Agostino Carrino interviene oggi su Il Secolo d'Italia con un interessante contributo sul tema del federalismo; articolo intitolato “Caro Bossi, non snaturiamo il federalismo”. L’articolo contiene molte osservazioni su cui spendere la propria riflessione, e, dunque, lo riporto qui per quanti dei miei lettori siano interessati al dibattito su quello che necessariamente sarà il futuro prossimo del nostro Paese: uno stato a struttura federale, in quanto unica possibilità per impedire la definitiva disgregazione di uno stato che non è mai stato nazione.
«A settembre il Consiglio dei ministri dovrebbe approvare il disegno di legge sul federalismo fiscale. Si è diffusa l’idea che si tratta di una delle riforme istituzionali centrali di questa legislatura, che si vuole costituente. In realtà, non si tratta di una riforma costituzionale, bensì dell’attuazione, a distanza di sette anni, della riforma del Titolo V, voluta dal centrosinistra al termine della sua legislatura e che è stata oggetto di molte osservazioni critiche da parte di giuristi sia di destra sia di sinistra. Mi limito a citarne due per tutti, Vincenzo Lippolis e Giovanni Pitruzzella, per i quali quella riforma è stata «un testo abborracciato, con gravi lacune e veri e propri errori, fonte di un imponente contenzioso fra Stato e regioni di fronte alla Corte costituzionale» (Il bipolarismo conflittuale, Rubbettino).
È noto, del resto, come il riparto delle competenze tra Stato e Regioni sia per molti aspetti arbitrario e privo di motivazioni funzionali (per non parlare di materie strategiche attribuite alle Regioni), tanto che la Corte costituzionale ha dovuto intervenire per evitare conseguenze gravi per quanto riguarda la legittimità di alcune norme statali, che sarebbero state oscurate da un’interpretazione letterale della riforma. Senza la Consulta, che ha elaborato un nuovo concetto di "sussidiarietà legislativa", la riforma avrebbe messo a rischio la stessa unitarietà della legislazione statale.
La riforma del 2001 ha posto, in virtù dell’articolo 114 della Costituzione, sullo stesso piano Stato, regioni, comuni, province e città metropolitane.
Ciò ha consentito di parlare di un "federalismo multilivello". È mestiere del giurista razionalizzare anche le mostruosità, se di diritto positivo, ma per quanto mi riguarda non sono mai riuscito a spiegare ai miei studenti cosa significhi, concretamente, l’equiparazione dello Stato con enti che, per di più, poi si vorrebbero perfino abolire, com’è il caso delle province.
La verità è che il Titolo V andrebbe riscritto entro una riforma costituzionale più ampia, più organica, più coerente, soprattutto più consona alle trasformazioni sociali degli ultimi anni e ai bisogni dei cittadini.
La riforma del centrodestra, bocciata nel 2006, lasciava molto a desiderare in varie parti, ma era positiva proprio sul Titolo V, che invece, purtroppo, è rimasto quello voluto dal centrosinistra.
Ora, nello specifico, bisogna chiedersi: ha senso un federalismo fiscale in quanto attuazione dell’articolo 119 della Costituzione vigente oggetto di così tante critiche? È poi solo un caso che di questo articolo si parli solo per quanto riguarda la regionalizzazione dei tributi e non anche per il fondo perequativo da esso previsto e che dovrebbe assicurare quel federalismo solidale e cooperativo di cui l’Italia ha bisogno? Personalmente, in tutto questo gran parlare di federalismo fiscale vedo dei rischi, relativi alla stessa coerenza e quindi all’unitarietà dell’ordinamento giuridico, posto che si pensa di dare attuazione a una parte della Costituzione proprio nel momento in cui si dovrebbe mettere mano al suo impianto complessivo, compresa la prima parte. E se non sono rischi, certo nessuno potrebbe negare la contraddizione, perché la riforma del Titolo V, anche se mal fatta, è stata gravida di conseguenze sugli assetti complessivi, sicché "attuarla" senza sanarne le incongruenze rischia di innestare un meccanismo che, da un lato bloccherebbe il processo costituente, dall’altro accentuerebbe, come ho detto, i rischi di efficienza del sistema nel suo insieme, già di per sé aì limiti del collasso.
In entrambi i casi, l’unica forza politica che se ne avvantaggerebbe politicamente sarebbe la Lega, che vedrebbe incoraggiate le sue antiche pulsioni secessioniste, pur in presenza di una sottovalutata (dagli stessi leghisti) forza centripeta rappresentata dagli interessi economici del Nord, in quanto l’economia non è mai veramente "localista", bensì naturaliter "globalista".
Spero di sbagliarmi, ma di questi rischi è ben consapevole il Carroccio, che probabilmente auspica esattamente la situazione di stallo che si determinerebbe con l’introduzione tout court del federalismo fiscale: da un lato ci sarebbero regioni che, una volta introdotto il provvedimento, invocherebbero immediatamente anche l’applicazione dell`art. 116 della Costituzione sul "regionalismo differenziato" (più poteri in certe materie); dall’altro avremmo regioni incapaci di fare fronte, sia per insipienza delle classi politiche locali, sia a causa dei loro spaventosi deficit di bilancio, alla gestione dell’esistente. Con la conseguenza di una spaccatura insanabile del paese tra parti ricche e povere, regioni con una maggiore cultura civica (Lombardia ed Emilia Romagna, per citarne solo due), e regioni, purtroppo, da questo punto di vista ancora arretrate (si pensi per tutte alla Campania).
Di contro, una via virtuosa sarebbe quella di una riforma complessiva e radicale della Costituzione, in senso contemporaneamente federalista e presidenzialista. Complessiva, perché il federalismo senza un forte potere centrale è un falso federalismo; "radicale", perché sarebbe ora di ripensare a fondo anche i livelli del federalismo, partendo per prima cosa da una ricognizione esaustiva dei danni incalcolabili prodotti al Paese dall’introduzione nel 1970 delle Regioni, fonti di corruzione, di compromessi deleteri, di abbassamento di tutti i livelli di politicità. Si tratta di danni prodotti non soltanto dal punto di vista economico - a causa degli sprechi indecenti fatti in trent’anni dalle regioni a statuto sia speciale sia ordinario - ma anche e soprattutto dal punto di vista morale.
So bene dì essere una voce isolata, ma oggi una riforma seria dovrebbe partire dalla possibilità di riformare innanzitutto le Regioni, modificandone i confini e raggruppandole in macro-aree, entro le quali ripensare le province e le loro funzioni, riducendone il numero e ampliandole territorialmente.
Le regioni sono state e sono delle enormi idrovore di denaro pubblico scialacquato senza pudore.
Il federalismo non è la lotta a "Roma ladrona", ma la sconfitta di questa vergogna nazionale, che ha creato una sanità sprecona e inefficiente, camarille e consorterie di potere e di affari loschi. Bossi farebbe bene a guardare a queste realtà, che rischiano solo dì essere ripetute in nuove forme di centralismo regionale, invece di prendersela con i simboli dell’unità nazionale.
Credo che sia obbligo morale e politico dì una nuova destra riformista e liberale mettere in guardia da questi rischi, puntando a una riforma istituzionale che vada al fondo dei problemi che attanagliano l’Italia, che sia fatta in nome di un vero rinnovamento intellettuale e morale di tutto il Paese. Si tratta di immaginare inediti scenari e possibilità per i quali questa destra nuova dovrebbe finalmente incontrarsi con una nuova sinistra, che si traghetti senza rimpianti nel Ventunesimo secolo. Le regole del gioco vanno scritte insieme. Naturalmente, bisogna che ci sia qualcuno, da entrambe le parti, che abbia questa voglia di "giocare", ovvero di competere seriamente, democraticamente e apertamente per la conquista del potere politico. Per il bene comune della nazione.»
«A settembre il Consiglio dei ministri dovrebbe approvare il disegno di legge sul federalismo fiscale. Si è diffusa l’idea che si tratta di una delle riforme istituzionali centrali di questa legislatura, che si vuole costituente. In realtà, non si tratta di una riforma costituzionale, bensì dell’attuazione, a distanza di sette anni, della riforma del Titolo V, voluta dal centrosinistra al termine della sua legislatura e che è stata oggetto di molte osservazioni critiche da parte di giuristi sia di destra sia di sinistra. Mi limito a citarne due per tutti, Vincenzo Lippolis e Giovanni Pitruzzella, per i quali quella riforma è stata «un testo abborracciato, con gravi lacune e veri e propri errori, fonte di un imponente contenzioso fra Stato e regioni di fronte alla Corte costituzionale» (Il bipolarismo conflittuale, Rubbettino).
È noto, del resto, come il riparto delle competenze tra Stato e Regioni sia per molti aspetti arbitrario e privo di motivazioni funzionali (per non parlare di materie strategiche attribuite alle Regioni), tanto che la Corte costituzionale ha dovuto intervenire per evitare conseguenze gravi per quanto riguarda la legittimità di alcune norme statali, che sarebbero state oscurate da un’interpretazione letterale della riforma. Senza la Consulta, che ha elaborato un nuovo concetto di "sussidiarietà legislativa", la riforma avrebbe messo a rischio la stessa unitarietà della legislazione statale.
La riforma del 2001 ha posto, in virtù dell’articolo 114 della Costituzione, sullo stesso piano Stato, regioni, comuni, province e città metropolitane.
Ciò ha consentito di parlare di un "federalismo multilivello". È mestiere del giurista razionalizzare anche le mostruosità, se di diritto positivo, ma per quanto mi riguarda non sono mai riuscito a spiegare ai miei studenti cosa significhi, concretamente, l’equiparazione dello Stato con enti che, per di più, poi si vorrebbero perfino abolire, com’è il caso delle province.
La verità è che il Titolo V andrebbe riscritto entro una riforma costituzionale più ampia, più organica, più coerente, soprattutto più consona alle trasformazioni sociali degli ultimi anni e ai bisogni dei cittadini.
La riforma del centrodestra, bocciata nel 2006, lasciava molto a desiderare in varie parti, ma era positiva proprio sul Titolo V, che invece, purtroppo, è rimasto quello voluto dal centrosinistra.
Ora, nello specifico, bisogna chiedersi: ha senso un federalismo fiscale in quanto attuazione dell’articolo 119 della Costituzione vigente oggetto di così tante critiche? È poi solo un caso che di questo articolo si parli solo per quanto riguarda la regionalizzazione dei tributi e non anche per il fondo perequativo da esso previsto e che dovrebbe assicurare quel federalismo solidale e cooperativo di cui l’Italia ha bisogno? Personalmente, in tutto questo gran parlare di federalismo fiscale vedo dei rischi, relativi alla stessa coerenza e quindi all’unitarietà dell’ordinamento giuridico, posto che si pensa di dare attuazione a una parte della Costituzione proprio nel momento in cui si dovrebbe mettere mano al suo impianto complessivo, compresa la prima parte. E se non sono rischi, certo nessuno potrebbe negare la contraddizione, perché la riforma del Titolo V, anche se mal fatta, è stata gravida di conseguenze sugli assetti complessivi, sicché "attuarla" senza sanarne le incongruenze rischia di innestare un meccanismo che, da un lato bloccherebbe il processo costituente, dall’altro accentuerebbe, come ho detto, i rischi di efficienza del sistema nel suo insieme, già di per sé aì limiti del collasso.
In entrambi i casi, l’unica forza politica che se ne avvantaggerebbe politicamente sarebbe la Lega, che vedrebbe incoraggiate le sue antiche pulsioni secessioniste, pur in presenza di una sottovalutata (dagli stessi leghisti) forza centripeta rappresentata dagli interessi economici del Nord, in quanto l’economia non è mai veramente "localista", bensì naturaliter "globalista".
Spero di sbagliarmi, ma di questi rischi è ben consapevole il Carroccio, che probabilmente auspica esattamente la situazione di stallo che si determinerebbe con l’introduzione tout court del federalismo fiscale: da un lato ci sarebbero regioni che, una volta introdotto il provvedimento, invocherebbero immediatamente anche l’applicazione dell`art. 116 della Costituzione sul "regionalismo differenziato" (più poteri in certe materie); dall’altro avremmo regioni incapaci di fare fronte, sia per insipienza delle classi politiche locali, sia a causa dei loro spaventosi deficit di bilancio, alla gestione dell’esistente. Con la conseguenza di una spaccatura insanabile del paese tra parti ricche e povere, regioni con una maggiore cultura civica (Lombardia ed Emilia Romagna, per citarne solo due), e regioni, purtroppo, da questo punto di vista ancora arretrate (si pensi per tutte alla Campania).
Di contro, una via virtuosa sarebbe quella di una riforma complessiva e radicale della Costituzione, in senso contemporaneamente federalista e presidenzialista. Complessiva, perché il federalismo senza un forte potere centrale è un falso federalismo; "radicale", perché sarebbe ora di ripensare a fondo anche i livelli del federalismo, partendo per prima cosa da una ricognizione esaustiva dei danni incalcolabili prodotti al Paese dall’introduzione nel 1970 delle Regioni, fonti di corruzione, di compromessi deleteri, di abbassamento di tutti i livelli di politicità. Si tratta di danni prodotti non soltanto dal punto di vista economico - a causa degli sprechi indecenti fatti in trent’anni dalle regioni a statuto sia speciale sia ordinario - ma anche e soprattutto dal punto di vista morale.
So bene dì essere una voce isolata, ma oggi una riforma seria dovrebbe partire dalla possibilità di riformare innanzitutto le Regioni, modificandone i confini e raggruppandole in macro-aree, entro le quali ripensare le province e le loro funzioni, riducendone il numero e ampliandole territorialmente.
Le regioni sono state e sono delle enormi idrovore di denaro pubblico scialacquato senza pudore.
Il federalismo non è la lotta a "Roma ladrona", ma la sconfitta di questa vergogna nazionale, che ha creato una sanità sprecona e inefficiente, camarille e consorterie di potere e di affari loschi. Bossi farebbe bene a guardare a queste realtà, che rischiano solo dì essere ripetute in nuove forme di centralismo regionale, invece di prendersela con i simboli dell’unità nazionale.
Credo che sia obbligo morale e politico dì una nuova destra riformista e liberale mettere in guardia da questi rischi, puntando a una riforma istituzionale che vada al fondo dei problemi che attanagliano l’Italia, che sia fatta in nome di un vero rinnovamento intellettuale e morale di tutto il Paese. Si tratta di immaginare inediti scenari e possibilità per i quali questa destra nuova dovrebbe finalmente incontrarsi con una nuova sinistra, che si traghetti senza rimpianti nel Ventunesimo secolo. Le regole del gioco vanno scritte insieme. Naturalmente, bisogna che ci sia qualcuno, da entrambe le parti, che abbia questa voglia di "giocare", ovvero di competere seriamente, democraticamente e apertamente per la conquista del potere politico. Per il bene comune della nazione.»
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