venerdì 8 agosto 2008

I paradossi dell'Inno di Mameli

Come il ritorno di un eclissi o di qualche altro evento cosmico, così periodicamente rispunta la polemica sull’inno nazionale, che diciamocelo, esteticamente, poeticamente e musicalmente, non è cosa all’altezza della tradizione cultural-musicale della penisola. Genova in tempi recenti ha prodotto in ambito musicale e poetico cose migliori.
A rilanciare la polemica questa volta, come si sa, è stato Umberto Bossi. L’inno di Mameli va detto subito è un inno antiaustriaco e antirusso, Austria asburgica e Russia zarista, basti l’ultima strofa: «Son giunchi che piegano / Le spade vendute: / Già l'Aquila d'Austria / Le penne ha perdute. / Il sangue d'Italia, / Il sangue Polacco, / Bevé, col cosacco, / Ma il cor le bruciò.». Il Canto degli Italiani – questo il titolo dell’inno – nacque nel clima di fervore patriottico del tempo (autunno 1847) che preludeva alla guerra contro l'Austria. Ironia della sorte l’inno descrive la reale situazione italiana, vera ancora oggi – e pertanto ciò lo fa degno di rappresentare lo stato non-nazione costruito con le armi e alleanze straniere dai Savoia un secolo e mezzo fa, di cui la nostra repubblica è l’attuale gestore. Bossi se l’è presa con quel “Ché schiava di Roma / Iddio la creò”, ovviamente fraintendendo il richiamo storico così bene enfatizzato successivamente dal fascismo mussoliniano. Perché il riferimento è alla “Vittoria” non all’Italia, e che all’antica Roma la vittoria abbia arriso per lungo tempo è dato assodato. Roma ladrona non c’entra nulla. E non ha colto e non coglie quella perfetta radiografia della popolazione italica vera allora ma vera ancora oggi: “Noi siamo da secoli / Calpesti, derisi, / Perché non siam popolo, / Perché siam divisi”. Appunto, anche se tutto l’inno è un invito ad unirsi sotto un’unica bandiera o, ciò che forse più conta, sotto un’unica speranza, questo non è avvenuto seppure sforzi per omogeneizzare il paese siano stati fatti e tanti, dall’imposizione di un’unica lingua alla leva obbligatoria che oltre a fornire carne da cannone all’espansionismo sabaudo prima, sabaudo-fascista dopo, aveva il compito secondario ma fondamentale di “mescolare” le diverse popolazioni che abitano la penisola. Nonostante l’azione di repressione linguistica operata dalla radio prima e grandemente oggi dalla televisione repubblicana con l’attuale esperanto italiano – derivato dal linguaggio italiano letterario – che tutti usiamo – che anch’io uso nello scrivere questo post – il perdurare delle parlate locali derivanti dal latino sono un fossile guida che alle soglie del terzo millennio indica ancora che l’Italia è sempre quella di Mameli, un’idea astratta che continua a chiamare gli italici all’unione.
Ma ancora un altro richiamo contenuto nell’inno non viene colto da Bossi, il paradosso che rafforzerebbe anzi l’idea leghista: l’inno esalta le più note rivolte popolari, di singole popolazioni, contro l’Impero, dando a quest’ultimo termine il giusto significato di “insieme dei paesi sottoposti ad un’unica autorità”, com’era l’impero romano per capirci, come può essere intesa dai leghisti l’Italia oggi. Così c’è il richiamo alla battaglia di Legnano del 1176, in cui la Lega Lombarda sconfisse Barbarossa: “Dall'Alpi a Sicilia / Dovunque è Legnano”; alla difesa della Repubblica di Firenze, assediata dall'esercito imperiale di Carlo V nel 1530, di cui fu simbolo il capitano Francesco Ferrucci, quello ucciso da tal Fabrizio Maramaldo: “Ogn'uom di Ferruccio / Ha il core, ha la mano”; all'insurrezione del popolo di Palermo contro i Francesi di Carlo d'Angiò, la sera del 30 marzo 1282, i cosiddetti Vespri Siciliani: “Il suon d'ogni squilla / I Vespri suonò”. Ma paradosso nel paradosso i versi “I bimbi d'Italia / Si chiaman Balilla”, che detti così richiamano più il ventennio che ben seppe usare tutti i riferimenti storici per la legittimazione dell’Italia fascista. Ma nella realtà delle cose, essi fanno riferimento alla rivolta popolare di Genova contro la coalizione austro-piemontese. Balilla, o Giovan Battista Perasso, secondo la tradizione, è il giovane da cui il 5 dicembre 1746 prese le mosse la rivolta popolare contro gli occupanti nel quartiere genovese di Portoria. La popolazione fu incitata dal ragazzo a sollevarsi con il lancio di un sasso contro le truppe austro-piemontesi che occupavano la città sotto il comando del ministro plenipotenziario Antoniotto Botta Adorno. Genova a quel tempo era alleata con i francesi e gli spagnoli.
Avete letto bene: austro-piemontesi. Sì perché i Savoia che, come disse Luigi XIV, “non terminano mai una guerra sotto la stessa bandiera con cui l'hanno iniziata”, erano alleati allora degli austriaci. Da qui il paradosso che la rivolta di Genova fu una rivolta popolare, la prima, contro chi successivamente avrebbe riunito in un unico stato tutte le genti della penisola. Un’alleanza quella citata che in molti fanno finta di dimenticare, evidentemente a cominciare dal Mameli stesso che sposa la propria parte (i piemontesi) contro l’altra parte (gli austriaci) perché nell’economia dell’inno il nemico è lo “straniero”.
[Di palo in frasca, una battuta conseguente, una sciocchezza, ma in appendice permettetemela: perché tanti lai contro l’inasprimento delle misure verso i clandestini extracomunitari quando ci si ritrova dietro un inno fondante che è fondamentalmente antistraniero? Dite la verità, non ci avete mai pensato?].

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