Le motivazioni della sentenza sul G8. Riproduco qui due articoli tratta dai quotidiani di oggi. Il primo è di Giuseppe D’Avanzo su “La Repubblica”, titolo: «Le motivazioni della sentenza sul G8 e il “tradimento” della polizia. “A Bolzaneto ci fu tortura”.
L’asimmetria è manifesta. Se partecipo a una manifestazione di piazza e pochi o molti violenti scatenano una guerriglia urbana, anch’io, che pacificamente ho aderito all’iniziativa, sono responsabile per la polizia di quella guerriglia. Se, al contrario, ho addosso una divisa di poliziotto, il criterio che stringe in un solo nodo, con le stesse responsabilità, e i pacifici e i violenti non vale più. Anche se sono in servizio in una caserma dove si torturano gli arrestati, anche se sono nella stessa stanza a pochi metri da quel castigo ingiusto, non mi può essere attribuita la responsabilità dei trattamenti inumani inflitti da altri. No, occorre che ogni gesto degradante (naturalmente provato) abbia un suo responsabile diretto (naturalmente identificato in modo inequivocabile). Una fortunata coincidenza ci mette sotto gli occhi, nelle stesse ore, gli esiti del nuovo “diritto diseguale”.
A Roma il procuratore generale della Cassazione definisce «deviata» una cultura poliziesca che, identificando una persona che partecipa a una manifestazione, le attribuisce «tutti i reati commessi durante la manifestazione» (è accaduto l’11 marzo 2006 a Milano, in Corso Buenos Aires, durante una manifestazione antifascista). A Genova diventano pubbliche le motivazioni per le torture della caserma di polizia di Bolzaneto durante i giorni del G8, tra il 20 e 22 luglio 2001. E si legge che - non c’è dubbio - le violenze, le umiliazioni consumate in quella caserma e «pienamente provate avrebbero potuto ricomprendersi nella nozione di “tortura” delle convenzioni internazionali». Ma in Italia quel reato non c’è e allora bisogna accontentarsi di descrivere quelle prepotenze come «condotte inumane e degradanti». Sono comportamenti «che hanno tradito il giuramento di fedeltà alle leggi della Repubblica italiana e alla Carta Costituzionale, inferto un vulnus gravissimo, oltre a coloro che ne sono stati vittime, anche alla dignità delle forze della polizia di Stato e della polizia penitenziaria e alla fiducia della quale detti Corpi devono godere nella comunità dei cittadini». Epperò, dall’accertamento delle condotte vessatorie «non discende automaticamente che, di quelle condotte, debbano necessariamente rispondere tutti gli imputati». Ne risponderanno individualmente soltanto i responsabili diretti. «Purtroppo la maggior parte di coloro che si sono resi direttamente responsabili delle vessazioni risultate provate in dibattimento è rimasta ignota. Scrivono i giudici: il limite di questo processo è rappresentato dal fatto che quei nomi, quelle facce, gli aguzzini non sono saltati fuori «per difficoltà oggettive, non ultima delle quali la scarsa collaborazione delle Forze di Polizia, originata, forse, da un malinteso "spirito di corpo"».
Non c’è dubbio che il procuratore generale della Cassazione e i giudici di Genova abbiano ragione: la responsabilità penale deve essere personale. C’è però una differenza non trascurabile: da un poliziotto ci si attende una leale collaborazione nell’accertamento dei fatti, non “spirito di corpo”, non complicità, non omertà. Quei poliziotti, che hanno violato la Costituzione nelle vie di Genova, alla Diaz, a Bolzaneto avrebbero dovuto essere trascinati dinanzi al giudice dai loro stessi commilitoni. Al contrario, la storia dei processi di Genova è una parabola sempre uguale di connivenze, silenzi, reticenze, favoreggiamento, fughe dal processo come quella promossa proprio in questi giorni da un questore accusato di falsa testimonianza con l’allora capo della polizia Gianni De Gennaro. Se la polizia vuole finalmente chiudere con la verità una pagina di vergogna della sua storia, come ha promesso di fare il capo della polizia Antonio Manganelli, non ha che da rendere concreto il suo impegno accompagnandolo con l’agenda ragionevolmente proposta dal «Comitato verità e giustizia per Genova». Scuse formali dei vertici dello Stato alle vittime degli abusi e a tutti i cittadini; collocazione immediata dei condannati a ruoli che non comportino una relazione diretta con i cittadini; massima collaborazione con la magistratura per le inchieste ancora aperte. Da parte sua, il Parlamento discuta al più presto proposte di legge di “riforma” delle forze di polizia: l’obbligo per gli agenti in servizio di ordine pubblico di indossare codici d’identificazione; l’istituzione di un organismo indipendente cui denunciare eventuali abusi delle forze di sicurezza. Sono strumenti diffusi in molti paesi europei. Si può concordare che «l’esperienza di Genova dimostra che il nostro paese ne ha bisogno».
Il secondo articolo è tratto da “La Stampa” ed è a firma di Alessandra Pieracci, titolo: «Le motivazioni dei giudici dopo la sentenza. “A Bolzaneto torture inconcepibili”. La polizia accusata anche di omertà. “Non è stato possibile colpire i vertici”.
«Comportamenti che rivestono, a pieno titolo, i caratteri del trattamento inumano e degradante commessi da autori che hanno tradito il giuramento di fedeltà alle leggi della Repubblica Italiana e alla Carta Costituzionale», causando un danno gravissimo, «oltre a coloro che ne sono stati vittime, anche alla dignità delle Forze della Polizia di Stato e della Polizia Penitenziaria e alla fiducia della quale detti Corpi devono godere». Parole dure quelle usate dai giudici nella motivazione, 451 pagine depositate ieri, della sentenza che nel luglio scorso ha concluso il processo di primo grado per le violenze inferte ai fermati nella caserma di Bolzaneto, durante il summit del G8.
«La mancanza, nel nostro sistema penale, di uno specifico reato di "tortura" ha costretto l`ufficio del pm a circoscrivere le condotte inumane e degradanti (che avrebbero potuto senza dubbio ricomprendersi nella nozione di tortura adottata nelle convenzioni internazionali) compiute in danno delle parti offese nell’ambito, certamente non del tutto adeguato, dell’abuso di ufficio» si legge nelle motivazioni. E l’elenco dei comportamenti violenti è lungo e dettagliato: insulti e percosse, passaggio in corridoio tra schiaffi, sgambetti, calci e sputi, costrizione in ginocchio per ore, dolorose e umilianti senza risparmiare i feriti, percosse, manganellate, spray urticanti, insulti, minacce di stupro e di morte, inni fascisti e frasi antisemite «intollerabili sulla bocca di appartenenti a Forze di polizia di uno Stato democratico, che pone il ripudio del nazifascismo tra i valori della propria Costituzione», tanto più «ripugnanti e vessatorie in quanto dirette contro persone tutte appartenenti a un’area politico-sociale che si ricollega ai principi del pacifismo, dell’antifascismo e dell’antirazzismo».
Non solo. I magistrati accusano la polizia di «scarsa collaborazione originata, forse, da un malinteso spirito di corpo» durante l’indagine «lunga, laboriosa e attenta» da parte dei pm Patrizia Petruzziello e Ranieri Miniati. Di conseguenza, non è stato possibile accertare e provare le singole responsabilità. È uno dei presupposti che spiega le decisioni del tribunale presieduto da Renato De Lucchi: 15 condanne su 44 richieste, con pene variabili fra i 5 mesi e i 5 anni.
E non è stato possibile attribuire ai «vertici» la responsabilità di quanto avvenuto nella caserma di Bolzaneto perché sarebbe stato necessario raggiungere la prova della loro presenza ai fatti e della «perfetta percezione di quanto stava accadendo», ovvero di un comportamento doloso, quindi con la precisa volontà di procurare un danno. Il concetto di responsabilità provata è ribadito nelle condanne più pesanti, 5 anni per Biagio Gugliotta, responsabile della sicurezza del sito di Bolzaneto, 2 anni e 4 mesi per i funzionati Alessandro Perugini e Anna Poggi.
Il quadro dipinto dai giudici stigmatizza anche la «così palese e grave carenza logistica da parte dei responsabili di vertice del sito di Bolzaneto», nonché «la pessima organizzazione del servizio di ricezione e gestione dei detenuti realizzata dalle strutture di comando delle Forze di Polizia operanti in occasione del G8».
L’asimmetria è manifesta. Se partecipo a una manifestazione di piazza e pochi o molti violenti scatenano una guerriglia urbana, anch’io, che pacificamente ho aderito all’iniziativa, sono responsabile per la polizia di quella guerriglia. Se, al contrario, ho addosso una divisa di poliziotto, il criterio che stringe in un solo nodo, con le stesse responsabilità, e i pacifici e i violenti non vale più. Anche se sono in servizio in una caserma dove si torturano gli arrestati, anche se sono nella stessa stanza a pochi metri da quel castigo ingiusto, non mi può essere attribuita la responsabilità dei trattamenti inumani inflitti da altri. No, occorre che ogni gesto degradante (naturalmente provato) abbia un suo responsabile diretto (naturalmente identificato in modo inequivocabile). Una fortunata coincidenza ci mette sotto gli occhi, nelle stesse ore, gli esiti del nuovo “diritto diseguale”.
A Roma il procuratore generale della Cassazione definisce «deviata» una cultura poliziesca che, identificando una persona che partecipa a una manifestazione, le attribuisce «tutti i reati commessi durante la manifestazione» (è accaduto l’11 marzo 2006 a Milano, in Corso Buenos Aires, durante una manifestazione antifascista). A Genova diventano pubbliche le motivazioni per le torture della caserma di polizia di Bolzaneto durante i giorni del G8, tra il 20 e 22 luglio 2001. E si legge che - non c’è dubbio - le violenze, le umiliazioni consumate in quella caserma e «pienamente provate avrebbero potuto ricomprendersi nella nozione di “tortura” delle convenzioni internazionali». Ma in Italia quel reato non c’è e allora bisogna accontentarsi di descrivere quelle prepotenze come «condotte inumane e degradanti». Sono comportamenti «che hanno tradito il giuramento di fedeltà alle leggi della Repubblica italiana e alla Carta Costituzionale, inferto un vulnus gravissimo, oltre a coloro che ne sono stati vittime, anche alla dignità delle forze della polizia di Stato e della polizia penitenziaria e alla fiducia della quale detti Corpi devono godere nella comunità dei cittadini». Epperò, dall’accertamento delle condotte vessatorie «non discende automaticamente che, di quelle condotte, debbano necessariamente rispondere tutti gli imputati». Ne risponderanno individualmente soltanto i responsabili diretti. «Purtroppo la maggior parte di coloro che si sono resi direttamente responsabili delle vessazioni risultate provate in dibattimento è rimasta ignota. Scrivono i giudici: il limite di questo processo è rappresentato dal fatto che quei nomi, quelle facce, gli aguzzini non sono saltati fuori «per difficoltà oggettive, non ultima delle quali la scarsa collaborazione delle Forze di Polizia, originata, forse, da un malinteso "spirito di corpo"».
Non c’è dubbio che il procuratore generale della Cassazione e i giudici di Genova abbiano ragione: la responsabilità penale deve essere personale. C’è però una differenza non trascurabile: da un poliziotto ci si attende una leale collaborazione nell’accertamento dei fatti, non “spirito di corpo”, non complicità, non omertà. Quei poliziotti, che hanno violato la Costituzione nelle vie di Genova, alla Diaz, a Bolzaneto avrebbero dovuto essere trascinati dinanzi al giudice dai loro stessi commilitoni. Al contrario, la storia dei processi di Genova è una parabola sempre uguale di connivenze, silenzi, reticenze, favoreggiamento, fughe dal processo come quella promossa proprio in questi giorni da un questore accusato di falsa testimonianza con l’allora capo della polizia Gianni De Gennaro. Se la polizia vuole finalmente chiudere con la verità una pagina di vergogna della sua storia, come ha promesso di fare il capo della polizia Antonio Manganelli, non ha che da rendere concreto il suo impegno accompagnandolo con l’agenda ragionevolmente proposta dal «Comitato verità e giustizia per Genova». Scuse formali dei vertici dello Stato alle vittime degli abusi e a tutti i cittadini; collocazione immediata dei condannati a ruoli che non comportino una relazione diretta con i cittadini; massima collaborazione con la magistratura per le inchieste ancora aperte. Da parte sua, il Parlamento discuta al più presto proposte di legge di “riforma” delle forze di polizia: l’obbligo per gli agenti in servizio di ordine pubblico di indossare codici d’identificazione; l’istituzione di un organismo indipendente cui denunciare eventuali abusi delle forze di sicurezza. Sono strumenti diffusi in molti paesi europei. Si può concordare che «l’esperienza di Genova dimostra che il nostro paese ne ha bisogno».
Il secondo articolo è tratto da “La Stampa” ed è a firma di Alessandra Pieracci, titolo: «Le motivazioni dei giudici dopo la sentenza. “A Bolzaneto torture inconcepibili”. La polizia accusata anche di omertà. “Non è stato possibile colpire i vertici”.
«Comportamenti che rivestono, a pieno titolo, i caratteri del trattamento inumano e degradante commessi da autori che hanno tradito il giuramento di fedeltà alle leggi della Repubblica Italiana e alla Carta Costituzionale», causando un danno gravissimo, «oltre a coloro che ne sono stati vittime, anche alla dignità delle Forze della Polizia di Stato e della Polizia Penitenziaria e alla fiducia della quale detti Corpi devono godere». Parole dure quelle usate dai giudici nella motivazione, 451 pagine depositate ieri, della sentenza che nel luglio scorso ha concluso il processo di primo grado per le violenze inferte ai fermati nella caserma di Bolzaneto, durante il summit del G8.
«La mancanza, nel nostro sistema penale, di uno specifico reato di "tortura" ha costretto l`ufficio del pm a circoscrivere le condotte inumane e degradanti (che avrebbero potuto senza dubbio ricomprendersi nella nozione di tortura adottata nelle convenzioni internazionali) compiute in danno delle parti offese nell’ambito, certamente non del tutto adeguato, dell’abuso di ufficio» si legge nelle motivazioni. E l’elenco dei comportamenti violenti è lungo e dettagliato: insulti e percosse, passaggio in corridoio tra schiaffi, sgambetti, calci e sputi, costrizione in ginocchio per ore, dolorose e umilianti senza risparmiare i feriti, percosse, manganellate, spray urticanti, insulti, minacce di stupro e di morte, inni fascisti e frasi antisemite «intollerabili sulla bocca di appartenenti a Forze di polizia di uno Stato democratico, che pone il ripudio del nazifascismo tra i valori della propria Costituzione», tanto più «ripugnanti e vessatorie in quanto dirette contro persone tutte appartenenti a un’area politico-sociale che si ricollega ai principi del pacifismo, dell’antifascismo e dell’antirazzismo».
Non solo. I magistrati accusano la polizia di «scarsa collaborazione originata, forse, da un malinteso spirito di corpo» durante l’indagine «lunga, laboriosa e attenta» da parte dei pm Patrizia Petruzziello e Ranieri Miniati. Di conseguenza, non è stato possibile accertare e provare le singole responsabilità. È uno dei presupposti che spiega le decisioni del tribunale presieduto da Renato De Lucchi: 15 condanne su 44 richieste, con pene variabili fra i 5 mesi e i 5 anni.
E non è stato possibile attribuire ai «vertici» la responsabilità di quanto avvenuto nella caserma di Bolzaneto perché sarebbe stato necessario raggiungere la prova della loro presenza ai fatti e della «perfetta percezione di quanto stava accadendo», ovvero di un comportamento doloso, quindi con la precisa volontà di procurare un danno. Il concetto di responsabilità provata è ribadito nelle condanne più pesanti, 5 anni per Biagio Gugliotta, responsabile della sicurezza del sito di Bolzaneto, 2 anni e 4 mesi per i funzionati Alessandro Perugini e Anna Poggi.
Il quadro dipinto dai giudici stigmatizza anche la «così palese e grave carenza logistica da parte dei responsabili di vertice del sito di Bolzaneto», nonché «la pessima organizzazione del servizio di ricezione e gestione dei detenuti realizzata dalle strutture di comando delle Forze di Polizia operanti in occasione del G8».
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