lunedì 25 agosto 2008

Mourinho über alles

Una piccola riflessione sulla supercoppa vinta ieri sera dall'Inter.
Credo d'averlo già scritto in precedenza o d'aver fatto intendere d'essere stato e d'essere un manciniano convinto. E, dunque, di non aver condiviso la scelta di Moratti. Tuttavia mi sento di sottolineare l'atteggiamento di ieri sera di Mourinho che non ha voluto "impadronirsi", anche se del suo sicuramente ne ha messo, di una vittoria, possibile solo perché il Mancio aveva portato al successo l'Inter lo scorso campionato. Quel mantenersi seduto in panchina, quel parlare alla squadra attraverso Baresi, le parole finali su Mancini sono gesti degni del massimo rispetto e cifra di un allenatore che dimostra ogni giorno che passa di essere un professionista di notevole statura. Non resta, dunque, che augurargli di seguire le orme di Mancini in campionato portando la squadra ad un nuovo trionfo (alla faccia di cugini, romanisti e juventini) e di superarlo nella Champions. Un "in bocca al lupo" di cuore.

domenica 24 agosto 2008

Federalismo fiscale: un'occasione epocale

Da “Il Piccolo” riprendo l’editoriale di Sergio Baraldi del 17 agosto scorso, intitolato “A chi conviene il fisco locale”. I dubbi che l’articolo solleva sono legittimi ed utili per una discussione generale. Personalmente ritengo che se la legge che uscirà dal Parlamento sarà “intelligente”, il federalismo fiscale potrà iniziare nel nord una lotta ben più aspra che quella contro il famoso centralismo fiscale di “Roma ladrona”. La lotta, cioè, contro gli sceriffi di Nottingham locali che sinora si sono approfittati, grazie all’impunità dovuta secondo loro dalla scusa degli “scarsi” trasferimenti statali, del mettere le mani in tasca dei cittadini non per venire incontro a reali necessità di servizio, ma per i fasti “romani” (nel senso dell’antica Roma) pensati dalle loro povere teste o meglio dalle loro pance, perché uno è ciò che mangia e chi mangia grasso non può che escogitare grassazioni per mantenere i suoi “lussi”. Feste estive in piazza per raccogliere il consenso di imbecilli, iniziative che mirano soltanto a creare all’amministrazione una patente di mecenate della pseudo-cultura, sostegno di iniziative sportive e lobbistiche varie mirate a raccattare i voti per la propria sopravvivenza al potere locale. Per non aprire il capitolo delle consulenze. Così nelle grandi città del nord come e soprattutto nei piccoli e piccolissimi comuni, quelli lombardi in primis. Un federalismo fiscale equo dovrebbe partire con l’abrogare tutti i tributi locali esistenti, anche quelli di cui la politica di solito si dimentica. E con la loro sostituzione con un’unica imposizione che nel caso delle persone fisiche comprenda l’irpef. Un’unica tassa insomma. L’Ici è la tassa più iniqua che sia mai stata pensata e non è stata abolita. Semplicemente non la si paga sulla prima casa e pertinenze. E dire che è l’esempio perfetto di tassa federalista è una bestemmia. La si è lasciata sulle seconde ed altre case. Semplicemente perché in un’Italia nata dai dogmi del comunismo – anche se il comunismo è stato sempre tenuto in disparte come una sorta di peccato originale di cui vergognarsi – è comune sentire che la proprietà sia un furto, a sinistra ovviamente, ma anche a destra – e qui forse per casi di esperienza diretta. Per questo dire che è l’esempio principe di tassa federalista è semplicemente nostalgia di anime sceriffe senza pudore. C’è l’occasione di ridurre il prelievo fiscale ad un’unica tassa: di questo si dovrebbe parlare, semplicemente. Un’unica tassa significa un notevole risparmio di denaro pubblico: nei comuni e a livello più alto si andrebbe a cancellare l’equazione di cui nessuno parla: “tanti tributi tanti uffici” e buona parte degli impiegati potrebbe essere utilmente meglio indirizzata a fornire servizi alle cittadinanze invece di rivestire il ruolo spesso becero di odiati notai del prelievo nelle tasche della gente. Ben vengano, dunque, tutti i dubbi che possano servire ad una discussione realmente fatta nell’interesse dei cittadini, almeno una volta.

Umberto Bossi si è accorto che l'Ici era l'unica tassa «federale» che esisteva nell'ordinamento italiano e che lui ha votato per abolirla. Eppure non pochi autorevoli economisti avevano avvertito che la sua cancellazione (Prodi l'aveva già ridotta) avrebbe creato problemi alle finanze dei comuni. In realtà, l'uscita di Bossi ha l'obiettivo di lanciare il primo monito per la sfida più complessa per la maggioranza di governo: la riforma del federalismo fiscale prevista all'ordine del giorno in autunno. Da un punto di vista generale, il federalismo fiscale è un riforma di cui il Paese avrebbe necessità. Da anni si parla di spostare i centri di spesa e di capacità impositiva dallo Stato alle amministrazioni locali, un riequilbrio che favorirebbe la responsabilità fiscale, legando direttamente la spesa delle istituzioni locali alle entrate tributarie.

Pochi giorni fa il sindaco di Trieste Dipiazza, in una intervista a «Il Piccolo», ha ammesso che l'aliquota Irpef che il suo Comune applica è alta, ma ha spiegato che i cittadini sono abituati a servizi di alto livello e questo ne impedisce la riduzione. Non sappiamo se davvero i triestini siano convinti che i servizi del Comune siano di tale qualità da giustificare uno dei prelievi più gravosi d'Italia. Potrebbero anche preferire una diversa soluzione: ridurre i costi del Comune per abbassare le tasse. Se questo nesso tra spesa (anche per i servizi) e tributi fosse più immediatamente percepibile, Dipiazza sarebbe più cauto. E se questo legame fosse operante la Provincia Autonoma di Trento potrebbe continuare a mantenere una generosa assicurazione per le cure dentarie solo se la maggioranza dei cittadini fosse disposta a pagare di più. Il federalismo può innescare un circuito virtuoso nelle amministrazioni pubbliche, in particolare in quelle la cui spesa è oggi superiore alle entrate tributarie. Sappiamo che questo è il caso del Sud, ma non riguarda solo questa parte del Paese.

Secondo i recenti dati Istat solo in Lombardia e in Emilia Romagna i propri tributi coprono l'82% del totale delle entrate correnti, vale a dire le entrate ottenute da tributi, contributi e assegnazioni dello Stato. Occorre fare attenzione perché la differenza tra Lombardia e Calabria, che copre appena il 17%, non è dovuta solo alle differenze di reddito e alla capacità impositiva, certamente la causa principale del dislivello. Vi sono altre ragioni tra cui l'evasione sull'Irap. Ma non è trascurabile l'efficienza delle pubbliche amministrazioni. Il federalismo fiscale, se ben disegnato, può instaurare un controllo dei contribuenti che sono chiamati a finanziare direttamente la spesa negli enti locali. Quando questo controllo è debole, sappiamo qual è il risultato: le amministrazioni spendono troppo e spesso forniscono servizi carenti ai cittadini. La trasparenza tra tassazione, rappresentanza e governo renderebbe più difficile mantenere un elevato livello di pressione fiscale locale se i cittadini non ne avvertono davvero il beneficio. E l'approvano.

Si sa che il Nord e in parte il Centro hanno da guadagnare da un federalismo ben disegnato, non altrettanto il Sud. Ma occorre dire che forse il Sud può avere interesse a uscire da una dipendenza fiscale che produce spreco, non è sostenibile per il Paese, e ha dato come risultato pessimi servizi pubblici. Ma questo significa ammettere che debba esistere uno standard di intervento pubblico garantito per tutti e poi la possibilità di differenze tra regioni, in modo che i cittadini possano ritenere responsabili le proprie amministrazioni o di pressione fiscale eccessiva o di spesa inefficiente. Ma chi e come determinerà lo standard? E si interverrà per la perequazione tra regioni ricche e povere attraverso un meccanismo di trasferimenti orizzontale (passaggio da regioni a regioni) o verticale (attraverso lo Stato)?

La riforma del federalismo fiscale è complessa dal punto di vista tecnico ed è di difficile gestione politica. Alla vittoria del centrodestra ha contribuito in modo determinante il Sud, in particolare la Sicilia. Potrà ridurre i finanziamenti? C'è il rischio che il federalismo fiscale non si riveli una iniezione di efficienza, ma un pasticcio con un effetto moltiplicatore di costi con conseguenze pesanti sul bilancio pubblico. Può contribuire allo sviluppo o infliggere un duro colpo a un Paese che già non cresce.

giovedì 14 agosto 2008

Girotondini cristiani

Un piacevole articolo di Alessandro De Angelis sulla vicenda “Famiglia Cristiana” è pubblicato sempre oggi da Il Riformista. Titolo: « Chi di famiglia ferisce, di Famiglia perisce».

Chi di famiglia ferisce, di Famiglia perisce. Newsweek loda il premier. Famiglia cristiana lo attacca, e non da oggi. Ieri, in un’escalation di polemiche con esponenti del governo, ha persino paventato il rischio di fascismo.
Se fossimo in un paese normale, si potrebbe chiudere la questione con una battuta: «E la stampa, bellezza». Ma, a giudicare dal bailamme di dichiarazioni in agenzia di ieri, evidentemente non siamo in un paese normale.
Certo il settimanale dei Paolini c’è andato giù duro negli ultimi tempi, anche nei toni, schierandosi all’opposizione su molti temi. Sulla sicurezza definì «un insulto al parlamento» la proposta di introdurre il reato di immigrazione clandestina.
Sulle impronte ai rom scrisse: «Prendiamole prima ai parlamentari e ai loro figli». Ieri, dopo aver risposto alle critiche di Giovanardi («Non siamo cattocomunisti») ha affidato l’affondo al prossimo editoriale, ritornando sulle proposte di Maroni: «Quella foto del bimbo ebreo nel ghetto di Varsavia con le mani alzate davanti alle Ss è venuta alla memoria come un simbolo». A supporto della sua tesi, il giornale dei Paolini sottolinea come le stesse cose le ha scritte anche la prestigiosa rivista francese, certamente «non cattocomunista», Esprit. E conclude: «Speriamo che non si riveli mai vero il sospetto che stia rinascendo da noi sotto altre forme il fascismo». A dire il vero le stesse cose, le scrivono pure Colombo, Padellaro, i girotondini. Ma non è questo il punto. Mezzo governo - Giovanardi lancia in resta - ha accusato il settimanale di non essere cristiano.
E oggi - non ci vuole molto a prevederlo - alla questione saranno dedicate paginate di giornali.
Paradossalmente, ma non troppo, l’Italietta provinciale e perbenista ieri ha mostrato il suo vero volto. Quello di una finta partita di calcio col Camerum, che sarà dimenticata quando i calciatori, se vinceranno la prossima, saranno definiti «eroi». E quello di una polemica ipocrita tra Famiglia cristiana e il centrodestra, che sarà dimenticata quando il primo laico farà una battaglia qualsiasi sui diritti civili, sulla libertà religiosa o sessuale che sia.
Se il settimanale si fosse chiamato in altro modo tutto questo non sarebbe successo. Neanche se fosse stato del centrodestra. Ma si chiama Famiglia cristiana, e non è un dettaglio. Quel nome - a torto o a ragione - è diventato il simbolo del Dna nazionale, vero o presunto che sia. Attorno alla «famiglia» e al «cristiano» qualcuno, in anni duri e brechtiani, ha dato un’identità al paese. Anche con coerenza e dignità.
Ora però i tempi sono cambiati: sono cambiate le famiglie ed è anche cambiata la fede. Forse, anche grazie al fatto che quel modello di società qualcuno lo ha messo in discussione.
Ma «famiglia» e «cristiana» sono parole che la politica italiana di centrodestra, e non solo, ha spesso trasformato in bandiera, slogan, appello al ventre molle di un’Italietta che resiste, a dispetto dei tempi. In un’Italia la cui identità è profondamente cambiata. E se un settimanale che porta quel nome non diventa la cassa di risonanza di quella Italietta, per certa politica è troppo: è come un turco che bestemmia in chiesa. Ma se i suoi editoriali sono diventati editti la colpa è, soprattutto, di quella politica che ieri ha vissuto il suo contrappasso dantesco.
Si potrebbe fare un lungo, lunghissimo evento di come tanto «famiglia» quanto «cristiana» siano stati trasformati in simboli dell’ipocrisia.
Quando ai tempi del Family day i divorziati e gli adulteri del Pdl, tutti con le fedi al dito, erano in piazza San Giovanni, il "loro" settimanale alzava le barricate contro i Dico: termine incomprensibile con cui si consentiva, con un po’ di carità cristiana, a due che vivevano assieme di godere di diritti minimi di cittadinanza. Per non parlare della fecondazione assistita, quando in parlamento e nelle piazze si diceva di no alla legge in nome dello spirito cristiano e della difesa delle famiglie. Allora andava bene tutto: soprattutto gli editoriali del settimanale. Oggi c’è poco da lamentarsi. A giocare con l’ipocrisia ci si fa male.

CattoKomunisti

Luca Sebastiani su L’Unità titola: «Famiglia Cristiana accusa:"Rischio fascismo"». Un articolo cartina di tornasole, vediamolo:

Fascismo. «Speriamo che non stia rinascendo sotto altre forme». II preoccupato presagio cade come un macigno nel sonnolento stagno politico agostano. Creando ondate polemiche di una certa rilevanza, dato che ad esprimerlo in maniera argomentata è stata Famiglia Cristiana nel suo editoriale del prossimo numero.
Il settimanale dei Paolini ha infatti anticipato ieri il contenuto dell’articolo di Beppe Del Colle per rispondere agli attacchi concentrici cui è stata sottoposta da eminenti esponenti del Governo e della maggioranza negli ultimi giorni. Se nello scorso numero aveva attaccato l’inutile dispiegamento dei «soldatini» in giro per l’Italia solo per nascondere il vero problema del paese, la povertà crescente, questa volta il settimanale cattolico ha scelto di rincarare la dose e puntare il dito sulle impronte digitali dei bimbi rom.
«Abbiamo definito indecente la proposta del ministro Maroni perché bisogna evitare ai bimbi rom la vergogna di vedersi marcati per tutta la vita». Che la misura fosse al di fuori degli standard dei paesi democratici, se ne erano accorti anche in Europa, fa notare Famiglia Cristiana, che evoca dalla memoria storica degli europei «la foto del bimbo ebreo nel ghetto di Varsavia con le mani alzate davanti alle Ss». E poi cita le preoccupazioni di un ritorno larvato di fascismo espresse dalla rivista francese Esprit, chiosando dubitoso: «speriamo che non si riveli mai vero il suo sospetto che stia rinascendo sotto altre forme il fascismo».
Evidentemente la preoccupazione espressa nelle ultime frasi dell’editoriale era nata in seguito agli attacchi che il settimanale ha ricevuto dopo che si era permesso di criticare il governo. Del resto è abbastanza normale che la maggioranza veda una pregiudiziale ideologica dietro ogni critica e anche nel caso di Famiglia Cristiana si era lasciata andare alle solite denunce contro i comunisti.
In questo caso declinati come «cattocomunisti», nella versione del sottosegretario alla Famiglia Carlo Giovanardi, o «criptocomunisti», in quella del capogruppo Pdl al Senato Maurizio Gasparri.
«Non siamo cattocomunisti», ha ribattuto Del Colle nel suo editoriale, citando direttamente le parole di Giovanardi, che erigendosi a inquisitore e guardiano della dottrina aveva anche contestato il diritto del settimanale «ad essere venduto in chiesa». E punto sul vivo, ieri è stato Giovanardi il più duro nella replica, rimandando al mittente le allusioni al Ventennio.
Il giornale sta conducendo una «campagna connotata da livore ideologico» ha detto, prima di notare come «di fascista oggi in Italia ci sono soltanto i toni da manganellatore che Famiglia Cristiana consente a Del Colle». Insieme a lui sono scesi in campo gli specialisti del tema. Gasparri, che ha dichiarato che non ha notato «questo ritorno del nazifascismo» e ha annunciato una querela ad Antonio Sciortino, il direttore di Famiglia Cristiana che aveva detto che il senatore «predica bene e razzola male» visto che a Marettino, nelle Egadi, «la fa un po’ da boss e An governa con la sinistra».
E il ministro della Difesa La Russa, che come prova dell’esistenza della Democrazia in Italia fa notare che «non c’è nessuna limitazione di dire sciocchezze». I due esponenti di An, poi, si sono lanciati nella delegittimazione e hanno spiegato che se Famiglia Cristiana prende queste cantonate contro il governo è solo perché sta perdendo copie. «Lo dimostrano i dati del Sole 24 ore», hanno riferito autorevolmente. «Sono sorpreso da queste reazioni perché ogni cittadino dovrebbe poter valutare l’operato del governo».
Dopo un’altra giornata di polemiche Sciortino è sconsolato.
«In un paese normale – aggiunge - fa parte di un libero dibattito». In un paese normale sì, mentre in Italia, dice Giorgio Merlo del Pd, «chi ama il linguaggio della verità» è bollato come comunista.

Ossessioni di famiglia

È la volta de Il Giornale sempre sull’affair “Famiglia Cristiana” con un articolo intitolato “«Rinasce il fascismo», l’ossessione di Famiglia Cristiana”:

Ci risiamo. Famiglia Cristiana torna nuovamente a censurare con toni aspri la situazione politica italiana e le gesta dei suoi protagonisti.
«Ora basta» recita l’editoriale del numero in edicola questa settimana, stavolta a firma di Beppe Del Colle, che replica alle critiche piovute dopo le frasi con cui lunedì la rivista accusava il governo di creare «una finta emergenza» sicurezza per nascondere i mali del Paese.
Non solo. Del Colle, riprendendo le perplessità espresse dalla rivista francese Esprit sulla presunta durezza delle autorità italiane «contro romeni e zingari», si augura, spingendosi nel paradosso, che «non si riveli mai vero il suo sospetto che stia rinascendo da noi sotto altre forme il fascismo».
Un attacco diretto contro il ministro Maroni, reo di aver generato un provvedimento, quello della raccolta delle impronte degli abitanti dei campi nomadi, che il settimanale diretto da don Antonio Sciortino definisce «indecente», ma anche contro il sottosegretario Giovanardi, che li aveva bollati come «cattocomunisti».
«Nessuna autorità religiosa ci ha rimproverato nulla del genere» risponde l’autore, «e lui non ha nessun titolo per giudicarci dal punto di vista teologico-dottrinale».
A stretto giro arriva durissima la risposta dello stesso Giovanardi: «Di fascista oggi in Italia, ci sono solo i toni da manganellatore che Famiglia Cristiana consente di usare a Beppe Del Colle». Parole pesantissime che fonti governative considerano «una reazione un po’ troppo istintiva», non avendo Palazzo Chigi nessuna intenzione di replicare a Famiglia Cristiana. Critiche al settimanale sono comunque giunte dal ministro della Difesa, La Russa e dal capogruppo della Lega alla Camera, Cota. Mentre il presidente dei Senatori, Gasparri, fa sapere che sporgerà querela contro il direttore della rivista per le «espressioni ingiuriose» usate nei suoi confronti in una intervista a La Stampa di ieri. Don Sciortino risponde: «Sono sorpreso».

Che pierini questi paolini!

Proseguiamo con la rassegna stampa sull’affair “Famiglia Cristiana” con un articolo di Mauro Favale su La Repubblica di oggi:

«Speriamo che in Italia non stia rinascendo il fascismo», scrive Famiglia Cristiana. «Di fascista in Italia ci sono solo i vostri toni da manganellatori», risponde il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Carlo Giovanardi. Lo scontro aperto tra il settimanale dei paolini e il governo. Mai la polemica era arrivata a questi livelli, nonostante già in sei occasioni, negli ultimi 100 giorni, Famiglia Cristiana avesse criticato i provvedimenti dell’esecutivo. Stavolta, però, i toni si alzano e prendono la forma di un botta e risposta in cui si minacciano querele e ci si accusa reciprocamente di fascismo.
Nasce tutto tre giorni fa: prima l’editoriale del direttore Antonio Sciortino sul «Presidente spazzino nel paese da marciapiede», poi la replica della maggioranza che, infastidita dà del «cattocomunista» al settimanale paolino e, ieri, la difesa di Famiglia Cristiana:
«Critichiamo l’attuale governo - scrive il vice direttore Beppe Del Colle nell’editoriale del prossimo numero - come abbiamo fatto con tutti i governi, anche democristiani, quando ci sembrava giusto e cristiano farlo». Poi, citando un autorevole mensile cattolico francese, affonda il colpo: «Esprit ha scritto: "Gli italiani sono incredibilmente duri contro i romeni e gli zingari". Sarà "incredibile" ma è vero. Speriamo - scrive Del Colle - che non si riveli mai vero il suo sospetto che stia rinascendo da noi sotto altre forme il fascismo».
La risposta più dura è quella del sottosegretario Carlo Giovanardi, già preso di mira dal settimanale («Non ha nessun titolo per giudicarci dal punto di vista teologico dottrinale»): «Fascisti sono i vostri toni», afferma il sottosegretario. «Resta il rammarico che una rivista che entra in tutte le parrocchie italiane tenti di coinvolgere una parte del mondo cattolico in una campagna connotata da pregiudizi e da un livore ideologico senza precedenti». Al suo fianco si schierano anche i ministri. Prima Ignazio La Russa, Difesa: «Non c’è nessun pericolo fascista. Famiglia Cristiana sta perdendo colpi. Riporti le lancette dell’orologio avanti: non c’è nessuna limitazione a dire queste fandonie». Più morbido Gianfranco Rotondi, attuazione del Programma: «Linguaggio sbagliato».
Aldilà delle parole, però, Famiglia Cristiana resta ferma nella critica dei provvedimenti del governo su sicurezza e immigrazione: «Sciocca e inutile è la trovata di rilevare le impronte digitali ai bambini rom. Torna alla memoria la foto del bimbo ebreo nel ghetto di Varsavia con le mani alzate davanti alle Ss». Rivendica, il settimanale paolino, di essere «in prima linea su tutti i temi "eticamente irrinunciabili": divorzio, aborto, procreazione assistita, eutanasia, "dico", diritti della famiglia; abbiamo condannato l’inserimento dei radicali nelle liste del Pd. E ora basta». Un "basta" che, per il Pdl, ha la funzione di una miccia: partono accuse dirette soprattutto al direttore. Maurizio Gasparri annuncia una querela nei confronti di Sciortino che lo aveva attaccato in un’intervista ieri alla Stampa e poi rilancia: «Il suo stile di vita non sempre appare coerente con la sua condizione sacerdotale». Il senatore Pdl Vincenzo Fasano ironizza: «Bisognerà far tornare in sede il direttore perché l’incombente ritorno del fascismo evidenziato dal suo giornale non gli consente di proseguire i bagni in Sicilia con amiche ed amici». Replica Sciortino: «Sono sorpreso, ogni cittadino dovrebbe poter valutare l’operato del governo».
Nel centrosinistra, invece, si difende Famiglia Cristiana: «È un giornale libero», dice Beppe Giulietti di Articolo 21. Per Rosy Bindi, Pd, «il termine fascismo è forse improprio ma il governo non si può meravigliare dopo essersi reso responsabile della modifica dei connotati della nostra democrazia. Bisogna confrontarsi con le questioni poste da Famiglia Cristiana, così come fece a suo tempo il governo Prodi. Testimoniano un disagio presente nel mondo cattolico. A meno che non si voglia - conclude la Bindi - mettere un bel bavaglio anche al settimanale dei Paolini».

"Rinascita" secondo i paolini

Padre Federico Lombardi, direttore della sala stampa vaticana, intervenuto sulla polemica tra il settimanale paolino e il governo, ha dichiarato all'AdnKronos: "Famiglia Cristiana è una testata importante della realtà cattolica italiana, ma non ha titolo per esprimere le posizioni della Santa Sede né della Conferenza Episcopale Italiana. La sua linea rientra nella responsabilità della sua direzione". Un “fogliaccio” insomma come tanti altri nell’Italia dei media, non meno “bugiardello” degli altri. Nei giorni scorsi Famiglia Cristiana ha attaccato duramente la politica dell'esecutivo in particolare relativamente alla scelta di "prendere le impronte ai rom" e di utilizzare i soldati per la sicurezza in città.
L’AdnKronos ci dice che soddisfazione per le "parole" di padre Lombardi è stata espressa dal capogruppo dei senatori del Pdl, Maurizio Gasparri. "Una sconfessione di questa portata – ha detto – vale mille volte di più di una vittoria processuale degli insulti subiti''. La reazione di Gasparri arriva poche ore dopo l'annuncio di questa mattina in cui dichiarava "di aver dato mandato agli avvocati di querelare don Antonio Sciortino, direttore di Famiglia Cristiana per le «espressioni ingiuriose usate in un'intervista a La Stampa»”. E ha dichiarato: "Le parole del direttore della Sala Stampa vaticana, padre Federico Lombardi, sono talmente chiare che non è più necessario aggiungere nulla. Continueremo serenamente e con umiltà a difendere in politica i valori cattolici che sono alla base della identità della nostra nazione e anche del programma politico del centrodestra".
La risposta del Vaticano è "equilibrata" per il senatore a vita Francesco Cossiga. "È stata esemplare e classica e degna delle migliori tradizioni di prudenza della Santa Sede - osserva il presidente emerito della Repubblica - la dichiarazione resa con grande chiarezza da padre Federico Lombardi, direttore della sala stampa del Vaticano, che, da un lato, esclude i giudizi insultanti ed ironici nei confronti della politica del presidente del Consiglio Berlusconi e della sua persona, da fascista a spazzino, giudizi che non possono considerarsi espressione di una linea politica della Santa Sede e della Cei".
Tra le reazioni "pro" vale una per tutte quella del segretario di Rifondazione Comunista, Paolo Ferrero che esprime “piena solidarietà al direttore Sciortino e al settimanale cattolico” che, dice, “mi ha più volte ed aspramente criticato quando ero ministro”, ma che ha avuto il merito di “mettere nero su bianco quella che è un’evidenza, più che un giudizio, e cioè che il ritorno del fascismo è, nell’Italia di oggi, un rischio reale”.
Da segnalare ancora l’affermazione di Gianfranco Rotondi, ministro per l'Attuazione del programma: “Famiglia cristiana adotta una tecnica pubblicitaria collaudata, a cui collaboriamo tutti con simpatia. Oltre un certo limite però c'è un linguaggio che non si addice al settimanale che fu di Don Zega sempre anticonformista, mai volgare”.
Buttiamola lì, ma potrebbe essere solo una astuta operazione di marketing. Che Famiglia cristiana, cioè, punti ad essere mutatis mutandis la vecchia Rinascita rivisitata degli ex-cattocomunisti, puntando a riempire così un vuoto cultural-popolare?
Naturalmente, dulcis in fundo, per completezza d’informazione c’è anche il circolo della caraffa: "Gli attacchi del Pdl a 'Famiglia Cristiana' sono uno schiaffo alla libertà di stampa, all'autonomia dell'informazione e sono l'ennesimo tentativo di mettere un bavaglio alle voci di dissenso. Quel che è successo è peggio delle epurazioni in Rai e dell'editto bulgaro". Ad affermarlo è ovviamente il capogruppo dell'Idv alla Camera, Massimo Donadi, secondo il quale "questa vicenda ha mostrato tutti i tratti illiberali del centrodestra. La reazione così veemente mostra anche la sua debolezza. Le parole della Santa sede non sminuiscono la gravità di quanto accaduto". A caval dona…di non si guarda in bocca.

Beppone

Il caldo d’agosto gioca brutti scherzi agl’imprevidenti che si sono dimenticati sotto il “sole dell’avvenire”. Cosa che sembra essere capitata anche ai paolini. E, dunque, nel nulla d’agosto – si fa per dire visti i problemi nel Caucaso – qualche mirata polemica torna utile alla tiratura se in edicola c’è aria di crisi. Così, dunque, dedicherò qualche post a raccattare le polemiche dalla stampa italiana, cominciando con questo che riporta un articolo di oggi del Corriere della Sera, firmato da Alessandro Trocino. Vediamolo:

Prima l’attacco contro il governo che si trastulla con «l’inutile gioco dei soldatini e i finti proclami sulla sicurezza». Ora l’affondo, citando la rivista francese Esprit: «Speriamo che non si riveli vero il sospetto che stia rinascendo da noi sotto altre forme il fascismo».
L`uno-due di Famiglia Cristiana provoca un diluvio di reazioni indignate. A cominciare da quella del sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Carlo Giovanardi: «Di fascista in Italia ci sono solo i toni da manganellatore di Famiglia Cristiana».
In un editoriale firmato da Beppe del Colle, il settimanale torna a criticare le misure sulla sicurezza, a cominciare dalla «sciocca e inutile trovata di rilevare le impronte digitali ai bambini rom». E ricorda come in Europa sia tornata alla mente, «come un simbolo», la foto del bimbo ebreo nel ghetto di Varsavia con le mani alzate davanti alle Ss. L’articolo è una replica alle parole di Giovanardi dei giorni scorsi: «Non siamo cattocomunisti, tantomeno criptocomunisti. Ora basta critiche».
Poi il riferimento al fascismo. Che viene accolto con ironia da Maurizio Gasparri (Pdl): «In giro non vedo questo ritorno del nazifascismo. Se don Sciortino lo vede, prenda il mitra e spari, noi ci uniremo a lui come un sol uomo». Gasparri sottolinea anche «la crisi nelle edicole del settimanale». Replica pure il ministro della Difesa Ignazio La Russa: «Famiglia Cristiana riporti in avanti l’orologio, non esiste nessun limite a dire sciocchezze». L’Udc si schiera nel mezzo con il portavoce Francesco Pionati: «Ridicolo tirare in ballo il fascismo, così come rispolverare gli slogan sul cattocomunismo». Più netto l’Udc Maurizio Ronconi: «Incomprensibili e provinciali le critiche a Famiglia Cristiana, alla quale deve essere riconosciuta piena libertà di espressione oltre a quella autorevolezza derivante dalla straordinaria diffusione». Per il leghista Roberto Cota, «il mondo cattolico condivide le misure dell’esecutivo».
Dal Pd, arriva il sostegno a Famiglia Cristiana, con Giorgio Merlo: «È un giornale che ama il linguaggio della verità».
E con Rosy Bindi: «La maggioranza ha un rapporto strumentale con la Chiesa».
Controreplica finale, o quasi, del direttore del settimanale, don Antonio Sciortino: «Sono meravigliato da queste reazioni. Non abbiamo pregiudizi verso il governo Berlusconi, ci siamo comportati allo stesso modo durante il governo Prodi. È diritto dei singoli cittadini valutare il governo sui singoli provvedimenti, libero è il dibattito, libero il confronto».

La sinistra è contro la gente

Ilaria Ulivelli ha intervistato il sottosegretario alla presidenza del Consiglio e portavoce, Paolo Bonaiuti per conto de Il Giorno – Il Resto del Carlino – La Nazione. L’intervista è stata pubblicata oggi e si presenta con questo titolo e sottotitolo: «Mantenute tutte le promesse. La sinistra? È contro la gente» Bonaiuti: «Ho sbagliato a credere che il dialogo fosse facile».

«Il miracolo dei 100 giorni». Anche il settimanale statunitense «Newsweek» ripercorre in un servizio i primi mesi del quarto governo Berlusconi. «Hanno detto semplicemente la verità», commenta il sottosegretario alla presidenza del Consiglio e portavoce, Paolo Bonaiuti.
«Non lo dice solo Newsweek - aggiunge -, soprattutto lo dicono gli italiani che in un sondaggio danno il 63,8% del gradimento a Berlusconi e il 60% al governo. Evidentemente sono contenti. Hanno avvertito un dato nuovo di questo esecutivo: la concretezza. Abbiamo promesso e mantenuto».
Un grande obiettivo, la costituzione del nuovo partito. A tappe forzate. il primo appuntamento è il 18 agosto con la commissione statuto. E una prima polemica sull’utilità di un segretario.
«Non è un partito ma un movimento che nasce nel novembre del 2007 quando Berlusconi salendo sul predellino in piazza San Babila, a Milano, spazza via i dubbi di molti dicendo “siamo il popolo della libertà”. E, ancora più indietro, in piazza San Giovanni, a Roma, il 4 dicembre 2006, quando due milioni mescolarono le bandiere di Forza Italia, An, Lega e anche alcune dell’Udc. Ho visto con i miei occhi nascere il Pdl, allora. Quando, finita la manifestazione, Berlusconi venne fermato per le strade e acclamato come leader. Quindi un leader c’è e non serve un reggente. Dal basso verrà eletto un gruppo dirigente. Il resto sono chiacchiere di Ferragosto».
Se si votasse domani crede che il Pdl avrebbe più successo?
«Lo dicono i principali istituti italiani di sondaggi che danno al Pdl un vantaggio maggiore rispetto alle elezioni di aprile. Ma non potrebbe essere diversamente visto che è stata abolita l’Ici mentre la gente si preparava a pagare i bollettini. Visto che è stato introdotto il merito nel mondo del lavoro, con un fisco che finalmente premia chi lavora. Visto che il senso di insicurezza dei cittadini sarà colmato con l’impiego dell’esercito nelle città che permette di destinare carabinieri e polizia alla lotta contro il crimine».
Un’iniziativa contrastata dalla sinistra.
«Ancora una volta la sinistra va contro la gente, contro il bisogno e il desiderio di sicurezza di tutti. Ragiona ancora in base a teorie e teoremi ormai superati. Lo stesso principio di rinchiudersi nel palazzo, nel caso dell’amministrazione fiorentina, e rifiutandosi di ascoltare i cittadini pretendere di far passare un treno che chiamano tram sotto al Duomo».
Per procedere a ritmo serrato vi aspetta un autunno caldo: federalismo fiscale e riforma della giustizia. Ce la farete?
«Il federalismo fiscale è una forma moderna applicata in tanti paesi con successo. Fa parte del programma non solo della Lega ma di tutto il Pdl. Anche la sinistra sta collaborando con Calderoli. Si tratta di ridisegnare lo Stato secondo principi di perequazione per cui non debbano soffrire le regioni del Sud. Ce la faremo».
E la giustizia? C’è qualche problema...
«Veramente i problemi li ha avuti Veltroni che si è incapricciato di Di Pietro e dei suoi ultras della giustizia. Sono scivolati fino a piazza Navona e lì Di Pietro ha fatto bingo. Ma c’è un problema vero. Da 15 anni c’è un forte squilibrio fra i poteri della magistratura, la società civile e gli organi che la rappresentano».
Sulle riforme si può riprendere il dialogo con l’opposizione?
«Come no? La gente vuole il dialogo e noi siamo per il dialogo».
C’è qualcosa che se tornasse indietro non rifarebbe?
«Ho sbagliato a pensare che la sinistra potesse dialogare più facilmente».
Cosa si può migliorare nell’azione di governo?
«Tutelare e difendere i salari, gli stipendi e le pensioni».
Dicono che lei sarà il super candidato del centrodestra per la poltrona di sindaco di Firenze.
«Quante chiacchiere inutili... Per ora vorrei solo essere a Firenze il 31 agosto per la prima di campionato. C’è la Juve. Alè viola».

Una coppia di successo

«Nicolas e Silvio, la coppia che rilancia l’Europa» titola l’analisi di ieri su Il Messaggero di Claudio Rizza. Offre molti spunti di riflessione. Vediamola:

Così l’Europa ha battuto un colpo, in barba ai mille scetticismi. E la coppia Sarkozy-Berlusconi, attivissima in questi giorni difficili, ha messo a segno una mediazione importante, ciascuno nel proprio ruolo ma lavorando in squadra, zittendo il coro pessimista e a volte ironico che ha accompagnato altolà e moniti europei. Le telefonate private e le richieste pubbliche di cessate il fuoco, dirette verso Mosca e verso Tbilisi. I pessimisti, e non erano pochi, si sono dovuti ricredere: convinti che l’Europa fosse artefice e vittima di se stessa, malata di marginalità, bypassata dalle mosse americane e ignorata dall’orgogliosa e pugnace Russia di Putin. Pensavano che questo ritorno di guerra fredda avrebbe ridotto ancor più il peso politico di una Ue troppo spesso balbettante e divisa per contare veramente qualcosa.
Sarkozy, presidente di turno della Ue, ha cercato di imprimere subito una sterzata al semestre francese indicando all’Europa obiettivi ambìziosi, lavorando strategicamente all’Unione Mediterranea, cercando di trainare il vecchio continente a superare le sue artrosi e tentando di dare risposte alle richieste della gente. Il dossier immigrazione altro non è stato che la risposta politica alla paura che attanaglia mezza Europa, causa della freddezza e del distacco crescente tra governanti e governati. È la stessa ricetta che il centrodestra italiano ha subito detto di condividere, appoggiando entusiasta l’elezione di Sarkò, per motivi ideali e per convenienza politica: cementare un asse con la Francia avrebbe tenuto l’Italia agganciata alla testa dei Paesi fondatori, protagonista e non gregaria.
In questo frangente non si può dire che la personalità e i contatti di cui i due leader sono stati protagonisti (Sarkozy ha mosso l’Europa preparando il viaggio a Mosca che ha portato all’intesa dei sei punti: Berlusconi ha premuto sull’amico Putin, ha parlato con Bush) non abbiano pesato. È difficile pensare che la precedente presidenza slovena della Ue avrebbe mai raggiunto un simile risultato. È il punto 5 dell’intesa siglata dal presidente russo Medvedev («ritiro delle forze russe alle posizioni precedenti al conflitto») che rappresenta il più grande successo della mediazione europea e smentisce, anche qui, le previsioni più catastrofiche che individuavano come obiettivi irrinunciabili della Russia la caduta dell’aggressore Saakashvili e l’occupazione perenne dell’Ossezia, se non l’occupazione totale della Georgia. Nulla di questo, fortunatamente, è successo.
L’Europa ha saputo mediare mettendosi in mezzo tra Washington e Mosca, ha evitato di isolare Putin, così come Berlusconi raccomandava d’intesa con Sarkozy. Il risultato è che la Georgia si lecca le ferite ma resta indipendente, anche se, dopo quanto è successo, il suo ingresso nella Nato si può intravedere solo col cannocchiale. Rivengono in mente le parole di Berlusconi premier nel 2001, che continuava a sponsorizzare l’ingresso di Mosca nella Nato, tra i rimbrotti e i mugugni di molti. Visto con gli occhi di oggi, e viste le mille tensioni che attraversano le Repubbliche ex sovietiche, una posizione che certo non ha alimentato la diffidenza di Putin verso l’amico Silvio. Anzi. E certe cose, nella vita, prima o poi possono tornare utili.

Forza Russia ovvero l'esaltazione del putinismo

Riprendo da Il Riformista di ieri un interessante articolo di Stefano Cappellini su come la questione del Caucaso sia stata vissuta in certi ambienti nostrani. L’articolo in particolare individua una sorta di partito trasversale favorevole alla Grande Madre Russia, che battezza con l’etichetta “Forza Russia”. Quanto segue è il testo:

Forza Russia, ecco il partito degli amici di Mosca. Filorussi d’Italia: tanti a destra, tantissimi a sinistra, ma qualcuno pure al centro e in alto. Si snoda in gran parte su un asse rosso-bruno il fronte putiniano mobilitato dalla crisi nel Caucaso. Senza dimenticare però che nemmeno in questi giorni complicati il premier Silvio Berlusconi, che voleva la Russia nell’Ue, ha preso le distanze dall’«amico» Vladimir Putin, e che il più autorevole accusatore della Georgia per la crisi in Ossezia del sud è un membro della maggioranza di governo. E che membro: Lamberto Dini, presidente della commissione Esteri del Senato, rinverdisce i precedenti filoserbi di quando era titolare della Farnesina e si esprime così sulle responsabilità del conflitto bellico: «Non c’è dubbio che Saakashvili abbia grandemente sbagliato ad avviare in maniera irresponsabile un’azione militare che ha già provocato migliaia di morti. L’Ossezia del Sud godeva di un’ampia autonomia che Saakashvili ha voluto drasticamente ridurre, provocando l’inevitabile reazione di Mosca». Secondo Dini sbaglia Robert Kagan, teorico neo-con, nel vedere ambizioni putiniane di Grande Russia: «Più che l’affermazione della Grande Russia, vedo una risposta alla Grande Nato. A Kagan si potrebbe rispondere che dall’angolo visuale di Mosca si avverte una strategia degli Usa volta a circondare la Russia con paesi partner della Nato», dice l’ex premier.
Dini è in buona compagnia a sinistra, dove non si capisce mai fino a che punto la simpatia per Mosca sia un vecchio riflesso condizionato o il frutto di un’analisi aggiornata. Marco Rizzo, il più putiniano tra i comunisti italiani, la mette così: «Putin è obbligato a comportarsi come ha fatto, perché se non lo facesse lui, lo farebbero altri». Altri chi? «I comunisti, che restano la seconda forza del paese e vincerebbero le elezioni a mani basse se Putin non reagisse all’aggressività delle nazioni filoamericane che ormai circondano il confine russo». Chiamiamolo marxismoputinismo:
«Putin - dice Rizzo - ha messo fine al processo di occidentalizzazione e al capitalismo di rapina degli anni di Eltsin, restituendo al paese quelle risorse energetiche strategiche che gli oligarchi si erano accaparrati». La posizione dell’europarlamentare del Pdci non è quella ufficiale del partito (il segretario Diliberto, in ferie all’estero, parlerà al ritorno), ma non è certo isolata. Bastava sfogliare Liberazione di ieri: Giulietto Chiesa, collega di Rizzo a Strasburgo, intervistato dal quotidiano di Rifondazione difendeva la Russia su tutta la linea e definiva «una vergogna mondiale» il comportamento dei media internazionali in gran parte schierati con la Georgia. Non si stupisce il trotzkista Marco Ferrando, leader del Pcl, solidale con gli osseti del sud ma insensibile alle ragioni del marxismo-putinismo: «Ci sono pulsioni staliniste sopravvissute alla fine dell’Urss. C’è chi a livello subliminale è convinto che la politica neoimperiale di Putin contribuisca a rispolverare le glorie del passato».
Gianluigi Pegolo, principale esponente della corrente ultracomunista che ha permesso a Paolo Ferrero di insediarsi alla segreteria del Prc, non ci sta a passare per nostalgico, «ma - spiega al Riformista - non c’è dubbio che è la Georgia ad aver rotto l’equilibrio in una regione in cui da anni è in atto il tentativo di erodere le basi di sostegno politico della Russia. Qui si gioca col fuoco». Ferrero, per parte sua, non accetta la logica del tifo: «Questo tra Usa e Russia è uno scontro di potenze al quale bisogna rispondere rilanciando le ragioni del disarmo e dei movimenti pacifisti». Ma per il leader di Rifondazione le responsabilità americane e quelle russe pari non sono: «Si cominciano a raccogliere i frutti avvelenati della politica inaugurata dagli Stati Uniti sul Kosovo e sull’allargamento a est della Nato. Si è scelto di destabilizzare il diritto internazionale, e la colpa è degli Usa. Ma li dobbiamo sconfiggere noi, non delegare il compito a Putin, che di sinistra, peraltro, non ha nulla».
A destra del Pdl, al contrario, più d’uno sarebbe felice di delegare la missione anti-yankee alla Grande Madre Russia.
Roberto Fiore, segretario di Forza Nuova ed europarlamentare, chiede a Strasburgo di «riconoscere formalmente le richieste dell’Ossezia e condannare la violenza della Georgia nonché le interferenze statunitensi nella zona». Casapound, centro sociale romano vicino alla Fiamma tricolore, in un comunicato piange «duemila morti e trentamila profughi». «E questo si legge - il risultato dell’aggressione portata dalla Georgia a danno della popolazione dell’Ossezia del Sud, la cui unica colpa è quella di essere di etnia russa e di voler un ricongiungimento con la madre patria». E se guerra deve essere, commenta il sito noreporter.org, la risposta di ultradestra a Indymedia, «bisogna augurarsi che la vincano i Russi».

Il miracolo secondo il Corriere della Sera

Continuo la rassegna dei commenti, pubblicati ieri, dei principali giornali italiani sul miracolo di Berlusconi. È la volta del Corriere della Sera, sempre saltando titolo e occhielli vari:

Secondo Newsweek i primi passi del governo Berlusconi meritano la lode. Il settimanale americano parla addirittura di «miracolo in cento giorni». I motivi? Ha riportato ordine nel caos del Belpaese. Nell’analisi a firma dell’italiano Jacopo Barigazzi si sottolinea la decisione del premier: «Gli italiani chiedono sicurezza, economica e non solo. E Berlusconi gliela sta fornendo». Il Cavaliere, insomma, potrebbe «aver fatto l’impossibile». E, come esempi, Newsweek cita l`emergenza-spazzatura a Napoli e i provvedimenti per contrastare la criminalità e l’immigrazione clandestina. Anche per questi motivi, la sua popolarità è alla stelle, superiore a quella degli altri leader europei: «Berlusconi ha un’approvazione del 55% - sostiene il giornale -, superiore a quella di Gordon Brown in Gran Bretagna, Nicolas Sarkozy in Francia e Josè Luis Rodrìguez Zapatero in Spagna». A rendere facile la vita al Cavaliere ci sono i dissidi dei suoi avversari politici, «impantanati nei loro bisticci». Incidono poco sulla fiducia dell’elettorato provvedimenti molto discussi come il lodo Alfano, perché - afferma Newsweek - «gli italiani si sentono troppo poveri per prestarvi attenzione».
«Non meraviglia l`editoriale dei settimanale - sostiene il ministro Gianfranco Rotondi -. È sotto gli occhi di tutti lo straordinario lavoro fatto finora dal presidente del Consiglio e da tutto l’esecutivo». Paolo Bonaiuti concorda - «Quello che ha fatto il governo nei primi 100 giorni è lì ed è indiscutibile» - e attacca: «E divertente il silenzio imbarazzato con cui l’opposizione accompagna una serie di giudizi a favore del nostro governo». Pronta arriva la risposta di Paolo Gentiloni, responsabile della comunicazione dei Partito democratico: «Gli esponenti della maggioranza leggano bene quello che scrive Newsweek, perché accanto ad alcuni giudizi positivi c’è anche la constatazione di un profondo malessere sociale ed economico del Paese».

Il miracolo secondo La Repubblica

Riprendo per prima cosa stamattina, dopo aver riportato ieri la traduzione integrale e un paio di articoli, la rassegna dei commenti, pubblicati ieri, dei principali giornali italiani sul miracolo di Berlusconi. Un utile esercizio per capire quali interessi rappresentano ed il grado di “sudditanza” politica agli schieramenti. È la volta di La Repubblica con un articolo di Mauro Favale. Eccolo sempre saltando titolo e occhielli vari:

«Miracolo in cento giorni». Quasi a richiamare lo slogan del 1994, quello della discesa in campo di Silvio Berlusconi che parlava di «un nuovo miracolo italiano», il Newsweek fa il punto dopo tre mesi di governo ed elogia il premier come mai prima d’ora: «Ha fatto l’impossibile - scrive sul settimanale americano Jacopo Barigazzi - per mettere ordine in questa nazione apparentemente ingovernabile, dando prova di risolutezza soprattutto nella crisi dei rifiuti a Napoli e contro la criminalità».
Un’analisi lusinghiera, che prende atto anche dell’approvazione del Lodo Alfano («il conflitto di interessi non è passato inosservato») ma che la archivia così: «Gli italiani si sentono troppo poveri per prestarvi maggiore attenzione», scrive Newsweek. Così, nella mente, resta «il pugno di ferro in un guanto di velluto» con cui Berlusconi si occupa della sicurezza e dell’immigrazione, «nonostante l’opposizione dei gruppi per i diritti umani e dell’Unione europea».
Anche se, conclude l’articolo, «eliminare la spazzatura e perseguitare gli immigrati non sarà sufficiente, perché gli italiani vogliono la stabilità economica».
Se non è una svolta editoriale, per il settimanale statunitense, poco ci manca. Perché il magazine non è mai stato troppo tenero con il premier. Anzi. In passato lo ha anche definito "tycoon showman", esprimendo riserve sulla sua capacità, a 71 anni e alla quinta competizione elettorale, di offrire qualcosa di nuovo.
All’inizio di aprile, poi aveva anche giocato sull’accoppiata Berlusconi-Veltroni: con una copertina e un fotomontaggio a richiamare il "Veltrusconi", l`unico sistema in grado di «tirar fuori l’Italia dai problemi».
L’articolo di Newsweek è musica per le orecchie del centrodestra, il giorno dopo le bacchettate ricevute da Famiglia Cristiana.
Esulta il Pdl: «L’Italia rialza la testa», per Isabella Bertolini.
«Una lezione per la stampa italiana», dice Osvaldo Napoli. «È la fine dell’antiberlusconismo», dichiara Gaetano Quagliariello.
Paolo Bonaiuti, portavoce del premier, getta la croce addosso all’opposizione e al suo «silenzio imbarazzato». Gli risponde Paolo Gentiloni: «Quei giornali considerati nemici manovrati dall’opposizione ora diventano oracoli». E Giovanna Melandri: «Il vero problema è il reddito delle famiglie. Per il governo tutto è un’emergenza tranne questo». E sull’edizione on line del magazine sono numerosi i lettori che non condividono l’analisi del giornalista: «Miracolo? Ma quale miracolo», si chiedono.

mercoledì 13 agosto 2008

Il miracolo secondo Il Giornale

Continuo, dunque, a mostrare come la stampa italiana celebra il “miracolo italiano” di Silvio Berlusconi annunciato al mondo da Newsweek. Come in precedenza mi risparmio i commenti lasciandoli al mio lettore. È la volta dell’articolo di Gian Maria De Francesco, su Il Giornale di oggi saltando titolo e occhiellame vario. Gli altri articoli domani mattina.

«Nei suoi primi 100 giorni in carica, Silvio Berlusconi potrebbe aver fatto l’impossibile: mettere ordine in questa nazione apparentemente ingovernabile raggiungendo un livello mai toccato prima nella storia italiana moderna». Con queste parole Newsweek, settimanale statunitense di area liberal, ha commentato i primi provvedimenti del nuovo governo pubblicando un articolo intitolato «Miracolo in 100 giorni. Come Berlusconi ha messo ordine nella caotica Italia, e cosa accadrà adesso».
Concetti antitetici a quelli che il giornale del gruppo Washington Post aveva utilizzato quando il Cavaliere si candidò per la terza volta alla guida del Paese nel 2001.
A quei tempi Newsweek si interrogava sui motivi per i quali gli italiani avrebbero dovuto concedere fiducia a «un uomo del genere». All’inizio del 2002, invece, Berlusconi fu rappresentato come un «bad, bad boy», un ragazzaccio troppo impertinente per i vecchi ciambellani dell’Ue che lo hanno sempre visto come una minaccia.
Il tempo, però, ha portato consiglio. Il successo berlusconiano, osserva ancora Newsweek, è dovuto al fatto che il presidente del Consiglio «sta mantenendo, gli impegni, con un’abilità "pugno-di-ferro-in-un-guanto-di-velluto"». Berlusconi, ricorda il periodico, ha tenuto fede all’impegno elettorale di riunire il Consiglio dei ministri nel capoluogo partenopeo e ha nominato uno «zar della monnezza» (il sottosegretario Bertolaso; ndr) per risolvere il problema. Il provvedimento approvato a, luglio, che ha dato l’ok a nuove discariche e inceneritori coinvolgendo l’esercito nelle operazioni, ha consentito di annunciare l’eliminazione di 50 milioni di tonnellate di rifiuti dalle strade.
Un’analoga prova di risolutezza è stata fornita anche sul dossier sicurezza. Il premier «ha contrastato la percezione che la criminalità sia in aumento (nonostante i dati dicano altrimenti) e che gli stranieri ne siano i responsabili. Anche in questo caso le contromisure sono state tempestive: «stato d’emergenza per combattere l’immigrazione clandestina» e raccolta delle impronte digitali dei rom. Insomma, «mano pesante contro l’immigrazione e la piccola criminalità».
Newsweek ha pure ricordato come tra i primi atti del governo ci sia stato anche il «lodo Alfano» che garantisce la sospensione dei procedimenti alle alte cariche dello Stato.
Le polemiche sono passate in secondo piano perché «gli italiani si sentono troppo poveri per prestarvi attenzione» perché «quello che vogliono realmente è la stabilità economica» e Berlusconi su questo punto «deve ancora indicare la strada». Anche se la «determinazione» fin qui mostrata «potrebbe permettergli di affrontare i problemi più gravi del Paese».
Ovvia la soddisfazione dell’intero centrodestra.. «E sotto gli occhi di tutti lo straordinario lavoro fatto finora dal presidente del Consiglio e da tutto l’esecutivo», ha osservato il ministro per l’Attuazione del programma, Gianfranco Rotondi. «In sella c’è un governo che non fa polemiche ma dà risposte concrete, e in parallelo sta per nascere un grande partito, il Pdl, che può puntare al 50%+1 dei consensi», ha rilevato il portavoce di Fi, Daniele Capezzone.
«Un simile editoriale è impossibile leggerlo su una qualsiasi pubblicazione italiana», ha dichiarato il vicepresidente dei deputati Pdl, Osvaldo Napoli, rimarcando come in Italia «troppi interessi soffocano quotidiani e settimanali».
Il vicepresidente dei senatori Pdl, Gaetano Quagliariello, ha evidenziato che Newsweek certifica la «dissoluzione dell’antiberlusconismo».
Solo la stoccata del sottosegretario alla presidenza del Consiglio Paolo Bonaiuti sul «silenzio imbarazzato dell’opposizione» dinanzi a una serie di giudizi positivi, ha risvegliato il Pd dal suo torpore.
Alle 20.00 di ieri il responsabile comunicazione dei democratici, Paolo Gentiloni, è riuscito a dettare alle agenzie un invito al governo «a occuparsi dei problemi seri degli italiani». Bei tempi, quelli in cui si poteva sparare a palle incatenate sulle note di «Silvio is unfit»...

Il miracolo secondo La Stampa

Vediamo, dunque, dopo la traduzione nel precedente post, come la stampa italiana celebra il “miracolo italiano” di Silvio Berlusconi annunciato al mondo da Newsweek. Mi risparmio i commenti lasciandoli al mio lettore. Cominciò con l’articolo di Jacopo Iacoboni, su La Stampa di oggi saltando titolo e occhiellame vario:

Sorpresa, il governo di centrodestra è diventato glamour.
E tra i centristi riparte la corsa per trovarci uno strapuntino.
Dai giornali anglosassoni Silvio Berlusconi è abituato ad aspettarsi il peggio (ma anche invettive che gli portano fortuna, da quando l`Economist lo dichiarò unfit to lead Italy, inadatto a governare, e lui ci ha vinto, dopo, un’altra elezione).
Adesso invece è l’americano Newsweek a elogiare i cento giorni del governo, in un pezzo intitolato «Miracle in 100 days» che, fin dal titolo, richiama l’antica formula - che lo stesso Cavaliere sembrava aver abbandonato - del «miracolo italiano». Berlusconi, scrive Newsweek, «nei suoi primi cento giorni in carica ha fatto l’impossibile: mettere ordine in questa nazione apparentemente ingovernabile». S’è sbrigato a fare le sue riforme.
E anche quelle che, come il Lodo Alfano, suscitano dubbi («non è passato inosservato che questa legge presentasse un possibile conflitto d’interessi»), non allarmano poi tanto gli italiani, che «si sentono troppo poveri per farci caso».
Il Paese - prosegue Newsweek - vuole sicurezza «e Berlusconi la fornisce, con una competenza da mano di ferro in guanto di velluto». Silvio è stato bravissimo a Napoli, «emblematica la sua capacità di ripulire la città». In sostanza, per Newsweek il premier ha fatto bene sulla sicurezza; ora però sarà giudicato sull’economia, «e qui la politica del pugno di ferro potrebbe non bastare».
Il titolo del pezzo è stato deciso dal desk in America, significativo segnale di disgelo col berlusconismo; ma il pezzo è di un autore italiano, lo stesso che scrisse l’articolo di copertina sul «Veltrusconi», nel momento in cui anche il Pdl auspicava l’avvio di un dialogo, poi abortito, con Walter. Raccontano nel partito che Paolo Bonaiuti lavora da tempo per «correggere» quelli che al mondo politico berlusconiano appaiono «stereotipi faziosi» sull’Italia. Di qui una particolare attenzione è stata dedicata ai giornalisti stranieri in Italia, «una pratica che era solita fare la sinistra», ricordano nel Pdl.
Così, mentre il Pd impugna Famiglia cristiana, il centrodestra fa lo stesso col magazine americano, in una guerra dei media non estranea alle moral suasion incrociate dei reciproci team del Pdl e del Pd.
Lo si vede dal tono dei commenti, entusiasti. Daniele Capezzone: «Dal settimanale un’analisi lucida, il Pd rifletta».
Giampiero Catone: «Si certifica che il Cavaliere ha fatto anche più di Brown, Sarkozy e Zapatero».
La Loggia: «In cento giorni la concretezza è diventata un fatto». Gaetano Quagliariello: «Un articolo che segna la fine dell’antiberlusconismo».
Archiviato insomma l’Economist, o le articolesse anti-italiane (non antiberlusconiane) del londinese Times, ecco dunque innalzato «il più grande magazine americano». Al punto che il democristiano Gianfranco Rotondi parla di un governo «inaspettatamente glamour», «più forte e affidabile dei precedenti».
Dunque, «in autunno è possibile allargarlo», affinché possa ospitare i tanti figlioli prodighi della costituente di centro, pronti a partecipare anche loro al «miracolo».

Il miracolo italiano di Newsweek

Un articolo di Jacopo Barigazzi su Newsweek occupa oggi lo spazio politico delle rassegne stampa: «Miracle In 100 Days . How Berlusconi brought order to chaotic Italy, and what comes next». “Miracolo in cento giorni” il titolo e il sottotitolo spiega il contenuto: “Come Berlusconi ha portato ordine alla caotica Italia e cosa accadrà prossimamente”. Già da questo piccolo riassunto, dunque, un elogio inequivocabile al Cavaliere: ha portato ordine nel Paese. Ma vediamolo periodo per periodo.
«In his first 100 days in office, Silvio Berlusconi may have done the impossible: to a degree unprecedented in modern Italian history, he asserted control over this seemingly ungovernable nation. The opposition parties are mired in squabbling, and Berlusconi, now prime minister for the third time since 1994, has an approval rating of 55 percent—higher than Britain's Gordon Brown, France's Nicolas Sarkozy or Spain's José Luis Rodríguez Zapatero.» Cioè: “Nei suoi primi cento giorni di carica, Silvio Berlusconi può aver fatto l’impossibile: fino ad un punto senza precedenti nella storia italiana moderna, ha imposto il controllo su questa nazione apparentemente ingovernabile. I partiti di opposizione sono impantanati nei bisticci, e Berlusconi, ora capo del governo per la terza volta dal 1994, ha un consenso stimato del 55 per cento – più alto di Gordon Brown in Inghilterra, di Nicolas Sarkozy in Francia o di José Luis Rodríguez Zapatero in Spagna”. Non male come incipit, no? Ma attenti a lanciarvi in facili esultanze.
«That anyone in Italy has managed to be so successful is surprising. More than most Western European countries, Italy has long been bedeviled by corruption and a system that gives disproportionate political weight to small parties. Berlusconi's predecessor, Romano Prodi, was stymied by his center-left party's tiny Senate majority and the government's fractious nine-party coalition. But Berlusconi, the 72-year-old media mogul, cannily exploited a 2005 electoral law that wiped out these small parties to win a surprise landslide victory from which the opposition is still trying to recover.» Cioè: “Che qualcuno in Italia sia riuscito ad essere così vittorioso è sorprendente. Più della maggior parte dei paesi dell’Europa occidentale, l’Italia è stata a lungo afflitta dalla corruzione e da un sistema che dà un peso politico sproporzionato a piccoli partiti. Il predecessore di Berlusconi, Romano Prodi, era bloccato dalla esigua maggioranza in Senato del suo partito di centro-sinistra e dalla coalizione di governo frazionata in nove partiti. Ma Berlusconi, il magnate dei media settantaduenne, astutamente ha sfruttato una legge elettorale del 2005 che ha cancellato questi piccoli partiti per ottenere una vittoria schiacciante a sorpresa dalla quale l’opposizione ancora sta cercando di riaversi”.
« His center-right party now has 174 seats in the Senate (versus the left's 132) and while he enjoys something of a honeymoon period with the electorate, he has also wasted little time in consolidating his authority. One of his first acts: pushing through a bill that gives the top four national officeholders, including the prime minister himself, immunity from prosecution while in office. The bill passed overwhelmingly last month, and put an end to outstanding criminal proceedings against Berlusconi (which he and supporters say were politically driven).» Cioè: “Il suo partito di centro-destra ora ha 174 seggi in Senato (contro i 132 della sinistra) e mentre godeva del periodo di luna di miele con l’elettorato, ha anche sprecato un po’ di tempo per consolidare la sua autorità. Uno dei suoi primi atti: far approvare una legge che dà alle quattro più alte cariche nazionali, compreso lo stesso capo del governo, l’immunità giudiziaria mentre è in carica. La legge è stata approvata in maniera schiacciante lo scorso mese, e ha posto fine ai processi penali in sospeso contro Berlusconi (che egli e i suoi sostenitori dicono essere pilotati politicamente)”.
« That this new law was a possible conflict of interest did not go by unnoticed, but Italians are feeling too poor to pay it much attention. After 10 years of near-zero economic growth—Bank of America predicts 0.5 percent growth this year—they are demanding security, financial and otherwise. And Berlusconi is delivering, with an iron-fist-in-velvet-glove competence. Emblematic has been his ability to clean up Naples, buried for months under trash in part because the surrounding communities simply did not trust the government to manage the landfills. Ever the showman, Berlusconi held cabinet meetings in Naples—fulfilling a campaign promise to do so until the trash was cleared—and appointed a "garbage czar" to fix the problem. In July, Parliament approved Berlusconi's plan to open new landfills and incinerators, and permit soldiers to protect temporary landfills from angry residents. Days later Berlusconi said 50,000 tons of trash had been removed.» Cioè: “Che questa legge fosse un possibile conflitto d’interessi non era passata inosservata, ma gli italiani si sentono troppo poveri per prestare a ciò molta attenzione. Dopo 10 anni di crescita economica vicina allo zero – la Banca d’America prevede una crescita dello 0,5 per cento quest’anno – essi chiedono sicurezza, , finanziaria e non solo. E Berlusconi sta dando, con una competenza pugno di ferro in guanto di velluto. Emblematica è stata la sua abilità nel pulire Napoli, sepolta per mesi sotto la spazzatura in parte perché le comunità circostanti semplicemente non si fidavano del governo nel gestire le discariche. Sempre uomo di spettacolo, Berlusconi ha tenuto le riunioni di governo a Napoli – mantenendo una promessa elettorale di fare così fino a che i rifiuti non fossero stati raccolti – e nominato uno “zar della spazzatura” per risolvere il problema. In luglio, il Parlamento ha approvato il piano di Berlusconi per aprire nuove discariche e inceneritori, e per permettere ai soldati di proteggere temporaneamente le discariche dai residenti arrabbiati. Qualche giorno dopo Berlusconi ha detto che 50.000 tonnellate di spazzatura erano state rimosse”.
« With a similar resolve he tackled the perception that violent crime is on the rise (despite data showing otherwise), and that foreigners are to blame for it. In July, the government declared a state of emergency to fight illegal immigration and proposed a law mandating fingerprinting for all Roma living in camps in Italy. Berlusconi softened the plan in the face of opposition from human-rights groups and the European Union. But in early August, he deployed thousands of troops throughout Italy in a bid to crack down on immigration and petty crime.» Cioè: “Con una simile decisione ha affrontato la percezione che la criminalità violenta sia in crescita (malgrado i dati indichino diversamente), e che gli stranieri siano da incolpare per ciò. In luglio, il governo ha dichiarato uno stato di emergenza per combattere l’immigrazione illegale e proposto una legge che obbliga a prendere le impronte digitali a tutti i rom abitanti nei campi in Italia. Berlusconi ha ammorbidito il progetto di fronte all’opposizione dei gruppi per i diritti umani e dell’Unione Europea. Ma ai primi di agosto, ha schierato centinaia di soldati per tutta l’Italia in un tentativo di prendere serie misure sull’immigrazione e la piccola criminalità”.
« Such tough tactics could give Berlusconi the cover to tackle some of Italy's deeper issues. Italians now pay some of the highest taxes in Western Europe, at 43 percent, and have some of the lowest salaries—leading to widespread tax evasion. Public debt remains at more than 100 percent of GDP; servicing it costs Italy 5 percent to 6 percent of GDP annually, says Bank of America's Gilles Moec. Berlusconi has pledged to reduce spending (in contrast to his first term), but doing so will make it harder to fulfill a pledge to cut taxes or to stimulate growth. Yet Berlusconi must figure out a way. Italians like him now, but what they really want is economic stability. Cleaning up trash and harassing immigrants won't be enough.» Cioè: “ Tale dura tattica potrebbe dare a Berlusconi la copertura per affrontare alcuni dei problemi più profondi dell’Italia. Gli italiani ora pagano una tassazione tra le più alte nell’Europa Occidentale, al 43 per cento, e hanno salari tra i più bassi – che portano ad una assai diffusa evasione fiscale. Il debito pubblico rimane più del 100 per cento del prodotto interno lordo; il pagamento degli interessi costa all’Italia dal 5 per cento al 6 per cento del prodotto interno lordo all’anno, dice Gilles Moec della Banca d’America. Berlusconi ha promesso di ridurre la spesa ( in contrasto col suo primo mandato), ma facendo così sarà duro mantenere la promessa di tagliare le tasse o di stimolare la crescita. Ancora Berlusconi deve riuscire a capire il modo. Ora piace agli italiani, ma ciò che essi realmente vogliono è la stabilità economica. Rimuovere l’immondizia e molestare gli immigrati potrebbe non bastare”.
Un articolo insomma non proprio neutro, che dà fiducia perché non può proprio non darla, ma che mostra tra le righe un antiberlusconismo velatissimo che oscilla tra il darci dei coglioni e farci santi. Questo comunque l’articolo tradotto paragrafo per paragrafo. Nei prossimi post riporterò gli articoli in proposito dei principali giornali nostrani. Abbiamo l’originale, possiamo smascherare le strumentalizzazioni.

Ancora al sessanta per cento

Il Tempo di oggi pubblica una intervista a Paolo Bonaiuti, raccolta da Fabrizio dell`Orefice, presentata col titolo «E ora gli aiuti ai salari»:

«Non c’è dubbio, l’impegno fisso del prossimo autunno sarà il sostegno ai redditi fissi». Parla piano Paolo Bonaiuti. Scandisce le parole il portavoce di Silvio Berlusconi.
Le pesa, le misura. Solo di tanto in tanto si lascia andare. Come quando, appunto, sostiene l’impegno «per impiegati e pensionati. Prima, però, bisogna chiarire come ci si arriva a questo autunno».
Be’, sembra di capire che ci si arriva piuttosto male. L’inflazione avanza, s’intravedono le ombre della recessione...
«Un momento. Andiamo piano. Anzitutto partiamo da un dato. L’indice di gradimento per Berlusconi è al 63,8% e quello per tutto il governo è poco sotto, al 60. E questo lo sa perché accade?».
La chiamano luna di miele, anche quella è destinata a finire.
«No, non è quello. Berlusconi ha fatto ciò che aveva promesso. Ha detto che avrebbe abolito l’Ici e l’ha fatto. Proprio mentre agli italiani arrivavano i bollettini per pagare l’imposta, questa è stata tolta di mezzo: via, niente più bollettini, niente più file alle Poste».
Poi la detassazione degli straordinari.
«Che è stata una rivoluzione. Ricorda quando Berlusconi in conferenza stampa con Blair aprì alla flessibilità? La sinistra si mise a storcere il naso. Adesso si completa quel processo introducendo il criterio del merito. Poi, da gennaio sarà possibile rinegoziare i mutui con le potenti banche e riportarli ai livelli del 2006. Vuole che continui?».
C’è il capitolo sicurezza, pesantemente criticato da Famiglia Cristiana.
«Abbiamo fatto una campagna elettorale in cui promettevamo più sicurezza, abbiamo vinto con dieci punti in più del Pd, stiamo facendo quello che gli italiani a gran voce ci hanno chiesto. Ho visto che appena sono state varate le pattuglie dei militari, secondo un sondaggio di Sky, l’85% degli italiani era con noi».
Ora anche Newsweek parla di miracolo a proposito dei rifiuti di Napoli. Si sente un po’ santo?
«Per carità, voglio però ricordare che Berlusconi è stato sette volte in due mesi a Napoli e ci tornerà dopo Ferragosto. Si tratta di un metodo di lavoro. Andare sul posto, decidere e non mollare la presa finché non si intravede la soluzione».
Tanto che si parla di Napoli come nuova capitale.
«L’impegno per Napoli vale per tutta l’Italia. Per colpa dei rifiuti in Campania l’intera immagine del Paese era stata danneggiata, ora quell’immagine è stata rilanciata. Ma al di là dell’immagine c’è anche la sostanza: i quattro termovalorizzatori decisi in Campania impediranno disastri futuri».
Tutto ciò, però, potrebbe essere vanificato dall’inflazione che è schizzata, i prezzi che salgono a dismisura.
«Diciamo intanto che abbiamo messo molto fieno in cascina per l’autunno. E combatteremo anche l’inflazione...».
E che cosa farà il governo?
«Il sostegno ai redditi fissi, quello dei dipendenti, dei pensionati, soprattutto delle fasce più deboli sarà l’obiettivo fisso del governo nei prossimi mesi».
Sarà un autunno caldo?
«Il prezzo del petrolio con il Governo Prodi era di settanta dollari al barile, durate il nostro Governo ha raggiunti il doppio anche se negli ultimi giorni è leggermente calato. Gli Stati Uniti hanno portato le loro scorte di petrolio a 300 milioni di barili, un livello mai registrato prima».
C’è poco da stare allegri, il peggio forse deve ancora arrivare.
«Certo, quando le banche americane venderanno sul mercato le case che i loro clienti non sono riusciti a pagare avremo un problema in più per gli istituti Usa ma anche per quelli del resto del mondo».
Altro?
«Di fronte ad una crisi mondiale oppositori come Bersani sparano a zero sulla Manovra del governo che per tre anni non metterà le mani nelle tasche dei cittadini e si limiterà a tagliare spese inutili, sprechi e privilegi. Il leader della Cgil Epifaní lancia addirittura la mobilitazione...».
E allora? Non possono protestare?
«Certo che possono protestare, è loro diritto. Ma dall’opposizione mi aspetterei un altro atteggiamento».
Quale altro?
«Che si dialogasse, si discutesse e magari si cercassero assieme le soluzioni giuste per il Paese».
Più sulle questioni economiche o sulle riforme?
«Su tutt’e due. Sono entrambi temi sui quali sarebbe più che logico dialogare. Noi avevamo creduto che il Pd sarebbe stato quello che Veltroni aveva disegnato al Lingotto di Torino. Ci eravamo illusi che fosse quello delle promesse elettorali».
Invece dopo cosa è successo?
«Veltroni si è messo a rincorrere Di Pietro sulla strada del giustizialismo che si è conclusa con il più grande scivolone che si sia visto. In una sola manifestazione, quella di piazza Navona, sono riusciti ad attaccare il Sommo Pontefice, il Capo dello Stato e il Presidente del Consiglio».
Non è una grande estate per Veltroni, attaccato costantemente dall’interno del suo partito. Come giudica quello che accade nel Pd?
«Non giudico».
Come? Non giudica?
«Non lo faccio mai, almeno quando si tratta di casa d’altri. Mi limito a sottolineare che a Napoli Berlusconi ha collaborato con i sindaci dei capoluoghi, tutti di sinistra, con i presidenti delle Province, anch’essi tutti di sinistra, con il presidente della Regione, di sinistra, e grazie anche a questo spirito di collaborazione si sta risolvendo il problema».
E cosa vuol dire?
«Che quando si va sul terreno delle cose concrete, tutto si può risolvere».
Rotondi apre al ritorno di Casini nel Pdl. Che ne pensa?
«Porte aperte a tutti ma mi sembra un gelatone di ferragosto che si squaglia al sole. Dibattito finito tra qualche giorno».
Di fatto, però, è già iniziata la guerra di successione a Berlusconi.
«Berlusconi è lì, è il leader del Pdl, non c’è nessuna guerra e nessuna successione».

martedì 12 agosto 2008

La sconsiderata follia d'un commercio autolesionista

Massimo de` Manzoni con l’intervento «Cari commercianti, giù i prezzi» su Il Giornale di oggi denuncia i prezzi spropositati applicati su tutti i prodotti dal commercio nostrano autolesionista bugiardo e impazzito. Scrive:

Cari, anzi carissimi commercianti: e se cominciaste ad abbassare i prezzi? Non è una provocazione.
So benissimo che oggi sarò tempestato di telefonate di protesta, mail di precisazione, statistiche che spiegheranno (spiegano sempre tutto, le statistiche, Trilussa docet) come equalmente la vostra categoria sia sull’orlo del lastrico e già oggi praticamente i margini di profitto siano azzerati. Non dubito che per qualcuno di voi le cose possano davvero stare così. E che altri, pur non avendo il problema di mettere insieme il pranzo con la cena, non navighino nell’oro. Se c’è un giornale che ha illustrato le vostre difficoltà, stretti fra tasse vessatorie e problemi di sicurezza, e che vi ha sempre difeso, questo è senza dubbio il nostro.
Tuttavia, lasciatemi ripetere proprio da un pulpito storicamente non certo ostile al popolo delle partite Iva: abbassate i prezzi, vi conviene.
Da mesi ci andate ripetendo che i consumi calano e che se non riprenderanno il Paese non ripartirà.
Nel frattempo ieri l’inflazione ha segnato l’ennesimo record, roba che ormai neanche alle Olimpiadi. Ma a porre rimedio a questa situazione siano chiamati tutti, anche voi. E soprattutto quelli tra voi che un po’ ci marciano.
È normale, a vostro parere, che a Milano un’omelette, una minerale e un caffè vengano fatti pagare 20 euro? Che una pallina (una!) di gelato in un po’ di caffè costi sette euro? Si chiama «affogato», d’accordo, ma qui resta sott’acqua solo il portafogli. Vi siete mai chiesti perché se un supermercato pratica sconti nell’ultima settimana del mese ha la fila davanti a quelle casse che per gli altri 23 giorni sono semivuote? E il flop dei saldi dei capi di abbigliamento? Non vi sfiora il dubbio che, per quanto si ribassi, se la base di partenza era vertiginosa per molti la vetta resti inaccessibile? Quest’anno si stima che il nostro Paese avrà, tra italiani e stranieri, cinque milioni di visitatori in meno: l’equivalente turistico del crollo del 1929 per i mercati azionari, hanno scritto. Colpa del caro petrolio, colpa dell’inflazione, colpa della crisi, colpa della Cina, colpa di Rush. Colpa, ovvio, dello Stato che non ha saputo «vendere» come si deve il prodotto Italia. Ma se sdraiarmi un giorno sotto un ombrellone mi costa più che comprarmene uno, il fatto non incide? Nessun pauperismo, per carità: se decido di cenare nel rinomato ristorante in posizione strategica sul golfo di Sorrento so benissimo a che cosa vado incontro. Però quando la prima sera delle mie due settimane di ferie vado con moglie e due figli in un normalissimo ristorante, ordino quattro secondi piatti, una birra, un litro di minerale e due caffè e mi ritrovo a pagare 135 euro, se permettete, oltre a sentirmi spennato mi sento preso in giro. Risultato: non solo non metto più piede in quel locale, ma nel dubbio la sera dopo mi faccio due spaghetti a casa. E magari anche la sera dopo ancora. Fate due conti, voi che siete senz’altro più bravi di me: siete sicuri di averci guadagnato? E un momento difficile per tutti.
Ma proprio per questo è impensabile tenere gli stessi margini di profitto di quando le cose vanno bene. E la politica di far pagare al cliente di passo anche la quota del cliente mancato, a lungo andare non sembra la più intelligente.
Leggo che l’industria turistica in Francia e Spagna (tanto per citare posti vicini ma che non hanno la metà delle nostre bellezze artistiche e naturali) viaggia a pieno vapore e ogni anno attrae sempre più visitatori. In gran parte sottratti al Belpaese. Voi, carissimi commercianti, non ne avrete alcuna responsabilità, senza dubbio.
Però a me torna in mente quel piccolo operatore turistico austriaco che ho conosciuto a Vienna l’estate scorsa. Uno che organizza tour in pullman per l’Europa. Persona colta e squisita, sinceramente innamorata dell’Italia.
«Fino a qualche anno fa», mi raccontava mentre eravamo a tavola, «eravate la mia meta preferita. E da voi mi sono sempre trovato benissimo. Ora, con la morte nel cuore, vi ho cancellato. Le lamentele dei miei clienti cominciavano appena dopo il confine, quando risalivano a bordo dopo la sosta all’autogrill per un panino, una bibita, un caffè: si sentivano truffati. Mi spiace, ma lì siete diventati tutti matti». Ho chiesto il conto, ho sbirciato la ricevuta, l’ho guardata un’altra volta per essere sicuro di non aver letto male, poi ho allargato le braccia: «Mi sa che ha ragione...».

lunedì 11 agosto 2008

L'ultima Olimpiade


«Fine dei giochi» è un articolo su L’Unità di oggi di Oliviero Beha. L’articolo evidenzia l’ipocrisia della declamata “tregua” olimpica. Non a caso, per meglio illustrare i concetti espressi da Beha, sopra ho ripreso dalla Reuters, quella fotografia tanto esteticamente intrigante quanto altrettanto evocante un possibile emblema delle Olimpiadi nel mondo odierno.

Venerdì scorso, giornata inaugurale delle Olimpiadi, sui giornali titoli e foto in evidenza da prima pagina erano in buona parte dedicati alla fantasmagorica edizione numero 29 dei Giochi Moderni.
Sabato quello spazio già si divideva tra la cerimonia inaugurale di Pechino e la guerra in Ossezia. Ieri, fatti salvi i giornali sportivi che ne sono il logico indotto di marketing, la prima giornata olimpica cedeva a immagini strazianti del conflitto e dei civili uccisi o soccorsi.
Sempre ieri l’Italia ha vinto il suo primo oro cinese nella spada individuale con Matteo Tagliariol, un fuoriclasse di Treviso di 25 anni.
Gioia dell’olimpionico, della famiglia, dei dirigenti sportivi italiani presenti, i soliti Petrucci e Carraro, del team azzurro, degli sportivi italiani, degli italiani innamorati del tricolore che non fanno gestacci all’Inno di Mameli, ecc. Mondi separati dunque? Che si deve fare? Chiedo lumi a Brecht, a una sua poesia in tempo di guerra intitolata «A quelli nati dopo di noi» : «...Che tempi sono questi in cui / un discorso sugli alberi è quasi un reato / perché comprende il tacere su così tanti crimini!...». Una volta c’era la cosiddetta "tregua olimpica" di ellenica memoria, per cui si sospendevano le guerre per le gare. Adesso i tycoon del Cio, a partire dal suo presidente Rogge, da Pechino esplicitamente affermano «non è affar nostro, ci pensi l’Onu» e implicitamente ratificano che la tregua olimpica è una panzana retorica e quel che conta è il denaro, negli stadi, negli studi tv come nel massacro in Ossezia dove in ballo c’è molto di più il petrolio e il suo mercato occidentale che non "diversità di vedute" sull’identità nazionale osseta.
Per carità, già nel 1936 la torcia olimpica ardeva per iniziativa di Hitler e dei suoi sodali, e sulla prima torcia berlinese simbolo di fratellanza tra i popoli c’era il marchio Krupp poi tristemente noto nella fabbricazione delle armi belliche.
Ma stavolta, sul pianeta evoluto di cui ci vantiamo di far parte, dopo una marea di polemiche più o meno sincere (meno, più ipocrite) sui diritti umani e civili nebulizzati dalla Repubblica di Cina addirittura si è passato ad uno start contemporaneo delle gare e della guerra. Non ricordo personalmente una simile simultaneità. Evidentemente ci si evolve. Dai tempi di Hitler e della sua torcia ne abbiamo fatta di strada sulla via della modernità...
Intanto in una con le bombe a casa loro sfilavano a Pechino gli atleti georgiani che si erano detti pronti a tornare in patria per cambiarsi di divisa. Intanto il presidente georgiano se ne usciva con l’assurdità del monito «rimanete ma vincete». Serve altro per domandarci se siamo alla fine delle Olimpiadi? Aiuta a porsi una domanda simile il fatto che nel frattempo dopo gli attentati di Kashagar di lunedì, ieri ci sono stati altri otto morti nella regione del Xinjiang? Sempre di Cina, dell’immensa Cina si tratta. Della Cina olimpica, dico. Di questa Cina sotto gli occhi tecnologici del pianeta.
Ci stanno rubando - se non ci hanno già rubato - le Olimpiadi, questo è il punto. Ce le mostrano a condizione che ci dimentichiamo di tutto il resto (cfr. Brecht), con il ricatto psicologico pseudorealista e in realtà supercinico che tanto il mondo è questo, e quindi "perché privarci di un fenomenale spettacolo?". Sarebbe una rinuncia in perdita. Come se la fine delle Olimpiadi, ovvero il loro snaturamento, la loro mercificazione, la simonia in terra di Olimpia dipendessero da noi e non da loro, che hanno usato i Giochi per tutt’altro, con il "collaborazionismo" di tutto il mondo sportivo.
Facciamo un esempio ancora più chiaro.
Si dice che a Pechino ci sia tantissimo smog, nel senso letterale e non metaforico di un inquinamento mostruoso che rende difficile respirare e camminare, figuriamoci gareggiare. Non viene misurato credibilmente. Voglio dire che se la percentuale di inquinamento fosse troppo alta, manifestamente troppo alta, le autorità locali scientifiche o politiche (coincidono) fornirebbero certamente numeri diversi.
Più bassi. Tollerabili. Non lo fanno solo i cinesi, il giochetto delle centraline di monitoraggio usate a proposito è cosa nota anche da noi, Europa, Italia ecc. Ebbene, la domanda è: quanto smog possono sopportare gli atleti? C’è un limite? A che punto si dovrebbe arrivare per dire basta? Trasferite questo interrogativo dando allo smog politico tutto l’ampio significato che deve assumere. Quanto smog politico, in termini di diritti umani e civili nella Cina ospitante, dei morti periferici relativi, della guerra contemporanea in Georgia e forse non solo in Georgia, nei prossimi giorni, quanto smog politico può sopportare un’Olimpiade e il cosiddetto spirito olimpico? Non siamo già oltre il tollerabile mentre si manomettono nemmeno troppo metaforicamente le centraline di monitoraggio? Forse le fotografie dall`Ossezia vicino alla faccia giustamente sorridente di Tagliariol possono contribuire a una risposta.

Sindaci sceriffi in difesa della legalità

Mario Cervi oggi su Il Giornale ha pubblicato un commento ottimista sui sindaci sceriffi. L’idea di Maroni è indubbiamente buona e non può trovare che consenso. Da annotare una cosa in merito a questo articolo ma la stessa nota poteva essere fatta anche per altri articoli riportati in precedenti post, ad esempio quello dove l’articolista descrive i risultati pratici nei vari luoghi d’Italia della cura Brunetta. Ciò che si descrive come un fenomeno “anormale”, ad esempio la storiella finale, non è altro che una testimonianza che culturalmente esistono già più “Italie” e che perseverare nell’idea di regolarle tutte ad un'unica ora come se fossero un orologio, una filosofia ereditata dai “conquistatori” sabaudi, non può che ineluttabilmente portare alla definitiva disgregazione. Ecco il testo dell’articolo intitolato «Non sprecate i superpoteri»:

Per istinto, per logica, per insofferenza d’un buonismo deteriore, per ribellione alle troppe latitanze dello Stato sono favorevole all’accresciuto potere dei sindaci. È evidente che il potere centrale non riesce a tenere il passo della società, che molte leggi vengono emanate con enorme ritardo, che il Viminale non è in grado di valutare tempestivamente - per intervenire con efficacia - situazioni di grave degrado locale. Lode dunque al ministro dell’Interno Maroni che ha sollecitato i sindaci a varare ordinanze «creative» in materia di ordine pubblico.
Dal punto di vista della quantità non è stato deluso. Gli sceriffi d’Italia ne hanno pensate tante: dalle pistole ai vigili - che si trovano non di rado a dover fronteggiare brutti ceffi - alle regole più severe contro la mendicità e contro la prostituzione.
E poi divieti di frugare nei cassonetti, di bere birra in strada, e altro.
È facile fare dell’ironia, o anche del moralismo spicciolo, su questa valanga dì niet. Cerco di non cedere alla tentazione, e ritengo ad esempio che gli strenui difensori dei mendicanti fingano d’ignorare la realtà: ossia che in massima parte i loro protetti o sono professionisti che lavorano in proprio o, peggio ancora, sono, schiavizzati da turpi organizzazioni. Tuttavia la norma di Voghera che vieta di sostare in più di tre persone nei parchi pubblici dopo le 23 mi inquieta, e la norma di Cortina d’Ampezzo che caccia dalle vie del centro «i falsi promotori sociali» mi pare enigmatica.
Detto questo devo aggiungere che le perplessità accennate all’inizio non derivano tanto dalla sostanza, dei provvedimenti quanto dalla loro eterogeneità caotica. La legislazione italiana ha sempre avuto la pretesa dissennata di prevedere e regolare tutto, e non invidio Calderoli che deve addentrarsi col machete in quella giungla. La giustizia, ordinaria e la giustizia amministrativa si ritengono capaci di affrontare le innumerevoli varianti dei comportamenti individuali e collettivi.
Sono invece capaci di poco, e quel poco in anni e anni. Ma anche il demandare le decisioni a entità locali, in un Paese che di suo è già a brandelli, presenta rischi grossi. Non occorre una penetrante indagine, basta un qualsiasi filmato del traffico cittadino per costatare che a Milano si va in moto col casco, pena la multa, a Palermo si può passare senza casco, indisturbati, sotto il naso di un vigile. E poi, ammettiamolo, l’unica creatività importante a livello locale è stata realizzata ultimamente dal potere centrale con l’eliminazione dei rifiuti di Napoli. Dovuti, i rifiuti, alla creativa amministrazione comunale e regionale. Non capiterà che le ordinanze creative creino ulteriore confusione? Lo accenno soltanto. Sapendo che i paradossi della giustizia e della legge sono in Italia una vecchia storia.
State a sentire. Tanti anni or sono ero amico d’un magistrato che aveva prestato servizio a Palmi, cittadina piuttosto vivace, almeno allora, in fatto di accoltellamenti.
Un altro magistrato di Palmi era stato trasferito a Orvieto e dopo qualche tempo aveva fatto visita ai colleghi rimasti sul posto. «Come va a Orvieto?» fu la loro domanda. «Non c’è niente da fare. Figuratevi che per dare un po’ di lavoro alla Corte d’Assise, a Orvieto rubrichiamo come tentato omicidio quello che a Palmi rubrichiamo come lesioni lievi».

L'importanza della ricerca per il nostro Paese

Sempre da Il Messaggero di oggi traggo questo «Ricerca, la scommessa cruciale del paese» di Enrico Garaci, presidente dell’Istituto Superiore di Sanità, che focalizza il problema della ricerca, in particolare quella medica, nel nostro Paese:

Sviluppo economico e ricerca sono un indissolubile binomio.
E se la ricerca rappresenta un motore determinante dell’economia di un Paese, la scarsa innovazione esistente nel nostro è facilmente attribuibile allo scarso investimento in ricerca. Vale la pena ricordare qualche numero purtroppo noto e invariato ormai da tempo che parla di una spesa italiana per la ricerca che, rispetto al Prodotto interno lordo (Pil), è dell’1,1 % contro la media europea dell’1,9%, con una percentuale di occupati nel settore che si attesta al 3% contro il 6% dell’Europa.
E tutto questo nonostante i ricercatori italiani, in una classifica di 140 Paesi, si siano attestati al settimo posto per numero di pubblicazioni e di citazioni per quanto riguarda la ricerca di base, quella da cui nasce tanta innovazione.
Meno citato, ma altrettanto cronico, un altro anello debole della catena nel sistema ricerca in Italia è la capacità di valorizzazione economica e sociale di questo patrimonio di conoscenze comunque prodotto dai nostri ricercatori. Questo circuito virtuoso, ben sviluppato in altri paesi e grazie al quale un prodotto della conoscenza si trasforma in un prodotto utilizzabile dalla società intera, è quello che si chiama in altre parole il trasferimento tecnologico dei frutti della ricerca scientifica e che può avvenire solo attraverso un’integrazione tra Accademia, Finanza e Industria, elementi chiave, la cui sinergia, da sola, può rivitalizzare le imprese e dare respiro alla nostra economia.
Nella ricerca biomedica tutto questo si traduce con la formula from bench to bedside, ossia dal laboratorio al letto del paziente e, in italiano, si traduce con il termine ricerca "traslazionale", cioè quella ricerca finalizzata agli studi clinici, alle terapie per curare i pazienti. Ed è questo passaggio che va valorizzato, altrimenti anche i frutti della ricerca di base, quella guidata dalla curiosità, non riescono a trasformarsi per entrare in un circuito vitale ed essere restituiti alla collettività.
Un primo passo nel cambiamento del modo di intuire la scienza e il suo ruolo nella nostra società è stato fatto dalla legge Tremonti che ha stabilito in alcuni casi la proprietà del brevetto da parte del ricercatore. Non è un caso, probabilmente, che nel 2007, anno del record di brevetti depositati, quelli di origine italiana siano stati del 4,7% superiori rispetto alla media internazionale.
Un segnale importante in direzione dell’avvicinamento dell’Italia ai Paesi come Francia. Inghilterra e Germania, ma che non basta a colmare il divario che ci separa da loro e per cui servono ancora altri provvedimenti in questa direzione.
Ciò significa interventi che favoriscano la volontà di investimenti di capitale come, per esempio, il co-investimento da parte di un fondo pubblico al fianco di capitale privato o il rimborso di spese derivanti da investimenti di questo genere nella fase di creazione di nuove imprese mirate al trasferimento tecnologico della ricerca.
Serve la creazione di una cultura brevettuale, nel cui ambito promuovere azioni per rendere appetibili all’industria i brevetti italiani e coordinare le attività di tutti gli attori istituzionali.
L’Istituto Superiore di Sanità marcia da anni in questa direzione. Da tempo ha dedicato risorse specifiche alla gestione dei brevetti. che negli ultimi anni sono cresciuti in modo esponenziale, ma ciò che è ancora più importante è creare un’attività di coordinamento a sostegno della traduzione in risultati tangibili di queste attività.
Un esempio in questa direzione arriva dalla Sardegna. La creazione della Società "Fase 1", con capitale interamente pubblico, che intende, attraverso bandi pubblici, promuovere lo sviluppo di brevetti nel settore biomedico fino alla fase iniziale di sperimentazione clinica.
Lungo questa direttiva bisogna assumere ulteriori iniziative che attraverso un coordinamento possono potenziare il processo di traslazione attraverso l’istituzione di appositi Centri che forniscano tutto il necessario sostegno per la protezione e valorizzazione dei brevetti.
Questi rappresentano passi concreti, insomma, per promuovere il frutto della ricerca italiana e per fare in modo che a fruirne sia prima di tutto la collettività.

Le ragioni del federalismo

«Federalismo, ecco la vera sfida» è un articolo di Angelo Maria Petroni pubblicato da Il Messaggero di oggi, lunedì 11 agosto 2008. Interessantissimo, vediamolo senza commenti:

La questione federale è diventata l’orizzonte ineludibile del sistema politico italiano. Su questo oramai sembrano esservi pochi dissensi, sia da parte di chi vi è favorevole sia da parte di chi vi è contrario. Tuttavia la dimensione ideologica del federalismo sembra ancora prevalere fortemente su quella conoscitiva e tecnica. Può essere quindi utile richiamare alcuni fatti. Il primo fatto è che ovunque nel mondo i Paesi con una struttura dello Stato di natura federale, sono in genere più prosperi dei Paesi che hanno una struttura dello Stato di stampo centralistico.
Il secondo fatto riguarda il processo di decentramento degli ultimi anni.
Nella grandissima parte dei Paesi occidentali negli ultimi due decenni si è assistito ad un forte processo di trasferimento dei poteri dallo Stato centrale ad entità territorialmente e funzionalmente più limitate. Questo processo ha preso la forma del "ritorno dei poteri" dal governo federale agli Stati negli Usa, della "devoluzione" nel Regno Unito, della creazione delle comunità regionali in Spagna, della creazione delle regioni in Francia (il prototipo stesso dello Stato centralistico!), dell’ampliarsi dei poteri dei Laender in Germania. Il processo ha rovesciato una tendenza verso la centralizzazione durata per due secoli almeno, e che ha riguardato tutti gli Stati, sia quelli unitari che quelli federali.
Il terzo fatto è che i Paesi che più si sono spinti sulla via del trasferimento dei poteri dal "centro" alla "periferia" sono quelli che hanno avuto il maggior sviluppo economico. Si pensi alla Gran Bretagna, ma si pensi anche alla Spagna, ove il 60% della spesa pubblica avviene a livello regionale. Si badi bene: lo sviluppo non ha riguardato soltanto le regioni che erano già le più sviluppate, ma ha riguardato anche, e soprattutto, le regioni che erano più povere. In Spagna l’Andalusia, regione povera del Sud, si è sviluppata proporzionalmente più della già ricca Catalogna. Lo stesso è vero negli Stati Uniti. Quando il governo centrale di Washington ha fatto un passo indietro, restituendo molti dei poteri che aveva centralizzato a partire dal New Deal, a svilupparsi maggiormente sono state proprio le aree meno prospere: ad esempio, gli Stati del Sud, tant’è che oggi il flusso migratorio interno non va da suda nord, come una volta, ma da nord a sud.
Il quarto fatto è che, mentre alla centralizzazione degli Stati che si è avuta per la gran parte del secolo scorso ha corrisposto un incremento delle dimensioni della spesa pubblica, anche per la burocrazia, gli elementi di federalismo che sono stati introdotti negli ultimi venti anni nei principali Paesi dell’Ocse hanno portato comparativamente ad un contenimento (almeno) della dinamica della spesa pubblica.
Non è certamente un caso se tutti i grandi organismi internazionali raccomandano il decentramento federalista per migliorare la qualità della governance, per contenere la spesa pubblica, e per favorire la crescita economica.
L’evidenza empirica dimostra due ulteriori fatti fondamentali a favore della trasformazione in senso federale degli Stati centralizzati. Il primo è che il decentramento federale permette di produrre dei "beni pubblici", come la sanità, l’istruzione, i servizi sociali, che meglio corrispondono alle vere esigenze dei cittadini. Il secondo è che un’amministrazione federale è più trasparente, e diminuisce il grado di corruzione. Tutto ciò non può sorprendere, perché il federalismo aumenta la partecipazione ed il controllo da parte dei cittadini e delle imprese sul governo e sulla pubblica amministrazione.
La differenza tra stati federali e stati centralizzati sta in due fenomeni distinti e collegati. Il primo di essi è che i cittadini, attraverso la comparazione con quanto viene offerto dai sistemi vicini, dispongono di un’informazione sull’efficienza e l’efficacia del proprio sistema della quale non potrebbero disporre - o disporrebbero in maniera molto meno chiara e diffusa - in uno Stato centralizzato. Il secondo di essi è che la limitata dimensione delle entità federate rende comparativamente poco costoso lo spostamento delle persone e delle attività produttive in altre aree. In tal modo i cittadini hanno un metodo ulteriore a quello dei voto di sanzione per controllare che il governo applichi il programma con il quale è stato eletto. Inoltre le possibilità di estrazione della rendita politica, con la creazione di privilegi per le maggioranze a scapito delle minoranze, viene ad essere ridotta. L’analisi di numerosi casi mostra come gli effetti congiunti dell’informazione e della possibilità di migrazione rendano le politiche delle entità in competizione molto sensibili alle preferenze dei cittadini. Questo effetto si verifica anche in casi in cui i sistemi tra i quali gli individui possono scegliere sono rappresentati da Stati sovrani, in presenza di bassi costi di spostamento dall’uno all’altro.
Questo non significa che il federalismo, politico e fiscale, comporti automaticamente una diminuzione della spesa pubblica, e quindi della tassazione. Tutto dipende da quali sono le preferenze dei cittadini. E perfettamente possibile, e perfettamente apprezzabile, che in alcune entità federate (in Italia, le Regioni) i cittadini vogliano più servizi pubblici, e quindi siano disposti a pagare maggiori imposte per finanziarli.
Il fatto fondamentale è che un più alto livello della spesa pubblica, e quindi della tassazione, sia il risultato di una scelta consapevole ed informata dei cittadini, non di un processo guidato dalla logica degli interessi di parte e della rendita politica, a livello locale o nazionale.
Attribuire al federalismo un inevitabile aumento della spesa pubblica, come si sente spesso affermare oggi di fronte alla introduzione del federalismo fiscale, è quindi un errore.
Domanda: perché ciò che si è prodotto pressoché ovunque nel mondo non dovrebbe prodursi anche in Italia? L’onere della prova spetta decisamente a chi sostiene la tesi contraria.


domenica 10 agosto 2008

Fuori dai denti

L’AdnKronos riporta in un lancio di agenzia questo lapidario giudizio del segretario del Prc, Paolo Ferrero: "Un parlamentare europeo come Mario Borghezio, esponente di un partito di governo e al governo del Paese come la Lega Nord di Umberto Bossi, che si reca a un raduno di sigle e movimenti neofascisti, xenofobi e pericolosi in nome della guerra all'Islam - raduno che è l'equivalente sostanziale di un raduno di partiti nazisti e razzisti - la dice lunga su quale sia la 'cultura di governo' che anima un partito come la Lega ma anche quella dell'esecutivo delle destre oggi al potere in Italia". Fare di tutta l’erba un fascio, abusando oltre la modica quantità di slogan e luoghi comuni triti e ritriti e ritritati una cento mille volte, è lo sport preferito di chi non ha argomenti perché ormai un caro estinto senza se e senza ma; e, dunque, da cadavere politico qual è il partito della rifondazione estrema tenta di scuotersi da dosso la terra che lo sta seppellendo cercando aria e spazio almeno nei media. Non sorprende, ma ciò che sorprende è la perdita di lucidità, i salti logici con cui si pensa di incantare qualcuno più importante d’uno sfigato. Lungi da me difendere Borghezio o esaltare le sue frequentazioni e le sue partecipazioni a raduni strani, però una cosa va detta: l’idiozia di certi attacchi come quello qui riportato o le aggressioni subite fanno pensare che pur nella grossolanità della sua azione e denuncia politica qualche nervo scoperto l’esponente leghista ben finisca col toccarlo in certi ambienti radicali. E, dunque, Borghezio è uno dei tanti panda che il buon senso dovrebbe portare a salvaguardare, qualunque cosa di lui si pensi, dall’azione sterminatrice di chi vede nell’avversario politico scomodissimo uno da cancellare, magari - come la storia passata ci ha anche insegnato – anche fisicamente, dal panorama politico nostrano.

Il 7 agosto, giovedì al-Jazeera ha dichiarato ''il Governo italiano ostile'', ostile agli immigrati. Il conduttore dell'edizione mattutina del tg arabo ha presentato un reportage realizzato a Padova dicendo che "il ritorno della destra ha influenzato in modo negativo la convivenza tra le comunità di stranieri e gli italiani e la città veneta ne è il simbolo''. Addirittura ''Un politico ha chiesto di aprire il fuoco contro i gommoni dei clandestini''.
Così l’Adnkronos/Aki riportava la cosa:
"Il ritorno della destra al governo ha influenzato in modo negativo la convivenza tra le comunità di stranieri e gli italiani, visto che (i partiti, ndr) alleati sono noti per essere ostili agli immigrati. La città di Padova è il simbolo di questa influenza negativa". È con queste parole che il conduttore dell'edizione mattutina del Tg arabo di 'al-Jazeera' ha presentato oggi un reportage realizzato dall'emittente qatariota nella città veneta. "In un paese tradizionalmente aperto agli immigrati, sembra che abbiano avuto eco i discorsi pronunciati da alcuni politici ostili agli immigrati", spiega il giornalista Nureddin Bouziane.
Per sostenere la sua tesi, Bouziane intervista un giovane tunisino di nome Ali, residente nella zona, che afferma: "Gli italiani vedono tutti gli immigrati, e in modo particolare quelli provenienti dal Nordafrica, come persone che vengono per vendere la droga o compiere crimini e per questo non danno loro lavoro". Il servizio mostra poi la moschea di via Anelli, parlando delle richieste di chiusura del centro islamico provenienti da alcuni politici locali e aggiungendo che "per il centrodestra in quella moschea ci sono quelli che definiscono terroristi".
Nel reportage vengono poi intervistati attivisti che sostengono la comunità islamica locale e la moschea. Attraverso la loro testimonianza si mostra il "lato buono" degli italiani, con le immagini di cittadini che partecipano a una festa di immigrati. "Un politico di un partito di estrema destra ha chiesto alle navi italiane di aprire il fuoco contro tutti i gommoni che trasportano clandestini - afferma il giornalista concludendo il suo reportage - mentre un altro deputato ha chiesto di impedire ai figli degli immigrati di seguire gli studi".
Per un servizio maldestro come quello dell’emittente araba ci si potrebbe indignare. Sarebbe giusto farlo: semplicemente stravolge la realtà, come tanti altri interventi dall’estero pilotati dallo sfascismo nostrano. Ma bisogna saper cogliere in positivo ogni cosa e così si può dire che il servizio di al-Jazeera aiuta perché fa pubblicità negativa circa l’accoglienza del nostro Paese verso gli immigrati clandestini. Se il “lato buono” degli italiani nei confronti degli immigrati si riduce ai pochi militanti della sinistra radicale, forse un effetto deterrente lo si ottiene. Se al-Jazeera ventila la possibilità che i nostri guardacoste, sempre così solleciti nei soccorsi, si mettano di punto in bianco a sparare come Zapatero contro i gommoni o contro i barconi, magari qualcuno comincia a pensare all’Italia come un paese normale dove si può sì immigrare ma secondo le regole, rispettando le leggi e i doveri e non solo reclamando diritti senza base alcuna se non la disperazione. E, dunque, se non vuole rispettare le regole, se ne sta a casa o va altrove.

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