«Federalismo, ecco la vera sfida» è un articolo di Angelo Maria Petroni pubblicato da Il Messaggero di oggi, lunedì 11 agosto 2008. Interessantissimo, vediamolo senza commenti:
La questione federale è diventata l’orizzonte ineludibile del sistema politico italiano. Su questo oramai sembrano esservi pochi dissensi, sia da parte di chi vi è favorevole sia da parte di chi vi è contrario. Tuttavia la dimensione ideologica del federalismo sembra ancora prevalere fortemente su quella conoscitiva e tecnica. Può essere quindi utile richiamare alcuni fatti. Il primo fatto è che ovunque nel mondo i Paesi con una struttura dello Stato di natura federale, sono in genere più prosperi dei Paesi che hanno una struttura dello Stato di stampo centralistico.
Il secondo fatto riguarda il processo di decentramento degli ultimi anni.
Nella grandissima parte dei Paesi occidentali negli ultimi due decenni si è assistito ad un forte processo di trasferimento dei poteri dallo Stato centrale ad entità territorialmente e funzionalmente più limitate. Questo processo ha preso la forma del "ritorno dei poteri" dal governo federale agli Stati negli Usa, della "devoluzione" nel Regno Unito, della creazione delle comunità regionali in Spagna, della creazione delle regioni in Francia (il prototipo stesso dello Stato centralistico!), dell’ampliarsi dei poteri dei Laender in Germania. Il processo ha rovesciato una tendenza verso la centralizzazione durata per due secoli almeno, e che ha riguardato tutti gli Stati, sia quelli unitari che quelli federali.
Il terzo fatto è che i Paesi che più si sono spinti sulla via del trasferimento dei poteri dal "centro" alla "periferia" sono quelli che hanno avuto il maggior sviluppo economico. Si pensi alla Gran Bretagna, ma si pensi anche alla Spagna, ove il 60% della spesa pubblica avviene a livello regionale. Si badi bene: lo sviluppo non ha riguardato soltanto le regioni che erano già le più sviluppate, ma ha riguardato anche, e soprattutto, le regioni che erano più povere. In Spagna l’Andalusia, regione povera del Sud, si è sviluppata proporzionalmente più della già ricca Catalogna. Lo stesso è vero negli Stati Uniti. Quando il governo centrale di Washington ha fatto un passo indietro, restituendo molti dei poteri che aveva centralizzato a partire dal New Deal, a svilupparsi maggiormente sono state proprio le aree meno prospere: ad esempio, gli Stati del Sud, tant’è che oggi il flusso migratorio interno non va da suda nord, come una volta, ma da nord a sud.
Il quarto fatto è che, mentre alla centralizzazione degli Stati che si è avuta per la gran parte del secolo scorso ha corrisposto un incremento delle dimensioni della spesa pubblica, anche per la burocrazia, gli elementi di federalismo che sono stati introdotti negli ultimi venti anni nei principali Paesi dell’Ocse hanno portato comparativamente ad un contenimento (almeno) della dinamica della spesa pubblica.
Non è certamente un caso se tutti i grandi organismi internazionali raccomandano il decentramento federalista per migliorare la qualità della governance, per contenere la spesa pubblica, e per favorire la crescita economica.
L’evidenza empirica dimostra due ulteriori fatti fondamentali a favore della trasformazione in senso federale degli Stati centralizzati. Il primo è che il decentramento federale permette di produrre dei "beni pubblici", come la sanità, l’istruzione, i servizi sociali, che meglio corrispondono alle vere esigenze dei cittadini. Il secondo è che un’amministrazione federale è più trasparente, e diminuisce il grado di corruzione. Tutto ciò non può sorprendere, perché il federalismo aumenta la partecipazione ed il controllo da parte dei cittadini e delle imprese sul governo e sulla pubblica amministrazione.
La differenza tra stati federali e stati centralizzati sta in due fenomeni distinti e collegati. Il primo di essi è che i cittadini, attraverso la comparazione con quanto viene offerto dai sistemi vicini, dispongono di un’informazione sull’efficienza e l’efficacia del proprio sistema della quale non potrebbero disporre - o disporrebbero in maniera molto meno chiara e diffusa - in uno Stato centralizzato. Il secondo di essi è che la limitata dimensione delle entità federate rende comparativamente poco costoso lo spostamento delle persone e delle attività produttive in altre aree. In tal modo i cittadini hanno un metodo ulteriore a quello dei voto di sanzione per controllare che il governo applichi il programma con il quale è stato eletto. Inoltre le possibilità di estrazione della rendita politica, con la creazione di privilegi per le maggioranze a scapito delle minoranze, viene ad essere ridotta. L’analisi di numerosi casi mostra come gli effetti congiunti dell’informazione e della possibilità di migrazione rendano le politiche delle entità in competizione molto sensibili alle preferenze dei cittadini. Questo effetto si verifica anche in casi in cui i sistemi tra i quali gli individui possono scegliere sono rappresentati da Stati sovrani, in presenza di bassi costi di spostamento dall’uno all’altro.
Questo non significa che il federalismo, politico e fiscale, comporti automaticamente una diminuzione della spesa pubblica, e quindi della tassazione. Tutto dipende da quali sono le preferenze dei cittadini. E perfettamente possibile, e perfettamente apprezzabile, che in alcune entità federate (in Italia, le Regioni) i cittadini vogliano più servizi pubblici, e quindi siano disposti a pagare maggiori imposte per finanziarli.
Il fatto fondamentale è che un più alto livello della spesa pubblica, e quindi della tassazione, sia il risultato di una scelta consapevole ed informata dei cittadini, non di un processo guidato dalla logica degli interessi di parte e della rendita politica, a livello locale o nazionale.
Attribuire al federalismo un inevitabile aumento della spesa pubblica, come si sente spesso affermare oggi di fronte alla introduzione del federalismo fiscale, è quindi un errore.
Domanda: perché ciò che si è prodotto pressoché ovunque nel mondo non dovrebbe prodursi anche in Italia? L’onere della prova spetta decisamente a chi sostiene la tesi contraria.
La questione federale è diventata l’orizzonte ineludibile del sistema politico italiano. Su questo oramai sembrano esservi pochi dissensi, sia da parte di chi vi è favorevole sia da parte di chi vi è contrario. Tuttavia la dimensione ideologica del federalismo sembra ancora prevalere fortemente su quella conoscitiva e tecnica. Può essere quindi utile richiamare alcuni fatti. Il primo fatto è che ovunque nel mondo i Paesi con una struttura dello Stato di natura federale, sono in genere più prosperi dei Paesi che hanno una struttura dello Stato di stampo centralistico.
Il secondo fatto riguarda il processo di decentramento degli ultimi anni.
Nella grandissima parte dei Paesi occidentali negli ultimi due decenni si è assistito ad un forte processo di trasferimento dei poteri dallo Stato centrale ad entità territorialmente e funzionalmente più limitate. Questo processo ha preso la forma del "ritorno dei poteri" dal governo federale agli Stati negli Usa, della "devoluzione" nel Regno Unito, della creazione delle comunità regionali in Spagna, della creazione delle regioni in Francia (il prototipo stesso dello Stato centralistico!), dell’ampliarsi dei poteri dei Laender in Germania. Il processo ha rovesciato una tendenza verso la centralizzazione durata per due secoli almeno, e che ha riguardato tutti gli Stati, sia quelli unitari che quelli federali.
Il terzo fatto è che i Paesi che più si sono spinti sulla via del trasferimento dei poteri dal "centro" alla "periferia" sono quelli che hanno avuto il maggior sviluppo economico. Si pensi alla Gran Bretagna, ma si pensi anche alla Spagna, ove il 60% della spesa pubblica avviene a livello regionale. Si badi bene: lo sviluppo non ha riguardato soltanto le regioni che erano già le più sviluppate, ma ha riguardato anche, e soprattutto, le regioni che erano più povere. In Spagna l’Andalusia, regione povera del Sud, si è sviluppata proporzionalmente più della già ricca Catalogna. Lo stesso è vero negli Stati Uniti. Quando il governo centrale di Washington ha fatto un passo indietro, restituendo molti dei poteri che aveva centralizzato a partire dal New Deal, a svilupparsi maggiormente sono state proprio le aree meno prospere: ad esempio, gli Stati del Sud, tant’è che oggi il flusso migratorio interno non va da suda nord, come una volta, ma da nord a sud.
Il quarto fatto è che, mentre alla centralizzazione degli Stati che si è avuta per la gran parte del secolo scorso ha corrisposto un incremento delle dimensioni della spesa pubblica, anche per la burocrazia, gli elementi di federalismo che sono stati introdotti negli ultimi venti anni nei principali Paesi dell’Ocse hanno portato comparativamente ad un contenimento (almeno) della dinamica della spesa pubblica.
Non è certamente un caso se tutti i grandi organismi internazionali raccomandano il decentramento federalista per migliorare la qualità della governance, per contenere la spesa pubblica, e per favorire la crescita economica.
L’evidenza empirica dimostra due ulteriori fatti fondamentali a favore della trasformazione in senso federale degli Stati centralizzati. Il primo è che il decentramento federale permette di produrre dei "beni pubblici", come la sanità, l’istruzione, i servizi sociali, che meglio corrispondono alle vere esigenze dei cittadini. Il secondo è che un’amministrazione federale è più trasparente, e diminuisce il grado di corruzione. Tutto ciò non può sorprendere, perché il federalismo aumenta la partecipazione ed il controllo da parte dei cittadini e delle imprese sul governo e sulla pubblica amministrazione.
La differenza tra stati federali e stati centralizzati sta in due fenomeni distinti e collegati. Il primo di essi è che i cittadini, attraverso la comparazione con quanto viene offerto dai sistemi vicini, dispongono di un’informazione sull’efficienza e l’efficacia del proprio sistema della quale non potrebbero disporre - o disporrebbero in maniera molto meno chiara e diffusa - in uno Stato centralizzato. Il secondo di essi è che la limitata dimensione delle entità federate rende comparativamente poco costoso lo spostamento delle persone e delle attività produttive in altre aree. In tal modo i cittadini hanno un metodo ulteriore a quello dei voto di sanzione per controllare che il governo applichi il programma con il quale è stato eletto. Inoltre le possibilità di estrazione della rendita politica, con la creazione di privilegi per le maggioranze a scapito delle minoranze, viene ad essere ridotta. L’analisi di numerosi casi mostra come gli effetti congiunti dell’informazione e della possibilità di migrazione rendano le politiche delle entità in competizione molto sensibili alle preferenze dei cittadini. Questo effetto si verifica anche in casi in cui i sistemi tra i quali gli individui possono scegliere sono rappresentati da Stati sovrani, in presenza di bassi costi di spostamento dall’uno all’altro.
Questo non significa che il federalismo, politico e fiscale, comporti automaticamente una diminuzione della spesa pubblica, e quindi della tassazione. Tutto dipende da quali sono le preferenze dei cittadini. E perfettamente possibile, e perfettamente apprezzabile, che in alcune entità federate (in Italia, le Regioni) i cittadini vogliano più servizi pubblici, e quindi siano disposti a pagare maggiori imposte per finanziarli.
Il fatto fondamentale è che un più alto livello della spesa pubblica, e quindi della tassazione, sia il risultato di una scelta consapevole ed informata dei cittadini, non di un processo guidato dalla logica degli interessi di parte e della rendita politica, a livello locale o nazionale.
Attribuire al federalismo un inevitabile aumento della spesa pubblica, come si sente spesso affermare oggi di fronte alla introduzione del federalismo fiscale, è quindi un errore.
Domanda: perché ciò che si è prodotto pressoché ovunque nel mondo non dovrebbe prodursi anche in Italia? L’onere della prova spetta decisamente a chi sostiene la tesi contraria.
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