Ancora un articolo da “Il Giornale” di oggi. È un’analisi di Vittorio Macioce, titolo: “Come si fa a dialogare con Walter?”. Utile per riflettere.
Il dialogo qualche volta è una bella tentazione. È il sogno di una democrazia senza rancori, dove maggioranza e opposizione prendono il tè alle cinque, vanno a cena la sera e quando votano in Parlamento lo fanno con una mano sulla coscienza. C’è qualcosa dell’antica concordia ciceroniana in tutto questo. Peccato che anche Marco Tullio abbia fallito. Il suo tentativo di barcamenarsi tra Cesare e Pompeo, tra chi voleva le riforme e chi sognava di blindare il passato oligarchico, è apparso come un tentennamento, l’ambiguità di chi cerca nel centro il luogo dove tutti i conflitti si annullano. È una mezza utopia.
In questa Italia, in apparenza post ideologica, il dialogo non riesce a superare il muro delle belle parole. È un fantasma e i motivi sono parecchi. C’è, sullo sfondo, qualcosa che non passa. È quel mal di stomaco della sinistra che «resiste», quella che non riesce a vedere Berlusconi come un interlocutore legittimo. È un’anomalia, uno sfregio, una sconfitta perenne. Troppa gente all’interno dell’opposizione vive l’antiberlusconismo come una religione, un dovere, un impegno civile e per più di qualcuno un affare. I sacerdoti di questo culto laico sono diventati ricchi e famosi. E in qualche modo l’antiberlusconismo è una professione. La loro posizione è chiara, anche se un po’ rigida e ottusa. Non contano i voti, non conta la democrazia, non conta nulla: Berlusconi non deve governare perché è Berlusconi. E una cultura intransigente che considera il dialogo un tradimento. Il governo, con loro, potrebbe anche farsi piccolo piccolo, non cambierebbe nulla.
Non tutti gli uomini dell’opposizione sono così. Molti, a destra, hanno guardato con interesse il Veltroni post-elettorale. Era un leader sconfitto, ma sicuro del proprio ruolo. Si muoveva con una autorevolezza anglosassone. Tendeva la mano, diceva: se serve ci siamo. È durato un mattino. Vel- troni ha avuto paura. Si è sentito debole e accerchiato. Vedeva Di Pietro scamiciato in piazza e si sentiva fuori gioco. Guardava D’Alema con il baffo sospetto, sornione, in attesa, scettico, sarcastico, tagliente, con quell’espressione diffidente che sembra sempre dire: vai, vai, schiantati, che dopo tocca a me. D’Alema conosce bene il suo compagno di bottega e sa che Walter sotto stress va in palla. È uno di quei politici che non ama non essere amato. E uno che quando sente le critiche dietro le spalle si innervosisce e mostra il volto cattivo, ma scomposto. È così che Walter il buono si è ritrovato a inseguire le piazze. Quando ha visto la possibilità di dare forza all’onda anomala degli studenti ha pensato: questa è la mia occasione, Tra i giovani Veltroni si muove bene, ci sguazza, la sua raccolta di citazioni passa, quasi funziona. Ora il leader del Pd è convinto che si può dare scacco a Berlusconi. È una situazione difficile. La crisi economica fa paura. Collaborare? Adesso proprio no. E l’unità nazionale? Le responsabilità istituzionali? Belle parole, un vestito elegante. È un po’ come dire di aver letto tutta la Recherche. È un dovere da salotti buoni. La strada è un’altra cosa. Il piacere di leggere Proust anche. E non serve dirlo.
Qualcuno dice che in questo momento conviene alla maggioranza cercare il dialogo. C’è la crisi, appunto. È normale che bisogna rimboccarsi le maniche e remare tutti dalla stessa parte. Il problema è che ci vuole fiducia e se sulla barca c’è gente che fa l’onda, meglio navigare da soli. L’Italia deve uscire dalla mucillagine, dalla palude, dall’immobilismo di riforme sempre evocate e mai realizzate. Lo sanno tutti, a destra e sinistra. Ma c’è chi veste i panni reazionari di custode del passato. E il suo orizzonte. Quando vede il futuro trema e preferisce tirare a campare. Il welfare state non protegge più nessuno? Pazienza. Meglio tenere in piedi uno scheletro, che scommettere su qualcosa di nuovo, più efficace, flessibile, mirato. È qualcosa che la mente degli uomini del Novecento non considera. È un altro secolo e questi sono uomini del passato. Il discorso del welfare vale per ogni settore in cancrena. Berlusconi, invece, ha il dovere, come capo del governo, di portare questo Paese fuori dalla melma. È questo il momento in cui deve mostrare tutto il suo coraggio. Le riforme servono e vanno fatte. In Parlamento, certo. Ma senza subire ricatti, compromessi di basso profilo, tentennamenti, paure, interessi partigiani e corporativi. Berlusconi può cercare il dialogo con i riformatori, non può restare ostaggio di chi ha reso il Novecento un tabernacolo, un sepolcro maledetto. Il dialogo è una bella tentazione, ma questa volta non basta neppure Cicerone. E la sua eloquenza.
Il dialogo qualche volta è una bella tentazione. È il sogno di una democrazia senza rancori, dove maggioranza e opposizione prendono il tè alle cinque, vanno a cena la sera e quando votano in Parlamento lo fanno con una mano sulla coscienza. C’è qualcosa dell’antica concordia ciceroniana in tutto questo. Peccato che anche Marco Tullio abbia fallito. Il suo tentativo di barcamenarsi tra Cesare e Pompeo, tra chi voleva le riforme e chi sognava di blindare il passato oligarchico, è apparso come un tentennamento, l’ambiguità di chi cerca nel centro il luogo dove tutti i conflitti si annullano. È una mezza utopia.
In questa Italia, in apparenza post ideologica, il dialogo non riesce a superare il muro delle belle parole. È un fantasma e i motivi sono parecchi. C’è, sullo sfondo, qualcosa che non passa. È quel mal di stomaco della sinistra che «resiste», quella che non riesce a vedere Berlusconi come un interlocutore legittimo. È un’anomalia, uno sfregio, una sconfitta perenne. Troppa gente all’interno dell’opposizione vive l’antiberlusconismo come una religione, un dovere, un impegno civile e per più di qualcuno un affare. I sacerdoti di questo culto laico sono diventati ricchi e famosi. E in qualche modo l’antiberlusconismo è una professione. La loro posizione è chiara, anche se un po’ rigida e ottusa. Non contano i voti, non conta la democrazia, non conta nulla: Berlusconi non deve governare perché è Berlusconi. E una cultura intransigente che considera il dialogo un tradimento. Il governo, con loro, potrebbe anche farsi piccolo piccolo, non cambierebbe nulla.
Non tutti gli uomini dell’opposizione sono così. Molti, a destra, hanno guardato con interesse il Veltroni post-elettorale. Era un leader sconfitto, ma sicuro del proprio ruolo. Si muoveva con una autorevolezza anglosassone. Tendeva la mano, diceva: se serve ci siamo. È durato un mattino. Vel- troni ha avuto paura. Si è sentito debole e accerchiato. Vedeva Di Pietro scamiciato in piazza e si sentiva fuori gioco. Guardava D’Alema con il baffo sospetto, sornione, in attesa, scettico, sarcastico, tagliente, con quell’espressione diffidente che sembra sempre dire: vai, vai, schiantati, che dopo tocca a me. D’Alema conosce bene il suo compagno di bottega e sa che Walter sotto stress va in palla. È uno di quei politici che non ama non essere amato. E uno che quando sente le critiche dietro le spalle si innervosisce e mostra il volto cattivo, ma scomposto. È così che Walter il buono si è ritrovato a inseguire le piazze. Quando ha visto la possibilità di dare forza all’onda anomala degli studenti ha pensato: questa è la mia occasione, Tra i giovani Veltroni si muove bene, ci sguazza, la sua raccolta di citazioni passa, quasi funziona. Ora il leader del Pd è convinto che si può dare scacco a Berlusconi. È una situazione difficile. La crisi economica fa paura. Collaborare? Adesso proprio no. E l’unità nazionale? Le responsabilità istituzionali? Belle parole, un vestito elegante. È un po’ come dire di aver letto tutta la Recherche. È un dovere da salotti buoni. La strada è un’altra cosa. Il piacere di leggere Proust anche. E non serve dirlo.
Qualcuno dice che in questo momento conviene alla maggioranza cercare il dialogo. C’è la crisi, appunto. È normale che bisogna rimboccarsi le maniche e remare tutti dalla stessa parte. Il problema è che ci vuole fiducia e se sulla barca c’è gente che fa l’onda, meglio navigare da soli. L’Italia deve uscire dalla mucillagine, dalla palude, dall’immobilismo di riforme sempre evocate e mai realizzate. Lo sanno tutti, a destra e sinistra. Ma c’è chi veste i panni reazionari di custode del passato. E il suo orizzonte. Quando vede il futuro trema e preferisce tirare a campare. Il welfare state non protegge più nessuno? Pazienza. Meglio tenere in piedi uno scheletro, che scommettere su qualcosa di nuovo, più efficace, flessibile, mirato. È qualcosa che la mente degli uomini del Novecento non considera. È un altro secolo e questi sono uomini del passato. Il discorso del welfare vale per ogni settore in cancrena. Berlusconi, invece, ha il dovere, come capo del governo, di portare questo Paese fuori dalla melma. È questo il momento in cui deve mostrare tutto il suo coraggio. Le riforme servono e vanno fatte. In Parlamento, certo. Ma senza subire ricatti, compromessi di basso profilo, tentennamenti, paure, interessi partigiani e corporativi. Berlusconi può cercare il dialogo con i riformatori, non può restare ostaggio di chi ha reso il Novecento un tabernacolo, un sepolcro maledetto. Il dialogo è una bella tentazione, ma questa volta non basta neppure Cicerone. E la sua eloquenza.
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