Se un giornale non riesce a mantenersi col venduto e con la pubblicità, cioè semplicemente non ha lettori, non si comprende perché debba continuare ad esistere a spese dello stato, e, dunque, a spese di tutti noi che mai minimamente ci sfiora l’idea di comperarne una copia. E se è un giornale di partito a maggior ragione, visto il lauto banchetto che il suo partito è solito imbandire con i soldi pubblici – pubblici vuol dire di tutti, sarà il caso di farne un “delenda Carthago”, un tormentone, perché deve entrarci nella testa che soldi pubblici significa soldi tirati fuori dalle nostre tasche.
A maggior ragione nell’epoca di Internet, spazio c’è ne a bizzeffe per dire la propria, e, dunque, chi lamenta la cosa come un vulnus alla libertà di stampa o di espressione, non solo è un ipocrita ma un mendace imbonitore soprattutto se è un giornalista che dovrebbe invece dire “eticamente” le cose come stanno. Attualmente i giornali si spartiscono un’abbondante fetta di finanziamenti statali, che sarà ridotta, forse, ma dovrebbe essere azzerata se non vivessimo in un luogo che molto somiglia alla Repubblica delle banane. Riduzione, e dunque corporazione all’attacco, Avanti Savoia!
Da La Repubblica di sabato 2 agosto 2008 riprendo il pianto greco, pardon, l’articolo che segue di Mauro Favale, titolo: «Il Senato ha approvato ieri il taglio ai fondi destinati alla stampa di partito e alle cooperative. Scure sui finanziamenti all’editoria. "Così molti quotidiani chiuderanno"», che si fa portatore delle preoccupazioni della corporazione e di quanti vivono del sostentamento pubblico alla distruzione inutile di tanti alberi. Soldi che potrebbero meglio essere impiegati, ad esempio, nel comparto dei beni culturali per restare all’editoria, meglio alla conservazione del patrimonio librario che è una delle ricchezze di questo Paese. Ecco il testo, quelli fra parentesi quadre sono come al solito incisi miei:
Il più antico è Il Corriere Mercantile: 150 anni di cronache genovesi. Ma l’elenco è lungo: il manifesto, Liberazione, Il Secolo d’Italia, La Padania, L’Avvenire.
Testate locali come Il Corriere di Romagna, La Voce di Mantova, la Cronaca di Cremona, il Primorski dnevnik, quotidiano della minoranza slovena [toh, c’è qualcuno che si ricorda che esistono gli sloveni!]. Tutti giornali a rischio chiusura. L’allarme è generalizzato. I tagli all’editoria di partito e ai giornali editi da cooperative, approvati ieri al Senato, mettono in crisi un intero comparto del settore editoriale. Meno 83 milioni per il 2009; meno 100 per il 2010. Il fondo per l’editoria della Presidenza del Consiglio sempre più esiguo. E, a fronte di una richiesta di fabbisogno di 580 milioni di curo l’anno, le 27 cooperative di giornalisti, i 52 quotidiani, le riviste no-profit e di partito si dovranno dividere 387 milioni l’anno, per il prossimo biennio.
Tutti rischiano pesanti ridimensionamenti.
Compresi Libero e Il Foglio, anch’essi beneficiari di contributi diretti. Ed è proprio sull’aggettivo ("diretti") che si è giocata la partita dei tagli e si gioca quella della polemica. Ieri, il manifesto, Liberazione, L’Avvenire denunciavano l’iniquità del provvedimento: restano intatti i contributi indiretti (sulle spedizioni postali, ad esempio) suddivisi anche fra i grandi gruppi editoriali (Mondadori, Rcs e Sole 24 ore in testa). Scompare il diritto soggettivo, un contributo statale fisso erogato in base alla tiratura e alle vendite, un aiuto ai giornali più piccoli. Anche i leghisti [citare i leghisti è diventato il massimo del sostegno!] hanno chiesto una marcia indietro. Giulio Tremonti, però, è stato irremovibile.
Forse, qualcosa verrà recuperato, sotto forma di una tantum, in Finanziaria. Ieri hanno protestato Melandri, Carra e Lumia, tutti del Pd [ma guarda].
Intanto i giornali provano a studiare la situazione e a correre ai ripari.
Gabriele Polo, direttore del manifesto non si nasconde: «Siamo messi malissimo», racconta. E i giornalisti del quotidiano comunista sono «preoccupati» ma «non abbattuti». «Siamo abituati ai sacrifici - spiega Polo - ma quello che ci impensierisce di più è il clima politico che si è venuto a creare. Sono anni che i contributi all’editoria vengono ridiscussi. Ma stavolta non ci sono solo i vincoli di bilancio a determinare riduzioni indiscriminate dei fondi».
Per Polo una delle cause è «la campagna d’opinione che porta a considerare questi finanziamenti un lusso. Se non un’ingiustizia». Il direttore del manifesto pensa a Beppe Grillo? «Anche a Grillo, sì. E a chi considera l’informazione una merce. Per noi è un bene pubblico. Solo che questo governo fa di più. È evidente la volontà di penalizzare la libertà d’espressione».
Al manifesto, però, non si metteranno a tagliare. «Non celo possiamo permettere - continua il direttore - non sugli stipendi, 1200 euro per tutti, fatto salvo gli scatti di anzianità. Quest’anno, paradossalmente, per la prima volta i costi industriali hanno anche superato il costo del lavoro. Il 70% delle nostre entrate proviene dalle vendite, il 20% dai contributi, il resto dalla pubblicità». Poi, Polo, stila una strategia anti-crisi: «Chiederemo ancora aiuto ai lettori. A settembre partirà una mobilitazione; la nostra linea editoriale punterà su questo. Ci saranno manifestazioni. E non rimarremo confinati nel nostro campo: anche dall’altra parte ci sono giornali in difficoltà».
Su Liberazione di ieri, il direttore Piero Sansonetti è stato durissimo: «E la fine della stampa di sinistra in questo Paese, 63 anni dopo la caduta del fascismo», ha scritto su Liberazione Piero Sansonetti [non sarà che se la “stampa di sinistra” scompare è perché la “sinistra” è scomparsa?].
Sull’Unità, Furio Colombo, sottolineava come la decisione sia stata presa «dal titolare del più grande conflitto di interessi del mondo» [già, che altro poteva dire Colombo Furio?]. E anche Avvenire, come già il manifesto due giorni fa, denunciava ieri «una sola clamorosa eccezione: quella sgargiante corazza antitagli confezionata appositamente per Radio Radicale».
Il governo, infatti, ha salvato dalla scure l’emittente, mantenendo per intero i 4 milioni annui che spettano alla radio (che ne riceve altri 10 dal Parlamento).
Massimo Bordin, direttore di Radio Radicale, due giorni fa, dai microfoni dell’emittente, sottolineava come sia «tutto trasparente. Speriamo che ci siano fondi per tutti». Ieri ha commentato: «Per tutti sarebbe stato meglio lasciare le cose come stavano».
A maggior ragione nell’epoca di Internet, spazio c’è ne a bizzeffe per dire la propria, e, dunque, chi lamenta la cosa come un vulnus alla libertà di stampa o di espressione, non solo è un ipocrita ma un mendace imbonitore soprattutto se è un giornalista che dovrebbe invece dire “eticamente” le cose come stanno. Attualmente i giornali si spartiscono un’abbondante fetta di finanziamenti statali, che sarà ridotta, forse, ma dovrebbe essere azzerata se non vivessimo in un luogo che molto somiglia alla Repubblica delle banane. Riduzione, e dunque corporazione all’attacco, Avanti Savoia!
Da La Repubblica di sabato 2 agosto 2008 riprendo il pianto greco, pardon, l’articolo che segue di Mauro Favale, titolo: «Il Senato ha approvato ieri il taglio ai fondi destinati alla stampa di partito e alle cooperative. Scure sui finanziamenti all’editoria. "Così molti quotidiani chiuderanno"», che si fa portatore delle preoccupazioni della corporazione e di quanti vivono del sostentamento pubblico alla distruzione inutile di tanti alberi. Soldi che potrebbero meglio essere impiegati, ad esempio, nel comparto dei beni culturali per restare all’editoria, meglio alla conservazione del patrimonio librario che è una delle ricchezze di questo Paese. Ecco il testo, quelli fra parentesi quadre sono come al solito incisi miei:
Il più antico è Il Corriere Mercantile: 150 anni di cronache genovesi. Ma l’elenco è lungo: il manifesto, Liberazione, Il Secolo d’Italia, La Padania, L’Avvenire.
Testate locali come Il Corriere di Romagna, La Voce di Mantova, la Cronaca di Cremona, il Primorski dnevnik, quotidiano della minoranza slovena [toh, c’è qualcuno che si ricorda che esistono gli sloveni!]. Tutti giornali a rischio chiusura. L’allarme è generalizzato. I tagli all’editoria di partito e ai giornali editi da cooperative, approvati ieri al Senato, mettono in crisi un intero comparto del settore editoriale. Meno 83 milioni per il 2009; meno 100 per il 2010. Il fondo per l’editoria della Presidenza del Consiglio sempre più esiguo. E, a fronte di una richiesta di fabbisogno di 580 milioni di curo l’anno, le 27 cooperative di giornalisti, i 52 quotidiani, le riviste no-profit e di partito si dovranno dividere 387 milioni l’anno, per il prossimo biennio.
Tutti rischiano pesanti ridimensionamenti.
Compresi Libero e Il Foglio, anch’essi beneficiari di contributi diretti. Ed è proprio sull’aggettivo ("diretti") che si è giocata la partita dei tagli e si gioca quella della polemica. Ieri, il manifesto, Liberazione, L’Avvenire denunciavano l’iniquità del provvedimento: restano intatti i contributi indiretti (sulle spedizioni postali, ad esempio) suddivisi anche fra i grandi gruppi editoriali (Mondadori, Rcs e Sole 24 ore in testa). Scompare il diritto soggettivo, un contributo statale fisso erogato in base alla tiratura e alle vendite, un aiuto ai giornali più piccoli. Anche i leghisti [citare i leghisti è diventato il massimo del sostegno!] hanno chiesto una marcia indietro. Giulio Tremonti, però, è stato irremovibile.
Forse, qualcosa verrà recuperato, sotto forma di una tantum, in Finanziaria. Ieri hanno protestato Melandri, Carra e Lumia, tutti del Pd [ma guarda].
Intanto i giornali provano a studiare la situazione e a correre ai ripari.
Gabriele Polo, direttore del manifesto non si nasconde: «Siamo messi malissimo», racconta. E i giornalisti del quotidiano comunista sono «preoccupati» ma «non abbattuti». «Siamo abituati ai sacrifici - spiega Polo - ma quello che ci impensierisce di più è il clima politico che si è venuto a creare. Sono anni che i contributi all’editoria vengono ridiscussi. Ma stavolta non ci sono solo i vincoli di bilancio a determinare riduzioni indiscriminate dei fondi».
Per Polo una delle cause è «la campagna d’opinione che porta a considerare questi finanziamenti un lusso. Se non un’ingiustizia». Il direttore del manifesto pensa a Beppe Grillo? «Anche a Grillo, sì. E a chi considera l’informazione una merce. Per noi è un bene pubblico. Solo che questo governo fa di più. È evidente la volontà di penalizzare la libertà d’espressione».
Al manifesto, però, non si metteranno a tagliare. «Non celo possiamo permettere - continua il direttore - non sugli stipendi, 1200 euro per tutti, fatto salvo gli scatti di anzianità. Quest’anno, paradossalmente, per la prima volta i costi industriali hanno anche superato il costo del lavoro. Il 70% delle nostre entrate proviene dalle vendite, il 20% dai contributi, il resto dalla pubblicità». Poi, Polo, stila una strategia anti-crisi: «Chiederemo ancora aiuto ai lettori. A settembre partirà una mobilitazione; la nostra linea editoriale punterà su questo. Ci saranno manifestazioni. E non rimarremo confinati nel nostro campo: anche dall’altra parte ci sono giornali in difficoltà».
Su Liberazione di ieri, il direttore Piero Sansonetti è stato durissimo: «E la fine della stampa di sinistra in questo Paese, 63 anni dopo la caduta del fascismo», ha scritto su Liberazione Piero Sansonetti [non sarà che se la “stampa di sinistra” scompare è perché la “sinistra” è scomparsa?].
Sull’Unità, Furio Colombo, sottolineava come la decisione sia stata presa «dal titolare del più grande conflitto di interessi del mondo» [già, che altro poteva dire Colombo Furio?]. E anche Avvenire, come già il manifesto due giorni fa, denunciava ieri «una sola clamorosa eccezione: quella sgargiante corazza antitagli confezionata appositamente per Radio Radicale».
Il governo, infatti, ha salvato dalla scure l’emittente, mantenendo per intero i 4 milioni annui che spettano alla radio (che ne riceve altri 10 dal Parlamento).
Massimo Bordin, direttore di Radio Radicale, due giorni fa, dai microfoni dell’emittente, sottolineava come sia «tutto trasparente. Speriamo che ci siano fondi per tutti». Ieri ha commentato: «Per tutti sarebbe stato meglio lasciare le cose come stavano».
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