giovedì 7 agosto 2008

Tra le due sinistre l'abisso

Ancora sulla strage alla stazione di Bologna. Riprendo dalle rassegne stampa di ieri l’ottimo articolo «Bologna e la sinistra radicale. Libertà di giudizio» di Pietro Ostellino pubblicato sul Corriere della Sera.

Rossana Rossanda dice che della strage di Bologna ci sono due verità: la verità processuale e quella storica. Di quella processuale che ha condannato Francesca Mambro, Giuseppe Valerio Fioravanti e Luigi Ciavardini come autori della strage – la Rossanda dubita. «Ci sono molti conti che non tornano», dice, chiedendosi quale - a differenza di quella di Piazza Fontana dove «il quadro neofascista è plausibile» - sia la logica politica della strage.
Per quanto possa apparire sorprendente, non è la prima volta che la sinistra radicale (lo hanno fatto anche esponenti di Rifondazione) si rifiuta di confondere l’appartenenza a una parte politica con la verità e manifesta una maggiore capacità, rispetto a quella moderata, di analizzare le contraddizioni e le conseguenze di una visione ideologica della storia.
Era già accaduto, e clamorosamente, con la nascita del gruppo dei «Manifesto» e con la successiva espulsione dal Pci della stessa Rossanda, di Luigi Pintor, di Valentino Parlato e di altri, al XII congresso del partito. Anche allora, l’ala radicale ancora militante nel Pci aveva manifestato la propria insofferenza – peraltro assai diffusa in vasti strati del partito – per l’ortodossia ufficiale. Oggetto della sua contestazione era il sostanziale allineamento del partito all’Unione Sovietica, dai fatti di Berlino nel 1953, all’invasione dei carri armati sovietici dell’Ungheria nel 1956 fino alla repressione della primavera di Praga nel ’68. Alla Rossanda dobbiamo anche il conio di un’espressione («L’album di famiglia») che è rimasta nella memoria politica dei Paese e che servì a far luce sulle continuità tra le ideologie della sinistra terzinternazionalista e i proclami delle Br. Oggi, che – come dice Paolo Guzzanti – «alla sentenza per la strage di Bologna nessuno crede e ci si divide solo tra chi ha il coraggio di dirlo e chi lo nega, ma solo per motivi politici», la Rossanda e altri della sua parte politica sono fra quelli, a torto o a ragione che sia, che dicono che il re è nudo.
Si sottraggono all’uso strumentale delle verità giudiziarie e si interrogano in piena libertà su cosa sia realmente accaduto.
Si è detto e scritto molto in questi mesi sull’inconcludenza della sinistra radicale italiana, sulla sua incapacità a fare i conti fino in fondo con la responsabilità politica (penso al lungo travaglio del governo Prodi) ma da marxisti (idealisti) ortodossi, essi continuano a pensare che «la politica è la storia in azione» e a questo principio adeguano i propri comportamenti. Anche se, forse, essi non lo direbbero neppure a se stessi, sembra loro che la storia abbia fatto da tempo giustizia degli stereotipi dell’appartenenza come strumento di verità. E coltivano, almeno in questo caso, il dubbio. Una sorta di spontanea convergenza fra il relativismo garantista e liberale dei radicali e il ferreo determinismo marxiano che affida alla storia di dire quale sia stata la verità su uno dei fatti più tragici del nostro Paese. La sinistra ufficiale invece è restata preda dell’obiettivo di delegittimare chi governa e al primato della politica e del potere sacrifica la libertà intellettuale.

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