Federalismo fiscale. Secondo le notizie frammentarie riportate ieri da Tobia De Stefano su Libero sembra che governo e governi regionali si siano avviati sulla strada di un intesa: “le Regioni (hanno approvato un testo che si rifà al documento presentato nel 2007 al governo Prodi) e il governo (bozza Calderoli) viaggiano ormai in tandem sulla riforma delle riforme, il federalismo fiscale”.
Ma a quanto sembra insorgono i comuni, o meglio i loro amministratori che non vogliono rinunciare ad una possibilità spinta di svolgere il ruolo dello sceriffo di Nottingham, soprattutto quelli che provengono da una cultura che da sempre considera la proprietà privata un furto e dunque rubare ai ladri è una compensazione non comunque un reato.
Scrive infatti l’articolista: «In realtà la vera mina vagante è adesso rappresentata dai Comuni. I sindaci che dopo l’abolizione dell’Ici parlano di una riforma troppo regionalistica che penalizza ancora una volta i "municipi"». Difficile è rinunciare per gente che fonda sullo sperpero in grandi come in piccoli comuni la propria fortuna elettorale ad una prospettiva di poter finalmente mettere liberamente le mani nelle tasche dei cittadini. Particolarmente i sindaci dei piccoli comuni, adusi a fare il pianto greco sui trasferimenti statali sempre troppo pochi per il loro scialo clientelare, che sono sostenuti nelle piccole comunità da una sgherraglia rotta ad ogni mezzo pur di plebiscitare il consenso elettorale.
Così le parole di Leonardo Domenici, sindaco di Firenze e presidente dell’Anci (che non va dimenticato, è associazione dei sindaci – una sorta di defunta corporazione dei podestà – più che dei comuni, anche se tale si definisce): «L’impostazione del federalismo fiscale proposta dal ministro Calderolì non ci convince, è molto regionalistica, sia dal punto di vista culturale che istituzionale. Non possiamo accettare un sistema basato su un principio piramidale che parte dallo Stato e, attraverso le Regioni, arriva agli enti locali e alla fiscalità comunale» e poi – ti pareva – «Dopo il superamento dell’Ici occorre individuare finalmente un nuovo tributo per i Comuni». Il vizietto non se lo tolgono, soprattutto i “compagni”.
Certo, l’idem sentire corporativo è comune [sembra una battuta], a sinistra ovviamente ma anche a destra, seppure in maniera meno smaccata. Così la Moratti: «Stiamo esaminando la prima, è sicuramente positiva la ferma volontà del governo di avviare una riforma fiscale in senso federalista. E positivo il concetto della territorialità, che è portante in questa bozza, ma naturalmente ci sono tanti punti che vanno ancora approfonditi. In modo particolare ci sembra da rafforzare il ruolo dei Comuni».
Ora i comuni – non Comuni, comuni nel senso di comunità di persone che abitano uno stesso territorio – hanno sicuramente bisogno di fondi per le loro necessità, ma l’imposizione possibile dovrebbe essere vincolata ad uno scopo ben preciso, avere l’aspetto di una raccolta di fondi per un progetto ben definito. Ciò che a tutti i costi i legislatori devono evitare è che si tassi la gente per il ghiribizzo di un sindaco convinto che con concerti o balli in piazza o notti bianche o dispendiose fiere senza tangibili ritorni per la comunità si acquisisca il diritto a “regnare” come un signorotto per dieci anni (il 5 + 5 possibile per legge, una fortuna per tutti noi che la corporazione dei podestà mira a togliere) [il potere locale però nei piccoli Comuni è tale che si aggira facilmente il limite facendo mettere dalla propria cricca politica sullo scranno del primo cittadino un prestanome e continuando da assessore a fare il sindaco].
Quanto aggiunto come nota merita una riflessione. Il federalismo fiscale deve essere accompagnato da una ristrutturazione del potere amministrativo locale, da ottenersi col raggruppamento dei piccoli comuni in entità di almeno 30-40 mila abitanti, là ovviamente dove non vi siano ostacoli geofisici all’accorpamento. Bisogna passare a nuovi concetti, ad estendere il concetto di città a quello di città “diffusa” sul territorio. Che senso ha, per fare un esempio, un Lodigiano spezzettato in una miriade di piccoli comuni, uno per campanile, ognuno governato come nel medioevo da un signorotto attorniato dalla sua corte, che individuarla in uno dei partiti nazionali si fa atto di grande fantasia? L’accorpamento in quattro-cinque macrocomuni farebbe la fortuna del territorio che vive tutta una serie di problemi dovuti proprio alla frantumazione, alla disgregazione campanilistica condita d’insipienza e gelosie. Se penso ai rioni di Trieste, Gretta, Barcola, Roiano per fare un esempio: che differenza c’è con Brembio, Secugnago, Mairago? Nessuna: le distanze tra le chiese (prendendole come punti di riferimento) le stesse. Certo lì c’è un continuum di case e cemento, qui forse un migliaio di metri di verde che si sta sempre più restringendo per l’avanzare del cemento. È curioso che in terra lodigiana si stia dappertutto distruggendo i resti, le vestigia della vecchia civiltà contadina, ma, chissà perché, non ci si ponga il problema parallelamente di un nuovo assetto amministrativo del territorio consono con le trasformazioni in atto. Una domanda retorica, certo. Il perché lo conosciamo tutti.
Ma a quanto sembra insorgono i comuni, o meglio i loro amministratori che non vogliono rinunciare ad una possibilità spinta di svolgere il ruolo dello sceriffo di Nottingham, soprattutto quelli che provengono da una cultura che da sempre considera la proprietà privata un furto e dunque rubare ai ladri è una compensazione non comunque un reato.
Scrive infatti l’articolista: «In realtà la vera mina vagante è adesso rappresentata dai Comuni. I sindaci che dopo l’abolizione dell’Ici parlano di una riforma troppo regionalistica che penalizza ancora una volta i "municipi"». Difficile è rinunciare per gente che fonda sullo sperpero in grandi come in piccoli comuni la propria fortuna elettorale ad una prospettiva di poter finalmente mettere liberamente le mani nelle tasche dei cittadini. Particolarmente i sindaci dei piccoli comuni, adusi a fare il pianto greco sui trasferimenti statali sempre troppo pochi per il loro scialo clientelare, che sono sostenuti nelle piccole comunità da una sgherraglia rotta ad ogni mezzo pur di plebiscitare il consenso elettorale.
Così le parole di Leonardo Domenici, sindaco di Firenze e presidente dell’Anci (che non va dimenticato, è associazione dei sindaci – una sorta di defunta corporazione dei podestà – più che dei comuni, anche se tale si definisce): «L’impostazione del federalismo fiscale proposta dal ministro Calderolì non ci convince, è molto regionalistica, sia dal punto di vista culturale che istituzionale. Non possiamo accettare un sistema basato su un principio piramidale che parte dallo Stato e, attraverso le Regioni, arriva agli enti locali e alla fiscalità comunale» e poi – ti pareva – «Dopo il superamento dell’Ici occorre individuare finalmente un nuovo tributo per i Comuni». Il vizietto non se lo tolgono, soprattutto i “compagni”.
Certo, l’idem sentire corporativo è comune [sembra una battuta], a sinistra ovviamente ma anche a destra, seppure in maniera meno smaccata. Così la Moratti: «Stiamo esaminando la prima, è sicuramente positiva la ferma volontà del governo di avviare una riforma fiscale in senso federalista. E positivo il concetto della territorialità, che è portante in questa bozza, ma naturalmente ci sono tanti punti che vanno ancora approfonditi. In modo particolare ci sembra da rafforzare il ruolo dei Comuni».
Ora i comuni – non Comuni, comuni nel senso di comunità di persone che abitano uno stesso territorio – hanno sicuramente bisogno di fondi per le loro necessità, ma l’imposizione possibile dovrebbe essere vincolata ad uno scopo ben preciso, avere l’aspetto di una raccolta di fondi per un progetto ben definito. Ciò che a tutti i costi i legislatori devono evitare è che si tassi la gente per il ghiribizzo di un sindaco convinto che con concerti o balli in piazza o notti bianche o dispendiose fiere senza tangibili ritorni per la comunità si acquisisca il diritto a “regnare” come un signorotto per dieci anni (il 5 + 5 possibile per legge, una fortuna per tutti noi che la corporazione dei podestà mira a togliere) [il potere locale però nei piccoli Comuni è tale che si aggira facilmente il limite facendo mettere dalla propria cricca politica sullo scranno del primo cittadino un prestanome e continuando da assessore a fare il sindaco].
Quanto aggiunto come nota merita una riflessione. Il federalismo fiscale deve essere accompagnato da una ristrutturazione del potere amministrativo locale, da ottenersi col raggruppamento dei piccoli comuni in entità di almeno 30-40 mila abitanti, là ovviamente dove non vi siano ostacoli geofisici all’accorpamento. Bisogna passare a nuovi concetti, ad estendere il concetto di città a quello di città “diffusa” sul territorio. Che senso ha, per fare un esempio, un Lodigiano spezzettato in una miriade di piccoli comuni, uno per campanile, ognuno governato come nel medioevo da un signorotto attorniato dalla sua corte, che individuarla in uno dei partiti nazionali si fa atto di grande fantasia? L’accorpamento in quattro-cinque macrocomuni farebbe la fortuna del territorio che vive tutta una serie di problemi dovuti proprio alla frantumazione, alla disgregazione campanilistica condita d’insipienza e gelosie. Se penso ai rioni di Trieste, Gretta, Barcola, Roiano per fare un esempio: che differenza c’è con Brembio, Secugnago, Mairago? Nessuna: le distanze tra le chiese (prendendole come punti di riferimento) le stesse. Certo lì c’è un continuum di case e cemento, qui forse un migliaio di metri di verde che si sta sempre più restringendo per l’avanzare del cemento. È curioso che in terra lodigiana si stia dappertutto distruggendo i resti, le vestigia della vecchia civiltà contadina, ma, chissà perché, non ci si ponga il problema parallelamente di un nuovo assetto amministrativo del territorio consono con le trasformazioni in atto. Una domanda retorica, certo. Il perché lo conosciamo tutti.
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