prevista all'ordine del giorno in autunno. Da un punto di vista generale, il federalismo fiscale è un riforma di cui il Paese avrebbe necessità. Da anni si parla di spostare i centri di spesa e di capacità impositiva dallo Stato alle amministrazioni locali, un riequilbrio che favorirebbe la responsabilità fiscale, legando direttamente la spesa delle istituzioni locali alle entrate tributarie.
Pochi giorni fa il sindaco di Trieste Dipiazza, in una intervista a «Il Piccolo», ha ammesso che l'aliquota Irpef che il suo Comune applica è alta, ma ha spiegato che i cittadini sono abituati a servizi di alto livello e questo ne impedisce la riduzione. Non sappiamo se davvero i triestini siano convinti che i servizi del Comune siano di tale qualità da giustificare uno dei prelievi più gravosi d'Italia. Potrebbero anche preferire una diversa soluzione: ridurre i costi del Comune per abbassare le tasse. Se questo nesso tra spesa (anche per i servizi) e tributi fosse più immediatamente percepibile, Dipiazza sarebbe più cauto. E se questo legame fosse operante la Provincia Autonoma di Trento potrebbe continuare a mantenere una generosa assicurazione per le cure dentarie solo se la maggioranza dei cittadini fosse disposta a pagare di più. Il federalismo può innescare un circuito virtuoso nelle amministrazioni pubbliche, in particolare in quelle la cui spesa è oggi superiore alle entrate tributarie. Sappiamo che questo è il caso del Sud, ma non riguarda solo questa parte del Paese.
Secondo i recenti dati Istat solo in Lombardia e in Emilia Romagna i propri tributi coprono l'82% del totale delle entrate correnti, vale a dire le entrate ottenute da tributi, contributi e assegnazioni dello Stato. Occorre fare attenzione perché la differenza tra Lombardia e Calabria, che copre appena il 17%, non è dovuta solo alle differenze di reddito e alla capacità impositiva, certamente la causa principale del dislivello. Vi sono altre ragioni tra cui l'evasione sull'Irap. Ma non è trascurabile l'efficienza delle pubbliche amministrazioni. Il federalismo fiscale, se ben disegnato, può instaurare un controllo dei contribuenti che sono chiamati a finanziare direttamente la spesa negli enti locali. Quando questo controllo è debole, sappiamo qual è il risultato: le amministrazioni spendono troppo e spesso forniscono servizi carenti ai cittadini. La trasparenza tra tassazione, rappresentanza e governo renderebbe più difficile mantenere un elevato livello di pressione fiscale locale se i cittadini non ne avvertono davvero il beneficio. E l'approvano.
Si sa che il Nord e in parte il Centro hanno da guadagnare da un federalismo ben disegnato, non altrettanto il Sud. Ma occorre dire che forse il Sud può avere interesse a uscire da una dipendenza fiscale che produce spreco, non è sostenibile per il Paese, e ha dato come risultato pessimi servizi pubblici. Ma questo significa ammettere che debba esistere uno standard di intervento pubblico garantito per tutti e poi la possibilità di differenze tra regioni, in modo che i cittadini possano ritenere responsabili le proprie amministrazioni o di pressione fiscale eccessiva o di spesa inefficiente. Ma chi e come determinerà lo standard? E si interverrà per la perequazione tra regioni ricche e povere attraverso un meccanismo di trasferimenti orizzontale (passaggio da regioni a regioni) o verticale (attraverso lo Stato)?
La riforma del federalismo fiscale è complessa dal punto di vista tecnico ed è di difficile gestione politica. Alla vittoria del centrodestra ha contribuito in modo determinante il Sud, in particolare la Sicilia. Potrà ridurre i finanziamenti? C'è il rischio che il federalismo fiscale non si riveli una iniezione di efficienza, ma un pasticcio con un effetto moltiplicatore di costi con conseguenze pesanti sul bilancio pubblico. Può contribuire allo sviluppo o infliggere un duro colpo a un Paese che già non cresce.
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