giovedì 7 agosto 2008

I rebus del federalismo fiscale

«Un federalismo e tre domande» è l’articolo di Stefano Micossi pubblicato ieri sul Sole 24 Ore. Di seguito il testo in cui “federalismo” è da intendersi come “federalismo fiscale”:

La discussione sul federalismo sta accelerando il passo. La bozza preparata dal ministro Calderoli cerca di combinare un disegno ambizioso di autonomia con un sentiero realistico di transizione. Tuttavia, mi pare che resti ancora in ombra una questione centrale, quella delle risorse, che riassumerei in tre domande: quanto si intende sottrarre alle finanze dello Stato per trasferirlo alle Regioni e agli altri enti locali, quanto si intende trasferire tra le Regioni, che cosa accadrà alle Regioni meridionali.
La risposta alla prima domanda quanto dallo Stato centrale alle Regioni - è relativamente semplice, almeno sul piano concettuale, se il decentramento è "guidato" dalle funzioni. Ad esempio, si trasferisce alle Regioni la spesa pubblica per l’istruzione e contestualmente si assegnano loro le risorse e il personale che ora si occupa d’istruzione a livello centrale. Naturalmente, se non si applicherà in maniera rigorosa il principio di cancellare un euro di spesa al centro per ogni curo di spesa attribuito alla periferia, ne deriverà un aumento della spesa pubblica totale; ma questa è una questione pratica e politica, l’impostazione non scardina le finanze statali.
Completamente diverso è il caso in cui il processo di decentramento sia "guidato" dalle risorse: ad esempio, se si seguisse l’originario progetto lombardo di federalismo, ogni Regione potrebbe trattenere una quota predeterminata del gettito raccolto sul suo territorio, indipendentemente dal fabbisogno finanziario per le funzioni trasferite.
Una traccia di questa impostazione appare nella bozza Calderoli, che fissa il seguente principio direttivo per i decreti delegati: «una riduzione dell’imposizione fiscale statale in misura adeguata alla più ampia autonomia di entrata di Regioni ed enti locali e corrispondente riduzione delle risorse statali umane e strumentali» (articolo 2, 2u).
Poiché i conti dello Stato italiano sono piuttosto dissestati, e non vi sono risorse libere da trasferire, la questione non può essere risolta con un tratto di penna: se si decide di togliere risorse allo Stato centrale, si dovrà contestualmente indicare quali spese verranno tagliate - non dimenticando che le spese per gli interessi sul debito pubblico e la spesa previdenziale non sono immediatamente comprimibili, mentre il taglio di altre spese, ad esempio quelle per la difesa e la sicurezza, può risultare in contrasto con le priorità del Governo. Inoltre, se si trasferiscono alle Regioni risorse "libere", slegate da impegni di spesa prima soddisfatti dallo Stato, è probabile che ciò conduca a un aumento della spesa pubblica.
Anche la seconda domanda - quante risorse potranno esser trasferite tra le Regioni attraverso i meccanismi perequativi - pone questioni complesse.
Una mia tabella pubblicata su questo giornale il 25 luglio metteva in luce le enormi disparità di trattamento nei trasferimenti dello Stato alle Regioni. Basti ricordare che, mentre i trasferimenti dello Stato alle Regioni ordinarie si aggirano intorno ai 2.400 euro pro-capite, la media per le Regioni a statuto speciale è di 4350 euro, con valori di 11mila euro per la Valle d`Aosta, 8.900 e 7.300 euro rispettivamente per le Province autonome di Bolzano e Trento, 5.100 per la Sardegna.
La Sicilia, che ha oltre 5 milioni di abitanti, riceve circa 3.200 euro pro-capite: non solo trattiene integralmente le entrate fiscali raccolte sul suo territorio (e ancora ne pretende), ma riceve in aggiunta 4,5 miliardi di trasferimenti dallo Stato. La qualità disastrosa dei servizi sanitari, il numero dei dipendenti della regione (ben 23mila) e gli stipendi dei parlamentari regionali (di gran lunga i più alti d’Italia) la dicono lunga sull’utilizzo di questo denaro.
Evidentemente, come ha sottolineato il ministro Brunetta, è difficile immaginare che un sistema federale possa essere costruito mantenendo simili differenze di trattamento: le Regioni a statuto speciale dovranno sobbarcarsi non solo una quota adeguata della perequazione a favore delle Regioni più povere, ma anche la loro quota implicita del servizio del debito pubblico e della previdenza, spese delle quali non si tenne conto quando venne disegnato il loro ordinamento.

Infine, non si può ignorare che l’adozione del criterio dei costi standard implica in prospettiva un calo dei trasferimenti alle Regioni del Mezzogiorno, dove i servizi costano più cari, essenzialmente perché si moltiplicano i posti di lavoro pubblici, ma sono di qualità peggiore. Secondo me, l’applicazione del metodo dei costi standard non può fare che bene, perché ridurrà la dissipazione di risorse pubbliche, il clientelismo e la corruzione. Ma politicamente non sarà una passeggiata, in particolare in quelle aree dove la maggioranza di governo attrae ingenti consensi con strumenti clientelari. La compensazione virtuosa può venire dalla ripresa degli investimenti nelle infrastrutture del Mezzogiorno - come il Governo ha annunciato di voler fare abbandonando la disastrosa frammentazione degli interventi per lo sviluppo che si è verificata da quando la gestione dei fondi europei è stata affidata alle Regioni.
Quando il Parlamento inizierà a discutere il disegno di legge sul federalismo, queste tre domande non potranno essere eluse, dovranno trovare risposte esplicite nella legge approvata in Parlamento. Affidarne la soluzione a compromessi opachi nella redazione dei decreti delegati sarebbe un tragico errore, perché potrebbe destabilizzare la finanza pubblica e creare tensioni insostenibili tra le diverse parti del Paese.

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