Maurizio Lupi ieri su Libero è intervenuto sul tormentone “dialogo” con l’articolo “Dialogare non significa essere d’accordo su tutti gli argomenti”. Niente di più vero. Vediamo:
E se il dialogo fosse solo un alibi? Un modo come un altro per frenare l’azione del governo? Ci ho pensato molto in questi giorni osservando il dibattito in Aula sulla manovra. Un dibattito che ha visto l’opposizione, almeno quella parte che ancora ama definirsi riformista e responsabile, tenere un atteggiamento a dir poco preoccupante. Al di là delle osservazioni di merito, infatti, alcune delle quali hanno sicuramente contribuito a migliorare l’impianto della manovra, l’obiezione principale che è stata mossa all’esecutivo è stata: questi interventi non indicano una prospettiva per il futuro.
Mi sembra una visione un po’ miope. Anzitutto perché non tiene conto che, quegli interventi, fanno parte di un disegno complessivo di cui il Dpef non è un accessorio, ma parte integrante. Ma soprattutto perché la manovra contiene una prospettiva: è quella di salvaguardare i nostri conti in un momento di crisi mondiale, tagliando la spesa improduttiva della pubblica amministrazione. Volendo riassumere il tutto in uno slogan, si potrebbe dire: più efficienza senza toccare le tasche degli italiani. Ma l’opposizione ha preferito la polemica sterile.
Non è una novità. Al di là degli appelli del capo dello Stato questi primi mesi di legislatura non sono stati diversi dal passato. I pregiudizi antiberlusconiani e le sirene giustizialiste di Antonio Di Pietro hanno condizionato il confronto tra una maggioranza stabile e coesa e un’opposizione ambigua e altalenante.
Sono convinto che la ripresa di settembre potrà essere un’ottima occasione per ricominciare da zero.
In calendario, infatti, ci sono quattro importanti riforme: quella del federalismo fiscale, quella della giustizia, la legge elettorale per le europee e una revisione profonda del nostro sistema di welfare. Ora, però, la domanda nasce spontanea: cosa significa favorire il dialogo su questa agenda di priorità? Mi sembra infatti che, ogni volta che si parla di confronto e di condivisione, ci sia un’ambiguità di fondo. Cosa significa infatti dialogare: essere sempre d’accordo al 100%? Se qualcuno lo pensa, si rassegni: è impossibile. Non solo. Sarebbe un modo per bloccare il Paese. Maggioranza e opposizione sono diverse e si sono presentate alle elezioni con programmi diversi. Pretendere che siano d’accordo su tutto è un’utopia. Non solo, chi è stato chiamato a guidare il Paese ha la responsabilità di decidere, di fare scelte per tutti i cittadini. E questo a prescindere dal grado di condivisione di chi gli stadi fronte.
II dialogo non è una gabbia entro la quale racchiudere la politica, il dialogo è un metodo e come tale deve essere utilizzato. La maggioranza, a cominciare dal presidente Berlusconi, lo ha sempre detto: siamo disponibili a verificare se esistono pezzi di strada da fare insieme, ma questo non significa aspettare che tutti siano perfettamente d’accordo.
Le riforme vanno fatte. In ogni caso.
Facciamo l’esempio del federalismo fiscale. Potremmo discutere per anni cercando di trovare la perfetta alchimia tra le esigenze dello Stato e quelle delle realtà locali. Nei migliori dei casi otterremmo il risultato di togliere poteri al centro per affidarli alla periferia sostituendo al centralismo statale quello di Regioni, province e comuni. Al contrario noi dobbiamo confrontarci su quello che è il principio base di questa riforma: l’applicazione del principio di sussidiarietà. Insomma, smettiamola di nasconderci dietro il paravento del dialogo, usciamo allo scoperto e cominciamo a confrontarci sugli obiettivi che vogliamo raggiungere. Sulle ricette, poi, potremmo anche dividerci. Non sarà una scandalo.
E se il dialogo fosse solo un alibi? Un modo come un altro per frenare l’azione del governo? Ci ho pensato molto in questi giorni osservando il dibattito in Aula sulla manovra. Un dibattito che ha visto l’opposizione, almeno quella parte che ancora ama definirsi riformista e responsabile, tenere un atteggiamento a dir poco preoccupante. Al di là delle osservazioni di merito, infatti, alcune delle quali hanno sicuramente contribuito a migliorare l’impianto della manovra, l’obiezione principale che è stata mossa all’esecutivo è stata: questi interventi non indicano una prospettiva per il futuro.
Mi sembra una visione un po’ miope. Anzitutto perché non tiene conto che, quegli interventi, fanno parte di un disegno complessivo di cui il Dpef non è un accessorio, ma parte integrante. Ma soprattutto perché la manovra contiene una prospettiva: è quella di salvaguardare i nostri conti in un momento di crisi mondiale, tagliando la spesa improduttiva della pubblica amministrazione. Volendo riassumere il tutto in uno slogan, si potrebbe dire: più efficienza senza toccare le tasche degli italiani. Ma l’opposizione ha preferito la polemica sterile.
Non è una novità. Al di là degli appelli del capo dello Stato questi primi mesi di legislatura non sono stati diversi dal passato. I pregiudizi antiberlusconiani e le sirene giustizialiste di Antonio Di Pietro hanno condizionato il confronto tra una maggioranza stabile e coesa e un’opposizione ambigua e altalenante.
Sono convinto che la ripresa di settembre potrà essere un’ottima occasione per ricominciare da zero.
In calendario, infatti, ci sono quattro importanti riforme: quella del federalismo fiscale, quella della giustizia, la legge elettorale per le europee e una revisione profonda del nostro sistema di welfare. Ora, però, la domanda nasce spontanea: cosa significa favorire il dialogo su questa agenda di priorità? Mi sembra infatti che, ogni volta che si parla di confronto e di condivisione, ci sia un’ambiguità di fondo. Cosa significa infatti dialogare: essere sempre d’accordo al 100%? Se qualcuno lo pensa, si rassegni: è impossibile. Non solo. Sarebbe un modo per bloccare il Paese. Maggioranza e opposizione sono diverse e si sono presentate alle elezioni con programmi diversi. Pretendere che siano d’accordo su tutto è un’utopia. Non solo, chi è stato chiamato a guidare il Paese ha la responsabilità di decidere, di fare scelte per tutti i cittadini. E questo a prescindere dal grado di condivisione di chi gli stadi fronte.
II dialogo non è una gabbia entro la quale racchiudere la politica, il dialogo è un metodo e come tale deve essere utilizzato. La maggioranza, a cominciare dal presidente Berlusconi, lo ha sempre detto: siamo disponibili a verificare se esistono pezzi di strada da fare insieme, ma questo non significa aspettare che tutti siano perfettamente d’accordo.
Le riforme vanno fatte. In ogni caso.
Facciamo l’esempio del federalismo fiscale. Potremmo discutere per anni cercando di trovare la perfetta alchimia tra le esigenze dello Stato e quelle delle realtà locali. Nei migliori dei casi otterremmo il risultato di togliere poteri al centro per affidarli alla periferia sostituendo al centralismo statale quello di Regioni, province e comuni. Al contrario noi dobbiamo confrontarci su quello che è il principio base di questa riforma: l’applicazione del principio di sussidiarietà. Insomma, smettiamola di nasconderci dietro il paravento del dialogo, usciamo allo scoperto e cominciamo a confrontarci sugli obiettivi che vogliamo raggiungere. Sulle ricette, poi, potremmo anche dividerci. Non sarà una scandalo.
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