“Il Giornale” pubblica oggi un commento di Gianni Baget Bozzo, titolo: “Se il giornale-partito non capisce la realtà”.
La demonizzazione di Berlusconi ha raggiunto un limite oltre il quale non c’è che l’invito all’Aventino o alla resistenza armata. Questa volta il paragone con Mussolini non consiste più nel comparare il modello al maestro, ma nell’affermare che il modello ha superato il maestro. Il Ventennio berlusconiano è peggio dei Ventennio fascista.
L’aveva già detto Asor Rosa, e ora Massimo Giannini ci pubblica un libro, in cui il leader del Popolo della Libertà esprime un fascismo senza dittatura e senza camicie nere, senza confino e senza tribunali speciali. Ma è peggiore. Corrompe l’anima e ottiene il consenso spontaneo invece di quello imposto. La destra attuale non è il «mostro mite» di cui parla Raffaele Simone. Non suscita passioni forti, opera sulle passioni deboli evocate da Giuseppe De Rita sul Corriere della Sera. Un popolo è invitato a uscire dalla storia e a rimanere nella cronaca, delegando politicamente il peso del vivere a un incantatore che rappresenta se stesso come un cittadino comune e impersona nel suo potere, finanche ostentato, il potere dei singoli, che la caduta delle religioni politiche, quelle della sinistra, ha lasciato senza società. E quindi soli. Ridotti a individui, essi delegano il potere democratico all’uomo che li rappresenta dando loro un’immagine piacevole di sé. Questa è la fine del partito intellettuale, che ha lottato per togliere alla sinistra il piacere di essere sinistra, farla sentire legittimata dal viversi in qualche modo come borghese per essere ammessa al salotto buono della sapienza moderna.
Il libro di Massimo Giannini rivela che, nonostante sia sempre molto diffusa, La Repubblica si sente emarginata. Grida al fascismo e nessuno pensa che dica sul serio. E, soprattutto, non sa più chi sostenere come suo campione nell’arengo politico: il Partito Democratico è uno spezzatino in cui ogni corrente ha la sua televisione e ricorre così al ruolo dell’immagine, all’ostensione del volto. Ricorre cioè proprio agli strumenti con cui il pericolo pubblico numero uno ha costruito il consenso ed è divenuto l’immagine di quel che è ciascuno sul piano politico.
Qui tutto è falso: Berlusconi non è quello che Giannini descrive. Il suo elettorato non è berlusconiano come appare dalla psicanalisi di massa fatta dal vice direttore di Repubblica. Fosse vero che l’Italia ha trovato una soluzione così a buon mercato ed è diventata improvvisamente unanime! È Repubblica ad aver perso il contatto con la realtà. È la realtà che non è diventata l’immagine che il partito intellettuale dà di essa. Eugenio Scalfari e Barbara Spinelli scrivono cose che non ci sono per un popolo che non c’è.
Verranno le elezioni abruzzesi, che sono il punto di verità per il Partito Democratico, che non è così a mal partito come Giannini pensa. Lì si vedrà se Di Pietro ha fatto prigioniera la sinistra con un’operazione reale che ha, essa sì, il volto del fascismo, con la sua congiunzione di tratti dell’estrema destra e dell’estrema sinistra. Se Di Pietro perderà in casa propria, il Pd dovrà capire che la lunga marcia con l’inquisitore principe è finita. E se le cose andassero bene per Di Pietro e per Veltroni, D’Alema e Marini dovrebbero dare battaglia.
La Cgil farà il suo sciopero, Veltroni farà le sue elezioni abruzzesi e poi si vedrà se il Partito Democratico intende continuare la lunga marcia verso il nulla oppure comprenderà che l’occasione d’oro per un partito di sinistra è governare la congiuntura in cui lo Stato deve garantire che il libero mercato continui. Una vera sfida riformista, evidentemente in compagnia di Berlusconi e dell’attuale maggioranza. Può essere che allora la sinistra comprenda che La Repubblica e il partito intellettuale l’hanno condotta in una trappola per topi. Non perdiamo la speranza.
La demonizzazione di Berlusconi ha raggiunto un limite oltre il quale non c’è che l’invito all’Aventino o alla resistenza armata. Questa volta il paragone con Mussolini non consiste più nel comparare il modello al maestro, ma nell’affermare che il modello ha superato il maestro. Il Ventennio berlusconiano è peggio dei Ventennio fascista.
L’aveva già detto Asor Rosa, e ora Massimo Giannini ci pubblica un libro, in cui il leader del Popolo della Libertà esprime un fascismo senza dittatura e senza camicie nere, senza confino e senza tribunali speciali. Ma è peggiore. Corrompe l’anima e ottiene il consenso spontaneo invece di quello imposto. La destra attuale non è il «mostro mite» di cui parla Raffaele Simone. Non suscita passioni forti, opera sulle passioni deboli evocate da Giuseppe De Rita sul Corriere della Sera. Un popolo è invitato a uscire dalla storia e a rimanere nella cronaca, delegando politicamente il peso del vivere a un incantatore che rappresenta se stesso come un cittadino comune e impersona nel suo potere, finanche ostentato, il potere dei singoli, che la caduta delle religioni politiche, quelle della sinistra, ha lasciato senza società. E quindi soli. Ridotti a individui, essi delegano il potere democratico all’uomo che li rappresenta dando loro un’immagine piacevole di sé. Questa è la fine del partito intellettuale, che ha lottato per togliere alla sinistra il piacere di essere sinistra, farla sentire legittimata dal viversi in qualche modo come borghese per essere ammessa al salotto buono della sapienza moderna.
Il libro di Massimo Giannini rivela che, nonostante sia sempre molto diffusa, La Repubblica si sente emarginata. Grida al fascismo e nessuno pensa che dica sul serio. E, soprattutto, non sa più chi sostenere come suo campione nell’arengo politico: il Partito Democratico è uno spezzatino in cui ogni corrente ha la sua televisione e ricorre così al ruolo dell’immagine, all’ostensione del volto. Ricorre cioè proprio agli strumenti con cui il pericolo pubblico numero uno ha costruito il consenso ed è divenuto l’immagine di quel che è ciascuno sul piano politico.
Qui tutto è falso: Berlusconi non è quello che Giannini descrive. Il suo elettorato non è berlusconiano come appare dalla psicanalisi di massa fatta dal vice direttore di Repubblica. Fosse vero che l’Italia ha trovato una soluzione così a buon mercato ed è diventata improvvisamente unanime! È Repubblica ad aver perso il contatto con la realtà. È la realtà che non è diventata l’immagine che il partito intellettuale dà di essa. Eugenio Scalfari e Barbara Spinelli scrivono cose che non ci sono per un popolo che non c’è.
Verranno le elezioni abruzzesi, che sono il punto di verità per il Partito Democratico, che non è così a mal partito come Giannini pensa. Lì si vedrà se Di Pietro ha fatto prigioniera la sinistra con un’operazione reale che ha, essa sì, il volto del fascismo, con la sua congiunzione di tratti dell’estrema destra e dell’estrema sinistra. Se Di Pietro perderà in casa propria, il Pd dovrà capire che la lunga marcia con l’inquisitore principe è finita. E se le cose andassero bene per Di Pietro e per Veltroni, D’Alema e Marini dovrebbero dare battaglia.
La Cgil farà il suo sciopero, Veltroni farà le sue elezioni abruzzesi e poi si vedrà se il Partito Democratico intende continuare la lunga marcia verso il nulla oppure comprenderà che l’occasione d’oro per un partito di sinistra è governare la congiuntura in cui lo Stato deve garantire che il libero mercato continui. Una vera sfida riformista, evidentemente in compagnia di Berlusconi e dell’attuale maggioranza. Può essere che allora la sinistra comprenda che La Repubblica e il partito intellettuale l’hanno condotta in una trappola per topi. Non perdiamo la speranza.
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