Utile per la riflessione questo intervento di Margherita Boniver, presidente del Comitato Schengen, immigrazione ed Europol, su una questione per molti versi critica, criticata e strumentalizzata dall'opposizione. "Il vero razzismo è non insegnare l'italiano ai bambini immigrati" è il titolo del documento pubblicato ieri da "Libero". Se razzista insomma invece non fosse proprio chi tira per primo il sasso, la sinistra?
La polemica sulle "classi ponte" porta alla luce non solo i ritardi culturali del nostro Paese in materia di immigrazione, ma anche la malafede della sinistra e di quella parte del mondo cattolico pregiudizialmente ostile al centrodestra. Famiglia Cristiana, commentando la mozione presentata alla Camera, ha scritto addirittura che si tratta del "primo provvedimento razziale del Parlamento". Altri hanno parlato di "apartheid" e "classi-ghetto". Ricordo i commenti sdegnati alla iniziativa sul rilevamento delle impronte ai bambini nomadi. Era chiaro che si trattava di una misura volta a tutelare i minori, tanto è vero che la Commissione europea l'ha poi dichiarata legittima. Ma allora si evocarono addirittura i fantasmi della persecuzione contro gli ebrei nel Terzo Reich.
Insomma, sembra quasi che da quando Berlusconi è al governo l'Italia sia diventata la patria del razzismo e xenofobia.
Reazioni isteriche, si dirà. In parte è così. Ma c'è anche una chiara strategia volta a impedire che sul tema dell'immigrazione si sviluppi una politica pragmatica, in grado di risolvere i problemi sia degli immigrati sia dei cittadini italiani, nell'ottica di una progressiva integrazione (tra poco avremo anche noi la "seconda.generazione" di immigati, come altri Paesi europei). La verità è che la "solidarietà" e il "dialogo culturale" sono ormai un business, quantomeno in termini politici. È uno spazio significativo per coltivare consensi e per avere un ruolo sociale, pur in assenza di proposte concrete: finché i problemi dell'immigrazione rimarranno irrisolti, ci sarà sempre molto lavoro per i demagoghi della "multiculturalità".
La mozione presentata in Parlamento sull'accesso degli, studenti stranieri alla scuola dell'obbligo viene demonizzata proprio perché, in maniera pragmatica, va a colmare un vuoto giuridico e amministrativo. Sono sempre più numerosi, soprattutto nelle aule scolastiche del Nord, i bambini che non riescono a interagire con i compagni di classe o con gli insegnanti per la semplice ragione che non conoscono l'italiano. Le scuole sono state lasciate sole, finora, davanti a questo problema e si sono affidate alla buona volontà di qualche mediatore culturale o di qualche amministratore locale, organizzandosi alla meno peggio. Ma lo Stato non può non intervenire in una materia tanto delicata, che riguarda la costruzione dei percorsi formativi per i giovani immigrati e la qualità della didattica nella scuola primaria.
L'immigrazione, infatti, quella regolare, beninteso, non è più un'emergenza da risolvere, ma un fenomeno strutturale della nostra società. La situazione italiana, presenta, poi, alcune significative peculiarità. Tra queste c'è la enorme varietà dei Paesi di provenienza dei nostri immigrati. Ciò vuol dire che il rischio della formazione di comunità-ghetto isolate dal contesto sociale, ovvero potenzialmente autosufficienti e conflittuali verso l'esterno, è piuttosto contenuto. D'altra parte, questa peculiarità comporta un supplemento d'impegno, da parte delle autorità italiane, nelle politiche di integrazione, in particolare per quel che riguarda la garanzia delle pari opportunità per gli stranieri, sia nel mondo della formazione sia nel mondo del lavoro.
Ricordo che da bambina, a Washington, dove la mia famiglia era arrivata perché mio padre era un diplomatico, con mio fratello abbiamo frequentato per alcune settimane dei corsi in una "americanization school" dove imparammo l'inglese e i fondamentali della Costituzione americana, prima di essere iscritti alle normali scuole americane. E un'esperienza comune, del resto, a molti Paesi europei, dove, in ambito scolastico, sono previsti spazi e tempi dedicati ai ragazzi immigrati, allo scopo di superare le difficoltà di inserimento di ordine linguistico e culturale.
La classe ponte è uno strumento di integrazione, non di ghettizzazione come, per fortuna, autorevoli esponenti del mondo cattolico hanno recentemente ribadito, a cominciare dal cardinale Martino. Il "ghetto" non è quello della classe dove i bambini stranieri imparano i rudimenti della nostra cultura, ma è quello interiore, che nasce dall'impossibilità di comunicare. Inserire un bambino in un gruppo di cui non comprende la lingua, significa condannarlo all'isolamento o all'antagonismo sociale. Ma forse è proprio questo che vuole chi, ieri sul rilevamento delle impronte ai bambini nomadi e oggi sulle classi ponte, accusa il centrodestra di razzismo: a loro, evidentemente, conviene che l'emergenza-immigrazione non debba mai avere fine.
Insomma, sembra quasi che da quando Berlusconi è al governo l'Italia sia diventata la patria del razzismo e xenofobia.
Reazioni isteriche, si dirà. In parte è così. Ma c'è anche una chiara strategia volta a impedire che sul tema dell'immigrazione si sviluppi una politica pragmatica, in grado di risolvere i problemi sia degli immigrati sia dei cittadini italiani, nell'ottica di una progressiva integrazione (tra poco avremo anche noi la "seconda.generazione" di immigati, come altri Paesi europei). La verità è che la "solidarietà" e il "dialogo culturale" sono ormai un business, quantomeno in termini politici. È uno spazio significativo per coltivare consensi e per avere un ruolo sociale, pur in assenza di proposte concrete: finché i problemi dell'immigrazione rimarranno irrisolti, ci sarà sempre molto lavoro per i demagoghi della "multiculturalità".
La mozione presentata in Parlamento sull'accesso degli, studenti stranieri alla scuola dell'obbligo viene demonizzata proprio perché, in maniera pragmatica, va a colmare un vuoto giuridico e amministrativo. Sono sempre più numerosi, soprattutto nelle aule scolastiche del Nord, i bambini che non riescono a interagire con i compagni di classe o con gli insegnanti per la semplice ragione che non conoscono l'italiano. Le scuole sono state lasciate sole, finora, davanti a questo problema e si sono affidate alla buona volontà di qualche mediatore culturale o di qualche amministratore locale, organizzandosi alla meno peggio. Ma lo Stato non può non intervenire in una materia tanto delicata, che riguarda la costruzione dei percorsi formativi per i giovani immigrati e la qualità della didattica nella scuola primaria.
L'immigrazione, infatti, quella regolare, beninteso, non è più un'emergenza da risolvere, ma un fenomeno strutturale della nostra società. La situazione italiana, presenta, poi, alcune significative peculiarità. Tra queste c'è la enorme varietà dei Paesi di provenienza dei nostri immigrati. Ciò vuol dire che il rischio della formazione di comunità-ghetto isolate dal contesto sociale, ovvero potenzialmente autosufficienti e conflittuali verso l'esterno, è piuttosto contenuto. D'altra parte, questa peculiarità comporta un supplemento d'impegno, da parte delle autorità italiane, nelle politiche di integrazione, in particolare per quel che riguarda la garanzia delle pari opportunità per gli stranieri, sia nel mondo della formazione sia nel mondo del lavoro.
Ricordo che da bambina, a Washington, dove la mia famiglia era arrivata perché mio padre era un diplomatico, con mio fratello abbiamo frequentato per alcune settimane dei corsi in una "americanization school" dove imparammo l'inglese e i fondamentali della Costituzione americana, prima di essere iscritti alle normali scuole americane. E un'esperienza comune, del resto, a molti Paesi europei, dove, in ambito scolastico, sono previsti spazi e tempi dedicati ai ragazzi immigrati, allo scopo di superare le difficoltà di inserimento di ordine linguistico e culturale.
La classe ponte è uno strumento di integrazione, non di ghettizzazione come, per fortuna, autorevoli esponenti del mondo cattolico hanno recentemente ribadito, a cominciare dal cardinale Martino. Il "ghetto" non è quello della classe dove i bambini stranieri imparano i rudimenti della nostra cultura, ma è quello interiore, che nasce dall'impossibilità di comunicare. Inserire un bambino in un gruppo di cui non comprende la lingua, significa condannarlo all'isolamento o all'antagonismo sociale. Ma forse è proprio questo che vuole chi, ieri sul rilevamento delle impronte ai bambini nomadi e oggi sulle classi ponte, accusa il centrodestra di razzismo: a loro, evidentemente, conviene che l'emergenza-immigrazione non debba mai avere fine.
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