Riprendo dall’edizione di Milano di Libero di ieri questo edificante articolo di Paolo Emilio Russo, che evidenzia il mal costume, se così si può definirlo, dell’anteporre gli interessi personali a quelli della comunità. Una questione che già avevo sollevato in un post di qualche tempo fa su questo blog. Ora, dopo i ripetuti schiaffetti presi dal governo in Parlamento, la questione assume toni consistenti ed il giornale di Feltri, sempre attento ad evidenziare contraddizioni e paradossi, bene fa a scriverci sopra.
II piano anti-scivoloni
«Ora li faccio dimettere io»
Vita dura per i doppi incarichi
Il premier è stufo di chi cumula il seggio da parlamentare con posti in enti e governo: «Ora basta, imporrò la scelta per lettera». Tremano tutti i ministri e 33 sottosegretari
ROMA Finora non erano servite né le rampogne di Niccolò Ghedini e i suoi richiami allo Statuto di Forza Italia né la sofisticata – e successiva – moral suasion di Gianni Letta. I deputati col doppio incarico, cioè diventati ministri e sottosegretari, o addirittura incompatibili, cioè sindaci, presidenti di Provincia o consiglieri regionali, non hanno mai accettato di dimettersi. Meglio avere l’immunità, il trattamento pensionistico da onorevole, la certezza che lo stipendio resterà quello per cinque anni, anche in caso di rimpasto. Dopo la debacle di martedì sul Milleproroghe, la terza in soli due mesi causata dalle assenze nelle file del Popolo delle libertà e dal numero eccessivo di membri del governo in "missione", il Cavaliere ha deciso che è ora di finirla. Così, in un faccia a faccia chiarificatore col capogruppo del PdL a Montecitorio Fabrizio Cicchitto, finito insieme al gruppo della Camera nel mirino del premier, ha annunciato di voler scaricare la bomba: «Scriverò io personalmente una lettera a tutti i ministri e i sottosegretari invitandoli a dare immediatamente le dimissioni da deputati. Perché così, con fatti come quelli di ieri, non si può più andare avanti».
Per la verità non è la prima volta che il Cavaliere, conversando con i suoi, chiede le dimissioni da ruoli parlamentari ai membri del governo.
Qualcuno di loro era già sul punto di dimettersi già nei mesi scorsi. Franco Frattini l’aveva addirittura fatto presentando regolare lettera agli organi competenti di Montecitorio. Peccato che, trascorsi due giorni e vedendo che nessuno dei colleghi ministri era disposto a seguirlo su quella strada, abbia deciso di ritirare le dimissioni.
Nemmeno Sandro Bondi, ministro dei Beni Culturali, che sembrava intenzionato a seguire il dettato berlusconiano e a lasciare il posto in Parlamento, ha mai consegnato la sua lettera. I membri del governo di An, invece, non ci hanno proprio mai pensato a lasciare i loro scranni in Parlamento. «Non ci siamo mai impegnati a farlo», dice uno di loro, «né prima né dopo le elezioni». E se i ministri non hanno dato il buon esempio perché dovrebbero farlo i 33 sottosegretari che sono pure parlamentari? L’unica chance, a questo punto, è affidata a quella «lettera» annunciata ieri dal premier, alla richiesta recapitata direttamente ai membri del governo col doppio incarico dal presidente del loro esecutivo. Soprattutto se, come è possibile, conterrà una sorta di aut aut: o deputato o al governo, senza soluzioni terze.
Anche dopo le dimissioni i sottosegretari avranno modo di sopravvivere. La legge che equipara il trattamento economico dei sottosegretari esterni a quello del parlamentare, infatti, esiste già. E la stessa, per dire, che l’ex ministro dell’Economia del governo Prodi, Tommaso Padoa Schioppa, ha utilizzato per due anni. E così molti membri dell’esecutivo dell’Unione, quelli che si sono dimessi visti i numeri risicati al Senato nell’ultima legislatura. L’unica differenza di status, quindi, riguarderebbe l’immunità parlamentare e il trattamento pensionistico. Cose seccanti, certo, ma superabilissime. Diversa la pratica di coloro che tecnicamente sono incompatibili, cioè ricoprono funzioni diverse da quella del parlamentare e dovranno comunque dimettersi.
I casi principali riguardano gli amministratori locali eletti sindaci o presidenti di Provincia all’ultima tornata amministrativa.
In questa condizione si trovano il forzista Adriano Paroli, neo sindaco di Brescia, la sua compagna di partito Maria Teresa Armosino, presidente della Provincia di Asti, e l`aennino Antonio Pepe, presidente della Provincia di Foggia.
Per loro, invece, la rinuncia al seggio comporterà realmente un calo del reddito. Gli stipendi che le amministrazioni versano alle loro guide politiche, infatti, si fermano nel migliore dei casi a poche migliaia di euro. Ma la politica è anche spirito di sacrificio.
Rientrano in un’altra fattispecie due deputati del Pdl che, prima di essere eletti, avevano un altro incarico e non l’hanno ancora lasciato, continuando a percepire il doppio stipendio. Degli onorevoli Sabrina De Camillis e Giovanni Dima, entrambi del Pdl, si sta occupando il coordinatore del Comitato per i profili attinenti alle incompatibilità presieduto da Pino Pisicchio. Entrambi sono ancora in carica come consiglieri regionali rispettivamente del Molise e della Calabria. Dei loro casi si è già discusso a inizio luglio, ma è quasi certo che, visto l’ingolfamento di Montecitorio, i due riusciranno a mantenere doppio incarico e stipendio almeno fino a settembre.
II piano anti-scivoloni
«Ora li faccio dimettere io»
Vita dura per i doppi incarichi
Il premier è stufo di chi cumula il seggio da parlamentare con posti in enti e governo: «Ora basta, imporrò la scelta per lettera». Tremano tutti i ministri e 33 sottosegretari
ROMA Finora non erano servite né le rampogne di Niccolò Ghedini e i suoi richiami allo Statuto di Forza Italia né la sofisticata – e successiva – moral suasion di Gianni Letta. I deputati col doppio incarico, cioè diventati ministri e sottosegretari, o addirittura incompatibili, cioè sindaci, presidenti di Provincia o consiglieri regionali, non hanno mai accettato di dimettersi. Meglio avere l’immunità, il trattamento pensionistico da onorevole, la certezza che lo stipendio resterà quello per cinque anni, anche in caso di rimpasto. Dopo la debacle di martedì sul Milleproroghe, la terza in soli due mesi causata dalle assenze nelle file del Popolo delle libertà e dal numero eccessivo di membri del governo in "missione", il Cavaliere ha deciso che è ora di finirla. Così, in un faccia a faccia chiarificatore col capogruppo del PdL a Montecitorio Fabrizio Cicchitto, finito insieme al gruppo della Camera nel mirino del premier, ha annunciato di voler scaricare la bomba: «Scriverò io personalmente una lettera a tutti i ministri e i sottosegretari invitandoli a dare immediatamente le dimissioni da deputati. Perché così, con fatti come quelli di ieri, non si può più andare avanti».
Per la verità non è la prima volta che il Cavaliere, conversando con i suoi, chiede le dimissioni da ruoli parlamentari ai membri del governo.
Qualcuno di loro era già sul punto di dimettersi già nei mesi scorsi. Franco Frattini l’aveva addirittura fatto presentando regolare lettera agli organi competenti di Montecitorio. Peccato che, trascorsi due giorni e vedendo che nessuno dei colleghi ministri era disposto a seguirlo su quella strada, abbia deciso di ritirare le dimissioni.
Nemmeno Sandro Bondi, ministro dei Beni Culturali, che sembrava intenzionato a seguire il dettato berlusconiano e a lasciare il posto in Parlamento, ha mai consegnato la sua lettera. I membri del governo di An, invece, non ci hanno proprio mai pensato a lasciare i loro scranni in Parlamento. «Non ci siamo mai impegnati a farlo», dice uno di loro, «né prima né dopo le elezioni». E se i ministri non hanno dato il buon esempio perché dovrebbero farlo i 33 sottosegretari che sono pure parlamentari? L’unica chance, a questo punto, è affidata a quella «lettera» annunciata ieri dal premier, alla richiesta recapitata direttamente ai membri del governo col doppio incarico dal presidente del loro esecutivo. Soprattutto se, come è possibile, conterrà una sorta di aut aut: o deputato o al governo, senza soluzioni terze.
Anche dopo le dimissioni i sottosegretari avranno modo di sopravvivere. La legge che equipara il trattamento economico dei sottosegretari esterni a quello del parlamentare, infatti, esiste già. E la stessa, per dire, che l’ex ministro dell’Economia del governo Prodi, Tommaso Padoa Schioppa, ha utilizzato per due anni. E così molti membri dell’esecutivo dell’Unione, quelli che si sono dimessi visti i numeri risicati al Senato nell’ultima legislatura. L’unica differenza di status, quindi, riguarderebbe l’immunità parlamentare e il trattamento pensionistico. Cose seccanti, certo, ma superabilissime. Diversa la pratica di coloro che tecnicamente sono incompatibili, cioè ricoprono funzioni diverse da quella del parlamentare e dovranno comunque dimettersi.
I casi principali riguardano gli amministratori locali eletti sindaci o presidenti di Provincia all’ultima tornata amministrativa.
In questa condizione si trovano il forzista Adriano Paroli, neo sindaco di Brescia, la sua compagna di partito Maria Teresa Armosino, presidente della Provincia di Asti, e l`aennino Antonio Pepe, presidente della Provincia di Foggia.
Per loro, invece, la rinuncia al seggio comporterà realmente un calo del reddito. Gli stipendi che le amministrazioni versano alle loro guide politiche, infatti, si fermano nel migliore dei casi a poche migliaia di euro. Ma la politica è anche spirito di sacrificio.
Rientrano in un’altra fattispecie due deputati del Pdl che, prima di essere eletti, avevano un altro incarico e non l’hanno ancora lasciato, continuando a percepire il doppio stipendio. Degli onorevoli Sabrina De Camillis e Giovanni Dima, entrambi del Pdl, si sta occupando il coordinatore del Comitato per i profili attinenti alle incompatibilità presieduto da Pino Pisicchio. Entrambi sono ancora in carica come consiglieri regionali rispettivamente del Molise e della Calabria. Dei loro casi si è già discusso a inizio luglio, ma è quasi certo che, visto l’ingolfamento di Montecitorio, i due riusciranno a mantenere doppio incarico e stipendio almeno fino a settembre.
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