Oggi è il primo agosto non il primo aprile, dunque, si può partecipare alla divulgazione di una storica scoperta anche nel proprio blog: c’è acqua su Marte. Dalle rassegne stampa odierne riprendo in merito l’articolo del quotidiano La Stampa, firmato da Gabriele Beccaria.
I nuovi confini della scienza: «L’acqua di Marte è stata toccata e assaggiata».
La battuta era stata preparata? È probabile. Comunque è perfetta per un annuncio storico.
William Boynton è un professore della University of Arizona e guida il team di scienziati che la Nasa ha raccolto per la sua scoperta più grande. Sognata da sempre, misurata a distanza e fotografata in forma di ghiaccio a partire dal 2002, ora sgocciola nel mini-laboratorio della sonda «Phoenix», atterrata (anzi, ammartata) vicino al circolo polare del Pianeta Rosso.
Ci sono voluti 10 mesi di viaggio e 620 milioni di chilometri prima che il robottino americano si posasse il 25 maggio, ma alla fine il merito è di un’umile lampadina da 30 watt, quella che «ci sta dando uno show laser». Un’altra battuta, per provare a raccontare sul filo dell’emozione che cosa è successo. Il calore sviluppato in un analizzatore termico che assomiglia a una scatoletta metallica ha generato il tanto atteso vapore acqueo: mille indizi sono diventati una prova.
«L’avevamo individuata con le osservazioni del "Mars Odyssey", che si trova in orbita intorno al pianeta, e poi sotto forma di tracce di ghiaccio con lo stesso "Phoenix" il mese scorso, ma questa è la prima volta che stabiliamo un contatto», dice Boynton.
L’esplosione di gioia al Jet Propulsion Laboratory di Pasadena in California è stata tale da aver subito prodotto un effetto benigno: la vita del robot è stata prolungata, almeno fino al 30 settembre. Cinque settimane in più rispetto agli striminziti 90 giorni previsti in origine (con un copione che replica quello già visto con «Spirit» e «Opportunity», le macchinette a sei ruote che avrebbero dovuto limitarsi a un fugace blitz tra sassi e crateri e che, invece, da quattro anni continuano a macinare chilometri).
«"Phoenix" va alla grande e quindi vogliamo approfittarne, ora che si trova in una delle zone marziane più interessanti», ha fatto sapere il «chief scientist» Michael Meyer, capo del programma di esplorazione al quartier generale dell`ente spaziale americano a Washington.
Se c’è una lampadina dietro il successo, la sua energia non avrebbe scoperto nulla, se non avesse funzionato il «braccio» snodato che in queste settimane ha pazientemente lavorato per grattare la superficie, scavarla fino a una profondità di sei centimetri e depositare pochi grammi nerastri all’interno della «cameretta» che nel gergo della Nasa si chiama «Tega», vale a dire Thermal and Evolved-Gas Analyzer.
Non è stato facile. Fare solletico al Pianeta Rosso significa affrontare una superficie ostile e ghiacciata. E infatti due tentativi erano andati a vuoto: la simil-fanghiglia appena strappata era rimasta attaccata al cucchiaio del braccio e solo alla terza prova è riuscita la cattura del campione.
«Quante sorprese a ripetizione! - ha esclamato Peter Smith, della University of Arizona -. Una arriva anche da come si comporta il suolo».
In nessuna simulazione era stato previsto che fosse una colla dispettosa.
E ora comincia il bello. Il laboratorio chimico, i microscopi ottici e atomici, la fotocamera a visione stereoscopica devono coalizzare le forze per decifrare le goccioline: contengono le sostanze di base per un brodino primordiale in grado ospitare la vita?
I nuovi confini della scienza: «L’acqua di Marte è stata toccata e assaggiata».
La battuta era stata preparata? È probabile. Comunque è perfetta per un annuncio storico.
William Boynton è un professore della University of Arizona e guida il team di scienziati che la Nasa ha raccolto per la sua scoperta più grande. Sognata da sempre, misurata a distanza e fotografata in forma di ghiaccio a partire dal 2002, ora sgocciola nel mini-laboratorio della sonda «Phoenix», atterrata (anzi, ammartata) vicino al circolo polare del Pianeta Rosso.
Ci sono voluti 10 mesi di viaggio e 620 milioni di chilometri prima che il robottino americano si posasse il 25 maggio, ma alla fine il merito è di un’umile lampadina da 30 watt, quella che «ci sta dando uno show laser». Un’altra battuta, per provare a raccontare sul filo dell’emozione che cosa è successo. Il calore sviluppato in un analizzatore termico che assomiglia a una scatoletta metallica ha generato il tanto atteso vapore acqueo: mille indizi sono diventati una prova.
«L’avevamo individuata con le osservazioni del "Mars Odyssey", che si trova in orbita intorno al pianeta, e poi sotto forma di tracce di ghiaccio con lo stesso "Phoenix" il mese scorso, ma questa è la prima volta che stabiliamo un contatto», dice Boynton.
L’esplosione di gioia al Jet Propulsion Laboratory di Pasadena in California è stata tale da aver subito prodotto un effetto benigno: la vita del robot è stata prolungata, almeno fino al 30 settembre. Cinque settimane in più rispetto agli striminziti 90 giorni previsti in origine (con un copione che replica quello già visto con «Spirit» e «Opportunity», le macchinette a sei ruote che avrebbero dovuto limitarsi a un fugace blitz tra sassi e crateri e che, invece, da quattro anni continuano a macinare chilometri).
«"Phoenix" va alla grande e quindi vogliamo approfittarne, ora che si trova in una delle zone marziane più interessanti», ha fatto sapere il «chief scientist» Michael Meyer, capo del programma di esplorazione al quartier generale dell`ente spaziale americano a Washington.
Se c’è una lampadina dietro il successo, la sua energia non avrebbe scoperto nulla, se non avesse funzionato il «braccio» snodato che in queste settimane ha pazientemente lavorato per grattare la superficie, scavarla fino a una profondità di sei centimetri e depositare pochi grammi nerastri all’interno della «cameretta» che nel gergo della Nasa si chiama «Tega», vale a dire Thermal and Evolved-Gas Analyzer.
Non è stato facile. Fare solletico al Pianeta Rosso significa affrontare una superficie ostile e ghiacciata. E infatti due tentativi erano andati a vuoto: la simil-fanghiglia appena strappata era rimasta attaccata al cucchiaio del braccio e solo alla terza prova è riuscita la cattura del campione.
«Quante sorprese a ripetizione! - ha esclamato Peter Smith, della University of Arizona -. Una arriva anche da come si comporta il suolo».
In nessuna simulazione era stato previsto che fosse una colla dispettosa.
E ora comincia il bello. Il laboratorio chimico, i microscopi ottici e atomici, la fotocamera a visione stereoscopica devono coalizzare le forze per decifrare le goccioline: contengono le sostanze di base per un brodino primordiale in grado ospitare la vita?
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