Dopo Il Mattino, il Corriere della Sera. Non è un gioco di parole o l’incipit d’una poesiola. Dopo aver riportato nel precedente post un articolo del primo quotidiano, eccone un secondo tratto appunto dal secondo, sempre dalle rassegne stampa di ieri, a firma Claudio Del Frate, occhiellizzato, intitolato e sottotitolato: «Bossi e il gesto anti-Inno. La Procura: da archiviare. Il pm di Venezia: non è reato da sottoporre al tribunale dei ministri. Ora i giudici potranno decidere di accogliere la richiesta assolvendolo o rimandare il caso a un giudice ordinario». Nessun commento se non un “leggete bene l’articolo e dunque dove sta il problema?”. Ecco subito il testo:
Se reato c’è, non è cosa da tribunale dei ministri.
Il dito medio alzato da Umberto Bossi a corredo dell’inno di Mameli potrà al massimo dare luogo a un processo davanti a un tribunale ordinario. A violare la legge, insomma, può essere stato tutt’al più il cittadino Bossi, non il ministro.
Sul «misfatto» di domenica 20 luglio, quando durante un comizio a Padova il capo leghista si esibì nel gestaccio poco istituzionale, il procuratore aggiunto di Venezia Carlo Mastelloni ha chiesto l’archiviazione del fascicolo: a suo avviso non c’è stato alcun reato «ministeriale» e per questo motivo ha invitato l’apposito tribunale che giudica il comportamento dei componenti del governo a metterci una pietra sopra.
Questo non significa che da oggi in avanti chiunque - a cominciare da chi governa il Paese - si possa sentire autorizzato a farsi beffe dei simboli dello Stato. Nelle frasi che accompagnano la richiesta di archiviazione, il procuratore Mastelloni sottolinea che Fratelli d’Italia rappresenta un simbolo in grado di accomunare i cittadini e gli uomini delle istituzioni; anche e specialmente nel corso di cerimonie che onorano quanti sono caduti perla patria.
Per questa ragione nessuno ha il diritto - secondo il procuratore aggiunto di Venezia - di deridere o insultare l’Inno che, assieme alla bandiera, è un emblema dello Stato italiano.
Ma Bossi, quando mostrò il dito medio in spregio all’Inno, non era nelle sue vesti di ministro, dunque non sussiste reato specifico. Nelle motivazioni, Mastelloni fa esplicito riferimento ad alcuni pronunciamenti già espressi in materia dalla Cassazione.
A questo punto cosa può succedere? Il tribunale dei ministri potrà raccogliere la richiesta della procura e assolvere Bossi, ritenendo il suo comportamento non in contrasto con il suo ruolo di governo. Ma potrebbe allo stesso tempo rispedire gli atti a un magistrato ordinario per verificare se sussistano altri reati di tipo comune.
E pensare che per buona parte del comizio di Padova, Bossi aveva usato toni morbidi e di apertura all’opposizione. «Siamo pronti ad accogliere le proposte del Pd e di Veltroni in materia di federalismo - aveva scandito dalla tribuna - e da parte nostra non ci sarà alcuna chiusura».
Poi però gli «animal spirits» leghisti avevano preso il sopravvento e approdato a parlare dell’inno di Mameli - in particolare al passaggio del testo in cui si usano le parole «schiava di Roma» - il senatur non si era trattenuto dal sollevare il dito medio: «Mai schiavi di Roma! Toh!».
Ne erano scaturiti giorni di polemiche furibonde, con richieste di dimissioni del ministro, interventi istituzionali, denunce alla magistratura; fino al rapporto della Digos veneta da cui è scaturita l’inchiesta-lampo.
Nel divampare della discussione, si era scoperto anche che Fratelli d’Italia non è ancora stato elevato al rango di Inno ufficiale d’Italia. E come tale, quindi, non può dare luogo a processi per vilipendio.
Se reato c’è, non è cosa da tribunale dei ministri.
Il dito medio alzato da Umberto Bossi a corredo dell’inno di Mameli potrà al massimo dare luogo a un processo davanti a un tribunale ordinario. A violare la legge, insomma, può essere stato tutt’al più il cittadino Bossi, non il ministro.
Sul «misfatto» di domenica 20 luglio, quando durante un comizio a Padova il capo leghista si esibì nel gestaccio poco istituzionale, il procuratore aggiunto di Venezia Carlo Mastelloni ha chiesto l’archiviazione del fascicolo: a suo avviso non c’è stato alcun reato «ministeriale» e per questo motivo ha invitato l’apposito tribunale che giudica il comportamento dei componenti del governo a metterci una pietra sopra.
Questo non significa che da oggi in avanti chiunque - a cominciare da chi governa il Paese - si possa sentire autorizzato a farsi beffe dei simboli dello Stato. Nelle frasi che accompagnano la richiesta di archiviazione, il procuratore Mastelloni sottolinea che Fratelli d’Italia rappresenta un simbolo in grado di accomunare i cittadini e gli uomini delle istituzioni; anche e specialmente nel corso di cerimonie che onorano quanti sono caduti perla patria.
Per questa ragione nessuno ha il diritto - secondo il procuratore aggiunto di Venezia - di deridere o insultare l’Inno che, assieme alla bandiera, è un emblema dello Stato italiano.
Ma Bossi, quando mostrò il dito medio in spregio all’Inno, non era nelle sue vesti di ministro, dunque non sussiste reato specifico. Nelle motivazioni, Mastelloni fa esplicito riferimento ad alcuni pronunciamenti già espressi in materia dalla Cassazione.
A questo punto cosa può succedere? Il tribunale dei ministri potrà raccogliere la richiesta della procura e assolvere Bossi, ritenendo il suo comportamento non in contrasto con il suo ruolo di governo. Ma potrebbe allo stesso tempo rispedire gli atti a un magistrato ordinario per verificare se sussistano altri reati di tipo comune.
E pensare che per buona parte del comizio di Padova, Bossi aveva usato toni morbidi e di apertura all’opposizione. «Siamo pronti ad accogliere le proposte del Pd e di Veltroni in materia di federalismo - aveva scandito dalla tribuna - e da parte nostra non ci sarà alcuna chiusura».
Poi però gli «animal spirits» leghisti avevano preso il sopravvento e approdato a parlare dell’inno di Mameli - in particolare al passaggio del testo in cui si usano le parole «schiava di Roma» - il senatur non si era trattenuto dal sollevare il dito medio: «Mai schiavi di Roma! Toh!».
Ne erano scaturiti giorni di polemiche furibonde, con richieste di dimissioni del ministro, interventi istituzionali, denunce alla magistratura; fino al rapporto della Digos veneta da cui è scaturita l’inchiesta-lampo.
Nel divampare della discussione, si era scoperto anche che Fratelli d’Italia non è ancora stato elevato al rango di Inno ufficiale d’Italia. E come tale, quindi, non può dare luogo a processi per vilipendio.
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