«Fine dei giochi» è un articolo su L’Unità di oggi di Oliviero Beha. L’articolo evidenzia l’ipocrisia della declamata “tregua” olimpica. Non a caso, per meglio illustrare i concetti espressi da Beha, sopra ho ripreso dalla Reuters, quella fotografia tanto esteticamente intrigante quanto altrettanto evocante un possibile emblema delle Olimpiadi nel mondo odierno.
Venerdì scorso, giornata inaugurale delle Olimpiadi, sui giornali titoli e foto in evidenza da prima pagina erano in buona parte dedicati alla fantasmagorica edizione numero 29 dei Giochi Moderni.
Sabato quello spazio già si divideva tra la cerimonia inaugurale di Pechino e la guerra in Ossezia. Ieri, fatti salvi i giornali sportivi che ne sono il logico indotto di marketing, la prima giornata olimpica cedeva a immagini strazianti del conflitto e dei civili uccisi o soccorsi.
Sempre ieri l’Italia ha vinto il suo primo oro cinese nella spada individuale con Matteo Tagliariol, un fuoriclasse di Treviso di 25 anni.
Gioia dell’olimpionico, della famiglia, dei dirigenti sportivi italiani presenti, i soliti Petrucci e Carraro, del team azzurro, degli sportivi italiani, degli italiani innamorati del tricolore che non fanno gestacci all’Inno di Mameli, ecc. Mondi separati dunque? Che si deve fare? Chiedo lumi a Brecht, a una sua poesia in tempo di guerra intitolata «A quelli nati dopo di noi» : «...Che tempi sono questi in cui / un discorso sugli alberi è quasi un reato / perché comprende il tacere su così tanti crimini!...». Una volta c’era la cosiddetta "tregua olimpica" di ellenica memoria, per cui si sospendevano le guerre per le gare. Adesso i tycoon del Cio, a partire dal suo presidente Rogge, da Pechino esplicitamente affermano «non è affar nostro, ci pensi l’Onu» e implicitamente ratificano che la tregua olimpica è una panzana retorica e quel che conta è il denaro, negli stadi, negli studi tv come nel massacro in Ossezia dove in ballo c’è molto di più il petrolio e il suo mercato occidentale che non "diversità di vedute" sull’identità nazionale osseta.
Per carità, già nel 1936 la torcia olimpica ardeva per iniziativa di Hitler e dei suoi sodali, e sulla prima torcia berlinese simbolo di fratellanza tra i popoli c’era il marchio Krupp poi tristemente noto nella fabbricazione delle armi belliche.
Ma stavolta, sul pianeta evoluto di cui ci vantiamo di far parte, dopo una marea di polemiche più o meno sincere (meno, più ipocrite) sui diritti umani e civili nebulizzati dalla Repubblica di Cina addirittura si è passato ad uno start contemporaneo delle gare e della guerra. Non ricordo personalmente una simile simultaneità. Evidentemente ci si evolve. Dai tempi di Hitler e della sua torcia ne abbiamo fatta di strada sulla via della modernità...
Intanto in una con le bombe a casa loro sfilavano a Pechino gli atleti georgiani che si erano detti pronti a tornare in patria per cambiarsi di divisa. Intanto il presidente georgiano se ne usciva con l’assurdità del monito «rimanete ma vincete». Serve altro per domandarci se siamo alla fine delle Olimpiadi? Aiuta a porsi una domanda simile il fatto che nel frattempo dopo gli attentati di Kashagar di lunedì, ieri ci sono stati altri otto morti nella regione del Xinjiang? Sempre di Cina, dell’immensa Cina si tratta. Della Cina olimpica, dico. Di questa Cina sotto gli occhi tecnologici del pianeta.
Ci stanno rubando - se non ci hanno già rubato - le Olimpiadi, questo è il punto. Ce le mostrano a condizione che ci dimentichiamo di tutto il resto (cfr. Brecht), con il ricatto psicologico pseudorealista e in realtà supercinico che tanto il mondo è questo, e quindi "perché privarci di un fenomenale spettacolo?". Sarebbe una rinuncia in perdita. Come se la fine delle Olimpiadi, ovvero il loro snaturamento, la loro mercificazione, la simonia in terra di Olimpia dipendessero da noi e non da loro, che hanno usato i Giochi per tutt’altro, con il "collaborazionismo" di tutto il mondo sportivo.
Facciamo un esempio ancora più chiaro.
Si dice che a Pechino ci sia tantissimo smog, nel senso letterale e non metaforico di un inquinamento mostruoso che rende difficile respirare e camminare, figuriamoci gareggiare. Non viene misurato credibilmente. Voglio dire che se la percentuale di inquinamento fosse troppo alta, manifestamente troppo alta, le autorità locali scientifiche o politiche (coincidono) fornirebbero certamente numeri diversi.
Più bassi. Tollerabili. Non lo fanno solo i cinesi, il giochetto delle centraline di monitoraggio usate a proposito è cosa nota anche da noi, Europa, Italia ecc. Ebbene, la domanda è: quanto smog possono sopportare gli atleti? C’è un limite? A che punto si dovrebbe arrivare per dire basta? Trasferite questo interrogativo dando allo smog politico tutto l’ampio significato che deve assumere. Quanto smog politico, in termini di diritti umani e civili nella Cina ospitante, dei morti periferici relativi, della guerra contemporanea in Georgia e forse non solo in Georgia, nei prossimi giorni, quanto smog politico può sopportare un’Olimpiade e il cosiddetto spirito olimpico? Non siamo già oltre il tollerabile mentre si manomettono nemmeno troppo metaforicamente le centraline di monitoraggio? Forse le fotografie dall`Ossezia vicino alla faccia giustamente sorridente di Tagliariol possono contribuire a una risposta.
Venerdì scorso, giornata inaugurale delle Olimpiadi, sui giornali titoli e foto in evidenza da prima pagina erano in buona parte dedicati alla fantasmagorica edizione numero 29 dei Giochi Moderni.
Sabato quello spazio già si divideva tra la cerimonia inaugurale di Pechino e la guerra in Ossezia. Ieri, fatti salvi i giornali sportivi che ne sono il logico indotto di marketing, la prima giornata olimpica cedeva a immagini strazianti del conflitto e dei civili uccisi o soccorsi.
Sempre ieri l’Italia ha vinto il suo primo oro cinese nella spada individuale con Matteo Tagliariol, un fuoriclasse di Treviso di 25 anni.
Gioia dell’olimpionico, della famiglia, dei dirigenti sportivi italiani presenti, i soliti Petrucci e Carraro, del team azzurro, degli sportivi italiani, degli italiani innamorati del tricolore che non fanno gestacci all’Inno di Mameli, ecc. Mondi separati dunque? Che si deve fare? Chiedo lumi a Brecht, a una sua poesia in tempo di guerra intitolata «A quelli nati dopo di noi» : «...Che tempi sono questi in cui / un discorso sugli alberi è quasi un reato / perché comprende il tacere su così tanti crimini!...». Una volta c’era la cosiddetta "tregua olimpica" di ellenica memoria, per cui si sospendevano le guerre per le gare. Adesso i tycoon del Cio, a partire dal suo presidente Rogge, da Pechino esplicitamente affermano «non è affar nostro, ci pensi l’Onu» e implicitamente ratificano che la tregua olimpica è una panzana retorica e quel che conta è il denaro, negli stadi, negli studi tv come nel massacro in Ossezia dove in ballo c’è molto di più il petrolio e il suo mercato occidentale che non "diversità di vedute" sull’identità nazionale osseta.
Per carità, già nel 1936 la torcia olimpica ardeva per iniziativa di Hitler e dei suoi sodali, e sulla prima torcia berlinese simbolo di fratellanza tra i popoli c’era il marchio Krupp poi tristemente noto nella fabbricazione delle armi belliche.
Ma stavolta, sul pianeta evoluto di cui ci vantiamo di far parte, dopo una marea di polemiche più o meno sincere (meno, più ipocrite) sui diritti umani e civili nebulizzati dalla Repubblica di Cina addirittura si è passato ad uno start contemporaneo delle gare e della guerra. Non ricordo personalmente una simile simultaneità. Evidentemente ci si evolve. Dai tempi di Hitler e della sua torcia ne abbiamo fatta di strada sulla via della modernità...
Intanto in una con le bombe a casa loro sfilavano a Pechino gli atleti georgiani che si erano detti pronti a tornare in patria per cambiarsi di divisa. Intanto il presidente georgiano se ne usciva con l’assurdità del monito «rimanete ma vincete». Serve altro per domandarci se siamo alla fine delle Olimpiadi? Aiuta a porsi una domanda simile il fatto che nel frattempo dopo gli attentati di Kashagar di lunedì, ieri ci sono stati altri otto morti nella regione del Xinjiang? Sempre di Cina, dell’immensa Cina si tratta. Della Cina olimpica, dico. Di questa Cina sotto gli occhi tecnologici del pianeta.
Ci stanno rubando - se non ci hanno già rubato - le Olimpiadi, questo è il punto. Ce le mostrano a condizione che ci dimentichiamo di tutto il resto (cfr. Brecht), con il ricatto psicologico pseudorealista e in realtà supercinico che tanto il mondo è questo, e quindi "perché privarci di un fenomenale spettacolo?". Sarebbe una rinuncia in perdita. Come se la fine delle Olimpiadi, ovvero il loro snaturamento, la loro mercificazione, la simonia in terra di Olimpia dipendessero da noi e non da loro, che hanno usato i Giochi per tutt’altro, con il "collaborazionismo" di tutto il mondo sportivo.
Facciamo un esempio ancora più chiaro.
Si dice che a Pechino ci sia tantissimo smog, nel senso letterale e non metaforico di un inquinamento mostruoso che rende difficile respirare e camminare, figuriamoci gareggiare. Non viene misurato credibilmente. Voglio dire che se la percentuale di inquinamento fosse troppo alta, manifestamente troppo alta, le autorità locali scientifiche o politiche (coincidono) fornirebbero certamente numeri diversi.
Più bassi. Tollerabili. Non lo fanno solo i cinesi, il giochetto delle centraline di monitoraggio usate a proposito è cosa nota anche da noi, Europa, Italia ecc. Ebbene, la domanda è: quanto smog possono sopportare gli atleti? C’è un limite? A che punto si dovrebbe arrivare per dire basta? Trasferite questo interrogativo dando allo smog politico tutto l’ampio significato che deve assumere. Quanto smog politico, in termini di diritti umani e civili nella Cina ospitante, dei morti periferici relativi, della guerra contemporanea in Georgia e forse non solo in Georgia, nei prossimi giorni, quanto smog politico può sopportare un’Olimpiade e il cosiddetto spirito olimpico? Non siamo già oltre il tollerabile mentre si manomettono nemmeno troppo metaforicamente le centraline di monitoraggio? Forse le fotografie dall`Ossezia vicino alla faccia giustamente sorridente di Tagliariol possono contribuire a una risposta.
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