Ancora dal “Corriere della Sera” di oggi riprendo un pezzo di Pierluigi Battista sempre sul tema della protesta di questi giorni, intitolato “Scuola, il cinismo del doppio standard”. Un ottimo punto di partenza per una riflessione sull’ipocrisia che s’agita nella scuola e dintorni.
Ma se una frazione cospicua della classe dirigente, pur predicando l’intangibilità della scuola pubblica così com’è, spedisce i propri figli nelle scuole private, è solo un deplorevole pettegolezzo sottolinearne la plateale incoerenza? Non le viene in mente che se la libera scelta di scuole diverse da quella pubblica è resa possibile solo e soltanto dalle favorevoli possibilità economiche, è legittimo e plausibile definire quella scelta come il frutto di un privilegio, il trionfo di un doppio binario mentale, un divario troppo marcato tra i princìpi che si proclamano e il modo concreto di prefigurare il futuro dei propri figli. E non si percepisce, in questo divario, il senso di una resa, di una rassegnata accettazione dell’ineluttabile decadimento della scuola pubblica, del destino grigio e desolante che attende chi non frequenta le scuole dove le lingue straniere sono coltivate, e la conoscenza non assume quell’aspetto spappolato e informe tipico di molti istituti scolastici degradati e abbandonati? E non si interrogano sul perché, se i figli delle (poche) famiglie italiane che hanno nel loro futuro un apprendistato all’estero e un titolo di studio meritatamente guadagnato nelle università più prestigiose del mondo, non accade mai il contrario, non succede mai o quasi mai che il figlio di qualche facoltosa famiglia europea o americana si rivolga alle scuole italiane per riceverne istruzione, sapere, formazione? E non è ingiusta questa sottile, non detta, mai confessata deriva classista mentre si finge dì non vedere che una scuola pubblica dove il merito non conta niente è una scuola che conserva sì la sua titolarità pubblica ma ha smarrito il significato della sua natura democratica? Dove gli insegnanti che valgono (e ce ne sono, tanti ma ridotti al silenzio dell’impotenza) sono mortificati dalla mediocrità, dalla notte burocratica che svuota l’anima, uccide ogni passione, spegne ogni scintilla di autentico amore per la cultura, lascia risucchiare nella logora e mal pagata routine quotidiana ogni ambizione e qualsiasi progetto di vita? Rinserrati nelle loro auree nicchie d’eccellenza, i genitori che bocciano con furore ogni parvenza di riforma della scuola pubblica ma proteggono i loro figli dalla sorte di frustrazione e dì insignificanza cui sono condannati tutti gli altri, pensano davvero che prima o poi nessuno chiederà il conto di un così cinico doppio standard? Non capiscono che prima o poi dovranno fronteggiare chi si ribellerà all’insensatezza di una scuola che soffre in modo umiliante ogni comparazione con le nazioni a noi più simili? Che si sta recitando in questi giorni nelle piazze italiane una fiera grottesca dell’ipocrisia, senza che ci si domandi perché l’università italiana è ridotta in condizioni miserevoli, perché è così diffusa la fatalistica convinzione che tanto non c’è più niente da fare per la scuola italiana, tanto la partita è perduta? Che se gli studenti applicassero davvero la massima secondo cui «ribellarsi è giusto», il bersaglio della loro rabbia dovrebbe essere un po’ più chiaro e più circoscritto? E se loro se ne vanno nelle isole beate dell’«eccellenza», che titolo hanno più per parlare, e per difendere l’indifendibile, senza nemmeno un po’ di convinzione?
Ma se una frazione cospicua della classe dirigente, pur predicando l’intangibilità della scuola pubblica così com’è, spedisce i propri figli nelle scuole private, è solo un deplorevole pettegolezzo sottolinearne la plateale incoerenza? Non le viene in mente che se la libera scelta di scuole diverse da quella pubblica è resa possibile solo e soltanto dalle favorevoli possibilità economiche, è legittimo e plausibile definire quella scelta come il frutto di un privilegio, il trionfo di un doppio binario mentale, un divario troppo marcato tra i princìpi che si proclamano e il modo concreto di prefigurare il futuro dei propri figli. E non si percepisce, in questo divario, il senso di una resa, di una rassegnata accettazione dell’ineluttabile decadimento della scuola pubblica, del destino grigio e desolante che attende chi non frequenta le scuole dove le lingue straniere sono coltivate, e la conoscenza non assume quell’aspetto spappolato e informe tipico di molti istituti scolastici degradati e abbandonati? E non si interrogano sul perché, se i figli delle (poche) famiglie italiane che hanno nel loro futuro un apprendistato all’estero e un titolo di studio meritatamente guadagnato nelle università più prestigiose del mondo, non accade mai il contrario, non succede mai o quasi mai che il figlio di qualche facoltosa famiglia europea o americana si rivolga alle scuole italiane per riceverne istruzione, sapere, formazione? E non è ingiusta questa sottile, non detta, mai confessata deriva classista mentre si finge dì non vedere che una scuola pubblica dove il merito non conta niente è una scuola che conserva sì la sua titolarità pubblica ma ha smarrito il significato della sua natura democratica? Dove gli insegnanti che valgono (e ce ne sono, tanti ma ridotti al silenzio dell’impotenza) sono mortificati dalla mediocrità, dalla notte burocratica che svuota l’anima, uccide ogni passione, spegne ogni scintilla di autentico amore per la cultura, lascia risucchiare nella logora e mal pagata routine quotidiana ogni ambizione e qualsiasi progetto di vita? Rinserrati nelle loro auree nicchie d’eccellenza, i genitori che bocciano con furore ogni parvenza di riforma della scuola pubblica ma proteggono i loro figli dalla sorte di frustrazione e dì insignificanza cui sono condannati tutti gli altri, pensano davvero che prima o poi nessuno chiederà il conto di un così cinico doppio standard? Non capiscono che prima o poi dovranno fronteggiare chi si ribellerà all’insensatezza di una scuola che soffre in modo umiliante ogni comparazione con le nazioni a noi più simili? Che si sta recitando in questi giorni nelle piazze italiane una fiera grottesca dell’ipocrisia, senza che ci si domandi perché l’università italiana è ridotta in condizioni miserevoli, perché è così diffusa la fatalistica convinzione che tanto non c’è più niente da fare per la scuola italiana, tanto la partita è perduta? Che se gli studenti applicassero davvero la massima secondo cui «ribellarsi è giusto», il bersaglio della loro rabbia dovrebbe essere un po’ più chiaro e più circoscritto? E se loro se ne vanno nelle isole beate dell’«eccellenza», che titolo hanno più per parlare, e per difendere l’indifendibile, senza nemmeno un po’ di convinzione?
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