L'ipotesi viene buttata lì in un interessante articolo di ieri su La Stampa a firma Andrea Romano. Lettura piacevole, ricca di spunti per congetture anche locali (lo dico per i miei lettori brembiesi).
Crepe a sinistra
Sostiene Tremonti che «in senso storico dieci anni sono un tempo breve... in una dialettica che si sviluppa fisiologicamente nella sequenza tesi, antitesi e sintesi».
Viene da chiedersi se il neohegelismo tremontiano non sia già il catechismo ufficiale dei dirigenti del Partito democratico. Che in questi giorni mostrano di voler affidare ai tempi lunghi della storia la soluzione della malattia che li affligge, fingendo di non vedere l’esplosione di sintomi che entro pochi mesi potrebbe mandare in pezzi il Pd.
Altro che un armonico dispiegarsi di tesi, antitesi e sintesi.
Qui si moltiplicano le crepe in un edificio apparso fragile fin dall’inaugurazione e che rischia di non passare la prossima primavera, se ognuno dei maggiorenti persevererà nella strategia che si è scelto.
Quella di D’Alema è al solito la più razionale.
Dopo avere nuovamente collocato Veltroni al posto di comando come aveva già fatto nel 1998, benedicendone la carica di novità dieci anni dopo la prima investitura, ha deciso di tagliargli gli alimenti e di attenderne il completo logoramento. Quale sia la sua alternativa non è dato sapere, visto che D’Alema si guarda bene dal fare ciò che sarebbe normale in qualsiasi partito per l’appunto normale: si contesta il leader, ci si candida apertamente a prenderne il posto, si cerca il consenso necessario. Ma la normalità non sembra essere di questo mondo. E D’Alema un po’ si balocca di televisione e di filosofia, un po’ fa l’esatto contrario di quanto predica Veltroni e un po’ manda avanti ora questo ora quest’altro «junior partner» nella speranza di ripetere lo schema di cui fu vittima Piero Fassino: piazzare un segretario convinto di governare il partito ma in realtà commissariato dall’alto.
Dall’altra parte, prendersela con il povero Veltroni rischia ormai di apparire banale. Eppure non sembra esserci fine all’agonia di un leader che qualche mese dopo avere preso in mano il Pd è già costretto a rifugiarsi nella nostalgia del bel tempo che fu. Nella conferenza stampa di fine stagione, ad esempio, ha rievocato con malinconia il «perduto entusiasmo dei primi mesi» e ci ha soprattutto informato che d’ora in avanti il Pd dovrà rimpiangere il risultato raggiunto alle ultime e già disastrose elezioni. Il che significa che si prepara ad incassare risultati sempre peggiori. Formulata da un leader di partito, non è esattamente una profezia destinata ad infondere entusiasmo nei militanti o nell’opinione pubblica. Soprattutto perché somiglia molto da vicino alla verità.
Se le cose continueranno così - e non si vede perché debbano cambiare, considerando l’attuale condotta dei dirigenti - il Pd è destinato a sprofondare sia alle europee del 2009 che alle regionali del 2010.
E forse per allora la carta della nostalgia non basterà più a far scattare quel minimo di solidarietà a cui Veltroni forse puntava.
Nel frattempo già oggi il Pd mostra di non avere alcuna consistenza in importanti aree del Paese. Cos’altro significa, se non che in Campania quel partito semplicemente non esiste, l’annuncio di Bassolino di non avere intenzione di firmare la petizione contro il governo? La giustificazione è del tutto discutibile non essendo Bassolino un prefetto tenuto all’imparzialità ma un governatore eletto con pieno mandato democratico -, ma la sostanza rivela che persino la più alta carica politica di quella regione ritiene di non tenere in alcun conto le indicazioni del suo partito affidandosi invece alla benevolenza del governo pur di restare in sella. E cosa dire del rifiuto di partecipare alla festa torinese del Pd venuto ieri da Chiamparino, uno dei sindaci più autenticamente popolari del centrosinistra costretto (forse proprio per questo) a difendersi dal cannoneggiamento quotidiano del suo stesso partito? La verità è che di questo passo Veltroni sarà ricordato come il primo e ultimo segretario del Partito democratico. Colui che si era trovato per le mani una delle poche innovazioni reali della politica italiana di quest’ultimo decennio e che ha invece contribuito - in concorso con altri - a seppellirne le fragili spoglie. Colui che invece di prendere atto del disastro e di convocare un congresso per discutere linea e leadership, come avviene in tutto il mondo democratico, ha scelto di tirare a campare affidandosi ai tempi lunghi della storia. Ma il Pd non può contare sulle virtù terapeutiche della dialettica ma solo su quel coraggio delle scelte che ad oggi sembra mancare del tutto dalla visione di coloro che si trovano ancora a dirigerlo.
Viene da chiedersi se il neohegelismo tremontiano non sia già il catechismo ufficiale dei dirigenti del Partito democratico. Che in questi giorni mostrano di voler affidare ai tempi lunghi della storia la soluzione della malattia che li affligge, fingendo di non vedere l’esplosione di sintomi che entro pochi mesi potrebbe mandare in pezzi il Pd.
Altro che un armonico dispiegarsi di tesi, antitesi e sintesi.
Qui si moltiplicano le crepe in un edificio apparso fragile fin dall’inaugurazione e che rischia di non passare la prossima primavera, se ognuno dei maggiorenti persevererà nella strategia che si è scelto.
Quella di D’Alema è al solito la più razionale.
Dopo avere nuovamente collocato Veltroni al posto di comando come aveva già fatto nel 1998, benedicendone la carica di novità dieci anni dopo la prima investitura, ha deciso di tagliargli gli alimenti e di attenderne il completo logoramento. Quale sia la sua alternativa non è dato sapere, visto che D’Alema si guarda bene dal fare ciò che sarebbe normale in qualsiasi partito per l’appunto normale: si contesta il leader, ci si candida apertamente a prenderne il posto, si cerca il consenso necessario. Ma la normalità non sembra essere di questo mondo. E D’Alema un po’ si balocca di televisione e di filosofia, un po’ fa l’esatto contrario di quanto predica Veltroni e un po’ manda avanti ora questo ora quest’altro «junior partner» nella speranza di ripetere lo schema di cui fu vittima Piero Fassino: piazzare un segretario convinto di governare il partito ma in realtà commissariato dall’alto.
Dall’altra parte, prendersela con il povero Veltroni rischia ormai di apparire banale. Eppure non sembra esserci fine all’agonia di un leader che qualche mese dopo avere preso in mano il Pd è già costretto a rifugiarsi nella nostalgia del bel tempo che fu. Nella conferenza stampa di fine stagione, ad esempio, ha rievocato con malinconia il «perduto entusiasmo dei primi mesi» e ci ha soprattutto informato che d’ora in avanti il Pd dovrà rimpiangere il risultato raggiunto alle ultime e già disastrose elezioni. Il che significa che si prepara ad incassare risultati sempre peggiori. Formulata da un leader di partito, non è esattamente una profezia destinata ad infondere entusiasmo nei militanti o nell’opinione pubblica. Soprattutto perché somiglia molto da vicino alla verità.
Se le cose continueranno così - e non si vede perché debbano cambiare, considerando l’attuale condotta dei dirigenti - il Pd è destinato a sprofondare sia alle europee del 2009 che alle regionali del 2010.
E forse per allora la carta della nostalgia non basterà più a far scattare quel minimo di solidarietà a cui Veltroni forse puntava.
Nel frattempo già oggi il Pd mostra di non avere alcuna consistenza in importanti aree del Paese. Cos’altro significa, se non che in Campania quel partito semplicemente non esiste, l’annuncio di Bassolino di non avere intenzione di firmare la petizione contro il governo? La giustificazione è del tutto discutibile non essendo Bassolino un prefetto tenuto all’imparzialità ma un governatore eletto con pieno mandato democratico -, ma la sostanza rivela che persino la più alta carica politica di quella regione ritiene di non tenere in alcun conto le indicazioni del suo partito affidandosi invece alla benevolenza del governo pur di restare in sella. E cosa dire del rifiuto di partecipare alla festa torinese del Pd venuto ieri da Chiamparino, uno dei sindaci più autenticamente popolari del centrosinistra costretto (forse proprio per questo) a difendersi dal cannoneggiamento quotidiano del suo stesso partito? La verità è che di questo passo Veltroni sarà ricordato come il primo e ultimo segretario del Partito democratico. Colui che si era trovato per le mani una delle poche innovazioni reali della politica italiana di quest’ultimo decennio e che ha invece contribuito - in concorso con altri - a seppellirne le fragili spoglie. Colui che invece di prendere atto del disastro e di convocare un congresso per discutere linea e leadership, come avviene in tutto il mondo democratico, ha scelto di tirare a campare affidandosi ai tempi lunghi della storia. Ma il Pd non può contare sulle virtù terapeutiche della dialettica ma solo su quel coraggio delle scelte che ad oggi sembra mancare del tutto dalla visione di coloro che si trovano ancora a dirigerlo.
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